IX puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

IX puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XVII L’emorroissa, la figlia di Giairo Anche i bambini vengono a curiosare, spesso Gesù scherza con loro, anche se fanno chiasso e sono molesti. Ma se qualcuno tra i discepoli prova ad allontanarli, Gesù lo ferma. Lascia che i ragazzetti gli girino intorno. Anche nei giorni in cui è più stanco e silenzioso, come questo, non allontana nessuno, neanche i più piccoli che camminano verso di lui mentre le madri distratte accompagnano vecchi padri storpi, o sostengono i figli più grandi ciechi. Ogni volta che entrano in villaggi come questo si precipitano in tanti. Anche ora la calca s’è fatta asfissiante. Sole alto. Un uomo si è gettato ai suoi piedi mentre poco fa sostavano all’ombra e Gesù parlava alla gente. Subito si era fatto silenzio perché l’uomo è uno dei capi della sinagoga. È temuto e rispettato. Si chiama Giairo. Nessuno lo aveva mai visto così prostrato. «Signore,» ha detto senza alzare la fronte «mia figlia è molto ammalata, sta per morire, vieni da lei». Gesù si è alzato subito, e si sono incamminati. La folla si è messa a seguirli, li circonda. Pietro guarda Gesù silenzioso, strattonato, toccato, chiamato. Lui resta silenzioso, offre la mano, accenna un sorriso, bisbiglia qualcosa mentre accarezza la fronte di qualcuno di questi malati. Il caldo è asfissiante. Dovrebbero cercare una casa, qualcuno che offra a Gesù una stanza, un pasto. I discepoli che erano andati avanti a cercare ospitalità non sono tornati, non hanno trovato, stanno ancora cercando. Con il caldo la pressione della folla si fa insopportabile. Gesù cammina dietro Giairo, ha i capelli appiccicati alla fronte per il sudore. Il suo sguardo ha deviazioni di diamante notturno in mezzo a pupille dilatate, occhi arrossati. Ci sono momenti in cui la folla ondeggia. Alcuni ne escono di corsa, gridando parole incomprensibili. Alcuni provano a infilarsi nel mucchio per cercare di raggiungere il centro, dove Gesù cammina a rilento, attorniato da alcuni dei discepoli. Al loro passaggio in un punto stretto della strada, tra alcune casupole dove la strada si restringe tra le pareti di terra e paglia, una donna senza farsi notare si incunea in mezzo alla gente, e si protende quasi stendendosi a terra, a rischio di essere calpestata. È tutta fasciata, avvolta in un panno nero, sudicio. La sua mano si fa largo tra le schiene pressate, il suo volto velato come una morta tra le braccia, i gomiti, i lembi di vesti, certe bisacce unte, le stampelle. Gesù si sta facendo strada faticosamente, la casa di Giairo non è distante e l’uomo ha fretta di arrivare. Spintonano, c’è chi protesta, chi vorrebbe parlargli, chi chiama il suo nome mentre viene respinto indietro dalla calca. Poi, appena passata quella strettoia tra le case, Gesù si ferma di colpo. I discepoli si bloccano anch’essi, la folla ondeggia. «Chi mi ha toccato?» chiede. Pietro lo guarda in modo interrogativo. Sono ore che la gente si accalca per una sua occhiata, una carezza, uno sfioramento. Non sa cosa dire, fa un sorriso e si guarda intorno. Anche Filippo e Tommaso, tutti sudati, sorridono un po’ smarriti. «L’emorroissa…» bisbiglia qualcuno all’orecchio di Andrea. E, dal groviglio di gambe e corpi poco dietro di loro, emerge la donna tutta coperta di vesti nere, fasciata e sudicia. Emerge come un animale antico, con un mugolio rovinoso, il viso e la testa coperti dal telo nero orrido. Risale dalla polvere mentre alcuni si scansano il poco che è possibile da lei, che alza e rotea lentamente il busto verso Gesù, mentre inizia ad aprirsi le vesti con le mani magre, macchiate di terra e sangue. Il suo corpo emana un fetore greve. Odore di sangue morto. Molti ora sono voltati verso di lei. Chi è indietro e ancora deve passare la strettoia spinge, si alza sulle punte, cerca di capire perché si sono fermati. «Sono stata io… Sono diciotto anni…» dice la donna ridendo e piangendo quasi impercettibilmente, in un tremito solo. Con un movimento lentissimo ora tira, strappa le fasce dalle braccia, dal petto. «Diciotto anni che perdo sangue… sempre debole, immonda…» Mostra la carne bianchiccia, chiazzata di macchie cupe, le grinze sotto il collo, le spalle di solitudine e il seno magro e appassito fasciato da un telo sporco. In questo punto della folla si è fatto silenzio, si è aperta una rosa di stupore muto. «I medici mi hanno fatto di tutto, ma nessuno mi ha mai guarita… Mi dicevo… se solo tocco il suo mantello, io… già sento le forze tornare, e io…» Il viso ora liberato dalla fasciatura si mostra pallidissimo e magro, i capelli le vanno ai lati come serpi, gli occhi in quella magrezza stanno diventando immensi. Gesù fa un passo verso di lei, le prende una mano. Lei la lascia timida nelle sue: «La tua fede ti ha salvata. Va’ in pace». La donna se ne va, una amica o forse una parente bassa e grossa la abbraccia, la copre, ride, fanno una loro piccola festa di grida sommesse, e cercano di uscire dalla folla. Andrea le guarda. Il volto di Gesù si abbassa, sembra esausto. In quel momento dalla via davanti a loro arriva di corsa un uomo, con un portamento deciso, severo. È il servo di Giairo: «Tua figlia è morta, mio signore». E guardando Gesù: «Ora è tutto inutile, non vale più la pena disturbare il maestro…». Giairo si mette le mani sulla faccia. Vorrebbe gridare. Ma Gesù prendendogli un braccio, gli dice: «Non piangere, andiamo». Poi rivolto a Pietro, a Giacomo e a Andrea: «Venite con me solo voi». Giairo tenuto per il braccio da Gesù riprende a camminare, con il viso che scoppia di pianto. Mentre Filippo e gli altri tengono indietro la folla, Gesù e i tre discepoli con Giairo e il suo servo si dirigono verso la casa. Nel cortile ci sono donne che fanno strepito. Pianti e urla sotto alcune piante polverose. Il rito che riempie di voci il vuoto insopportabile. La morte con il suo volto senza espressione …

VIII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

VIII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XV Il centurione, il discorso della montagna «No!» Il giovane è in piedi. Guarda Pietro e Andrea che stanno mangiando qualcosa, stanchi. Nella stanza c’è la luce di una lampada a olio che fa tremare le ombre degli uomini, semisdraiati sulle stuoie, eccetto uno, quello che è in piedi e sta parlando. «Così non funziona!» continua il ragazzo. «Lui può pure guarire tutti gli indemoniati della Giudea, della Samaria e della Siria! Tanto quelli non lo ascoltano. Non gli lasceranno libero il cammino». Il ragazzo è uno dei tanti che ha chiesto a Pietro e ai discepoli di poter discutere con loro. Arrivano, parlano. Sono in molti quelli che incuriositi da miracoli e guarigioni si sono avvicinati al gruppo dei discepoli. Questo ha i capelli mossi, i tratti gentili, si vede che è colto, gesticola con passione. La giovinezza è molto spesso un teatro confuso. Giacomo guarda il ragazzo senza molto interesse, è stanco. Andrea e Pietro lo ascoltano. Mostrano la condiscendenza verso un giovane ardore da cui sono attratti ma di cui stanno pesando i limiti. «Se il regno nuovo deve venire, non sarà con questi miracoli! Il vostro profeta è forte, ha un potere prodigioso. Siamo disposti a seguirlo in tanti. Ho veduto persino Maddalena dei sette demoni e la moglie di Cuza, l’anziano amministratore di Erode con la cicatrice sull’occhio. Un bel seguito, non c’è che dire. Nemmeno Giovanni il Battista era arrivato a tanto. Ma quello non voleva rovesciare il Tempio e aspettava che la gente andasse da lui per convertirsi… Brutta fine che ha fatto! Ma così no, non va bene lo stesso, non funziona. Troppi si allontanano, non capiscono. Quel ragazzo l’avete visto? Aveva chiesto solo di andare a seppellire il padre, prima di unirsi a noi. E invece: “Lascia che i morti seppelliscano i morti” gli ha detto. Ma come si fa? A volte sembra una bufera che travolge tutto. Sta prendendo di petto le cose. L’avete visto anche l’altro giorno, no? Quando si è presentato quel soldato romano, il centurione». «Sì,» dice Pietro «mi ricordo bene le facce che hanno fatto quegli uccellacci…» «Un soldato romano, Dio dei cieli, un invasore, uno che chissà da quale regione sotto Roma arriva qui a premere il calcagno sul nostro popolo… E lui cosa fa? lo ascolta, addirittura sembra che voglia andare a casa sua, e poi gli guarisce il servo, l’amante o cosa era quel suo giovinetto ammalato». «Quell’uomo aveva aiutato la costruzione della sinagoga, non era poi così malvagio. E comunque non è bene questa guarigione?» dice pigramente Andrea. Giacomo passa qualcosa da bere al ragazzo che continua ad agitarsi nella stanzetta. Forse lo fa più per farlo tacere che per altro. Fuori sono calate le tenebre. L’aria è immobile. Gesù è sparito da qualche ora, li ha lasciati dicendo di non seguirlo, cerca luoghi isolati per raccogliersi e sfuggire alla folla che lo preme. Una folla continua, ammalati di ogni genere che lo toccano, gridano il suo nome per la strada, lo seguono. Ieri Pietro gli ha preso un braccio mentre vedeva il suo capo pendere di stanchezza in mezzo alla folla che lo assediava. «Maestro» gli aveva detto, «devi mangiare.» E il Nazareno lo aveva guardato come un bambino sperduto. «Sì, bene la guarigione, bene! Certo!» dice quasi sarcastico il ragazzo. «Ma poteva risparmiarsi di dire che in quel romano, in quel conquistatore pagano e straniero ha visto più fede di tutti in Israele. Più fede di tutti! Mio Dio, come si fa a dire una cosa del genere di un… di uno sporco soldato bastardo romano! Gli scribi e i farisei presenti sono diventati di pietra…» «Sono diventati come sono, delle statue» dice Pietro tra i denti. «Sono provocazioni che guastano, non lo seguiranno» riprende il ragazzo. Andrea fa un gesto come a cacciare mosche, per disapprovazione. Si alza ed esce. Giacomo guarda il ragazzo che sta ancora in piedi anche se nessuno parla. «Ma hai sentito cosa ha detto quell’uomo?» gli chiede. «Deve aver fatto qualche salamelecco, di quelli in cui questi Romani sono speciali e…» Giacomo lo interrompe: «Ha detto: “Gesù non sono degno che tu venga nella mia casa”». Il discepolo ha il viso duro. «E poi ha detto: “Ma se tu dici qualcosa, anche solo una parola, se tu lo vuoi, il mio ragazzo guarirà”». Il giovane ora tace. Giacomo lo fissa. Sono due puledri che fremono. «A lui interessa la fede delle persone, non cosa pensano i farisei». Il ragazzo per un poco sostiene lo sguardo di Giacomo, poi si volta violentemente. Fissare quegli occhi vorrebbe dire crollare. Scarta come un cavallo inquieto. Giacomo gli prende il bicchiere dalle mani. Sono tanti così, si vedono aggirarsi nei dintorni di Gesù. La giovinezza quando è in cerca di qualcosa che non sa diventa bellissima. Per un po’ ascoltano, seguono, poi se ne vanno. Scompaiono. Alcuni di questi ragazzi sono finiti in bande di rivoltosi. Erode è implacabile con tali sobillatori, i Romani gli danno volentieri una mano a reprimerli nel sangue. Quanto dispendio… Ogni tanto si vedono prigionieri marciare con gli occhi bassi, picchiati come bestie, legati dai soldati. La gente mormora che la banda del Nazareno ha preso il sopravvento su quella del Battista… I discepoli hanno spesso il cuore che trema. Cosa sta iniziando, cosa sta succedendo davvero con questo strano rabbì… Fuori la sera sta accendendo i suoi fuochi in cielo e nelle case. È ormai da mesi che camminano con Gesù per villaggi e città. Dopo la visita a Gerusalemme con gli scontri con i farisei e anche con i sadducei c’è tensione nel gruppo dei primi che lo seguono. Qualcuno se ne è andato, altri lo faranno. Gesù si è fatto pensoso in queste ultime ore. Il ragazzo saluta rigidamente i discepoli e se ne esce, scompare nell’aria fosca. Anche Giacomo esce. Nei giorni scorsi era successa una cosa inaspettata. Giacomo si siede su una pietra vicino alla porta. Una certa folla aveva seguito Gesù fino sopra a una collina. …

VII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

VII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XIII Lui cresceva, io diminuivo Giovanni il Battista li aspetta in piedi vicino a un albero. Il viso è segnato ma sembra contento di vederli. Il sentiero che arriva fino alle rive del Giordano è disseminato di pietre e polvere. I cinque discepoli si lavano i piedi e le mani prima di avvicinarsi alla tenda. Fuori il cielo è azzurro, teso da far male. Con Andrea e Giovanni, il giovane sacerdote di Gerusalemme, ci sono alcuni discepoli di Gesù che prima seguivano il Battista. Sono impazienti di raccontargli molte cose. «Siamo stati al Tempio» dice Andrea sedendo davanti a lui, «s’è messo a gridare». «A gridare?» chiede il Battista, mentre un suo aiutante offre acqua da bere ai nuovi arrivati. «Sì, maestro. Eravamo appena entrati nel Tempio. Abbiamo visto cose che non immaginavamo. Nei giorni scorsi ha compiuto miracoli. Ha risanato ammalati, ha rialzato un paralitico.» «Ne ho sentito parlare» mormora il Battista. La sua magrezza vicino ai corpi giovani dei suoi amici come un insetto. «E nel Tempio si è messo a gridare contro i cambiavalute tra i loro banchi. Sembrava preso da una furia. Molti sono venuti a guardare, anche tra i sacerdoti e gli anziani. Gridava che era uno scempio aver trasformato la casa di Dio in un mercato per le offerte per le bestie dei sacrifici. Diceva: lo zelo per la casa di Dio…» «Mi divorerà…» conclude il Battista. E dopo aver abbassato il volto chiuso come pugno contro la notte, sorride. I ragazzi si guardano. Hanno visto raramente quel taglio di luce, quella bocca ferita aprirsi in un sorriso. Si sente solo il rumore dell’acqua versata nei bicchieri di coccio. «Davvero sembrava divorato da qualcosa…» riprende Andrea. «Ha fatto persino una frusta di corda per cacciare via quella gente. E…» Il Battista socchiude gli occhi di bosco e di buia giada. Sul suo volto scarno il sorriso appena accennato non scompare. Sembra quasi che, appoggiato a una pietra, immagini la scena che gli stanno raccontando. Solo quel lieve sorriso. E bisbiglia: «Come Geremia…». «Si è messo poi a insegnare. La gente lo ascolta. Si fermano in tanti. La sua fama sta crescendo. Ma a un certo punto…» Andrea tace, e così gli altri. Forse aspettano che il Battista dica qualcosa. «A un certo punto?» chiede l’uomo magro con gli occhi socchiusi. Andrea guarda i suoi compagni. Cerca l’approvazione a quanto sta per dire. Interviene Giovanni, il ragazzo, deciso: «A un certo punto si è messo a dire che distruggerà il Tempio e che lo ricostruirà in soli tre giorni. Il grande Tempio di Erode…» Il battito di un drappo della tenda di stoffa grezza rompe il silenzio. Una illusione di brezza nell’ora che spacca il cielo. Intorno, lungo le sponde del Giordano, vengono erette le tende di quelli che sono scesi a battezzarsi, piccoli gruppi di persone. Qualche belato di agnello, voci di piccoli che forse giocano o sgridano. «Molti lo prendono per pazzo!» interviene uno dei discepoli, seduto dietro ad Andrea. Si vedono gli occhi accesi, una luce fiera sul viso. Andrea lo guarda. Ma il Battista non ha alcuna reazione. Solo dopo pochi secondi dice lentamente: «Gli avete chiesto chi è?» Non fiatano per un poco, esitanti. Si sentono dei belati, colpi di ala, versi e voci in lontananza confusi. «Sì, maestro. Ci ha detto di salutarti di cuore e di dirti quello che vediamo: gli storpi camminano, i ciechi vedono…» Gli occhi socchiusi del Battista. Li apre e sono fuoco luminoso. «State con lui, state con lui. Il mio tempo è venuto. Nubi nere si addensano su di me. Ma lui vi battezzerà non più con l’acqua ma con lo Spirito di Dio. E io, io non sono degno di sciogliere nemmeno i legacci dei suoi sandali». Poi muovendo un sasso nella sabbia dice: «È lui che deve crescere e io diminuire». Si è alzato in piedi. Non lascia tempo di replicare. I discepoli lo guardano silenziosi. Li abbraccia uno a uno. Esce, e la luce del sole lo sbrana al loro sguardo. XIV La passione, l’esecuzione Qui ora è tutto buio. Giovanni il Battista prega a labbra quasi ferme. La prigione dove lo hanno gettato a Macheronte è senz’aria. Ci sono i respiri morti di tanti condannati. Gente che ha lasciato qui sputi, pozze di vomito, escrementi. Mentre lo portavano nella sua cella, ha visto nelle altre mucchi d’ombra addossati alle pareti. Il viso di uno si è sollevato sulla spalla come un ratto bianco mentre era accasciato, ha ringhiato una bestemmia. Ora il profeta mormora con le labbra secche. Il tetrarca ieri è sceso a vederlo. Giovanni ha visto la sua faccia appoggiarsi alle grate mentre un soldato alzava una fiaccola. Gli era sembrato un grande frutto morto, gonfio. Aveva gettato un ghigno: «Giovanni… Giovanni… Dicevi tante cose giuste per il tuo popolo… Hai voluto esagerare… Un po’ di riposo qui ti farà bene…». Ed era svanito nel volgersi della fiamma e nel risuonare di passi in quei cunicoli. Dopo il viso di Erode ne appare tra le sbarre un altro. È di un uomo anziano, una cicatrice gli traversa l’occhio sinistro. Si sofferma un istante. È Cuza, il vecchio amministratore. Sua moglie gli ha parlato spesso di Giovanni e di Gesù. Lo guarda. E senza che il tetrarca possa più sentire bisbiglia: «Giovanni, mia moglie prega per te». Sorride, incerto. Poi svanisce. Il Battista sente i topi camminargli tra le gambe. La tenebra è di nuovo compatta, solo le fiaccole accese nel corridoio danno aloni vaghi come sogni. Nel salone di sopra i flauti suonano pazzi e lamentosi. I fianchi di Salomè, oro nel buio. «I tuoi seni sono due cerbiatti…» Erode ricorda a lampi le parole del Cantico. La veste trasparente ornata di piccole medaglie dorate trema come una fiamma sorridente davanti agli occhi annebbiati dei commensali. Sono una ventina, piegati sul fianco sui tappeti. Erode al centro guarda la ragazzina figlia della moglie. Sa muoversi, eh, sa muoversi… «I tuoi denti bianchi come pecore appena tosate …

VI puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

VI puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XI La casa di Simone, lei piegava la testa come un animale A Pasqua si va a Gerusalemme. È normale, è consueto. Niente da dire. I fedeli osservanti ci vanno. E anche quelli meno osservanti. Quelli in cerca di affari, di combinazioni. O per rompere la noia delle campagne aride. Simone non ha avuto bisogno di discuterne con suo fratello Andrea né con un altro dei pescatori che ha deciso di seguirli, un ragazzo di nome Giacomo, fratello del giovane sacerdote Giovanni, figli di Zebedeo. I due sono chiamati «figli del tuono» perché hanno temperamento acceso e quando ci sono si nota… Sono in cammino da alcune ore. Quando Gesù ha detto loro: «Andiamo» non ci sono state discussioni. I buoni ebrei lo fanno. Ma loro, manipolo di discepoli di un rabbì che sta mettendo a rumore la Galilea, la Samaria e le altre regioni, sanno a cosa vanno incontro? Gesù cammina silenzioso, i suoi lo seguono, lo circondano. Non veste come un sacerdote, né come i rabbì. Lo potresti confondere con uno di loro, un pescatore, un commerciante. Ma ormai le voci lo rincorrono. Da quando ha cominciato a prendere parola nelle sinagoghe della regione e a imporre le mani a malati di ogni genere, la gente lo cerca. A Natzareth si è alzato e ha commentato il passo di Isaia dove si parla dell’Unto del Signore che porta il lieto annuncio dal cuore di pietra dei secoli. Ha detto che davanti ai loro occhi stava il compimento della profezia. Quella gente con gli occhi densi e piena di parole ruminanti in testa si è sdegnata. Hanno alzato la voce, lo hanno portato fuori. Lui sembrava assente. Lo volevano uccidere. Ma non hanno avuto il coraggio, gli hanno dato del pazzo biascicando tra i denti. “Deve stare attento” pensa Simone, “sta facendo venire il nervoso ai sacerdoti.” La voce si è sparsa nelle sinagoghe, lo guardano con diffidenza. Però quando parla, ha autorità. E la gente lo ascolta, viene da lui, “la gente se ne frega dei sacerdoti” pensa ancora Simone e guarda la strada che sta prendendo una luce d’argento. Gli torna in mente quando Gesù è entrato per la prima volta nella sua casa, a Cafarnao. Camminavano eccitati, era successo qualcosa di strano nella sinagoga. Un indemoniato lo aveva quasi assalito. C’erano stati attimi di panico. Simone era intervenuto a fare scudo. Nel luogo santo erano risuonate bestemmia e vituperio. Poi Gesù aveva placato quell’uomo. Quando lo strano maestro ha abbassato la testa per entrare in casa, la moglie di Simone lo ha guardato in silenzio. Una donna che non parla molto è una benedizione del Signore. Ma ha sguardi che trafiggono come una maledizione. Aveva capito che il marito avrebbe seguito quel maestro, guardava Gesù con una strana curiosità. Piegava la testa come un animale. Non avrebbe mai immaginato che Simone lasciasse le sue barche. Le sue mani sul legno del bordo dello scafo erano tra le prime cose di lui che gli erano piaciute. Mani forti. No, non immaginava che i suoi soci nella pesca, o quel parente di Gesù Giacomo e altri, si sarebbero uniti. La donna aveva guardato il Nazareno con gli occhi nerissimi e indagatori. Aveva una veste semplice, scura. I capelli le uscivano dal velo che teneva sulla testa, erano luminosi e un po’ mossi. Poi lasciate le caraffe con l’acqua e i cesti di frutta, si era ritirata nell’ombra di un’altra stanza. Da là veniva il respiro grave della madre, persa in una sua malora. Gesù si mise a rinfrescarsi e a mangiare qualcosa con gli uomini. L’incontro con l’indemoniato lo aveva reso pensoso. Lì Gesù aveva chiesto, per la prima volta, se volevano accompagnarlo a Gerusalemme. Simone ricorda che rimasero in silenzio, come ora mentre camminano e lo seguono. «Siete pronti a venire con me?» aveva detto Gesù afferrando un fico. Nessuno aveva posto obiezioni. Poi Gesù aveva chiesto a Simone: «Chi è la donna che soffre in quella stanza con tua moglie?». E Simone: «Sua madre». Poi passando una mano sul tavolo come se la passasse sul legno della chiglia, seguendo dei suoi pensieri lontani, aggiunse: «Molto malata, anche se non è tanto anziana…». Gesù allora si era alzato: «Portami da lei». Nella stanza l’odore era pesante e si udiva solo il lamento sommesso della donna, Gesù si avvicinò alla moglie di Pietro. Lei aveva abbassato la fronte, con un gesto asciutto, forte. Si vergognava di quel posto, di quell’odore, di quella malattia, della infame malora del corpo di donna di sua madre, si vergognava di non sapere cosa fare con quella anziana che stava tornando bambina. Si vergognava di essere donne che invecchiano, e che a un certo punto perdono le forze, perdono la bellezza, perdono tutto. Gesù l’aveva guardata e nella penombra in quella pupilla del Nazareno lei vide qualcosa che non conosceva. Una dolcezza o una forza? Un’ala notturna? Se lo sarebbe chiesto per tutti i suoi giorni. Poi aveva cercato gli occhi del marito, che le fece solo un cenno come dire: fai quello che ti chiede. Gesù si avvicinò alla anziana gemente, le diede una carezza sulla fronte. Subito quella smise di lamentarsi, e dato un sospiro più forte, parve addormentarsi, finalmente quieta, o come morta. La moglie si era portata le mani sulla bocca. Simone ha già visto Gesù dare quella carezza sulla fronte di altri ammalati. Come una cosa forte. Anche l’indemoniato che lo ha affrontato nella sinagoga di Cafarnao, dopo essersi avvoltolato a terra e aver sbavato cose orrende contro di lui, si era fermato alle parole che Gesù gli aveva lanciato addosso. A terra, esausto e con gli occhi smarriti. Un gattino. Un bambino perso. Aveva occhi incavati in un viso magro e irregolare. Macchie e resti di cibo sulla barba e sulla bocca. Venne quella carezza sulla fronte. Simone ricorda che poi la suocera si era svegliata e alzata a sedere nel letto tutta spettinata e rideva e diceva cose insensate per la gioia che aveva. La …

V puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

V puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

IX Il lago a forma d’arpa I passi sono rapidi sulla polvere, tra i sassi, gli sterpi. Giovanni deve tornare a Gerusalemme. I suoi doveri di studio da sacerdote lo chiamano. Chiede ad Andrea di tacere della sua presenza a casa di Gesù. La sua posizione è delicata, è in vista nella cerchia dei più vicini al Tempio. Ne potrebbero nascere problemi. I due si guardano come da due promontori a picco sul mare. Cosa sta succedendo, si dicono senza dirlo. Si dividono. Giovanni, giovane figlio di Zebedeo, non può tornare in Galilea, lo aspettano a Gerusalemme. La sua carriera di sacerdote, il suo destino, i sacrifici fatti da suo padre per farlo studiare al Tempio, però ora chissà… Il cielo bianco accompagna Andrea, non alza gli occhi dal sentiero che lo riporta velocemente verso casa, il lago di Genesaret. È là che abita, sulle rive di quel che ora chiamano pomposamente Mare di Tiberiade, da quando Erode ha costruito sulle rive una città ruffiana e ricca con il nome dell’imperatore. Il lago deve il suo nome alla forma d’arpa. Come uno strumento abbandonato dal cielo. Si trova più in basso del livello del mare, e nei grandi caldi dell’estate a volte il respiro manca mentre si tirano su le reti. In quella cavità le acque che cambiano colore con il cielo sono molto pescose. Andrea ha una sacca con un po’ di formaggio. E della frutta che gli ha offerto Gesù. È ancora caldo anche se il pomeriggio sta finendo. La casa è lontana. Lui e Giovanni hanno ascoltato e interrogato per ore quell’uomo. Ora è pieno di fermento, come se stormi di pensieri si alzassero in ogni direzione. L’uno sa che l’altro sta rimuginando le stesse cose. Giovanni scendendo verso Gerusalemme, Andrea verso il Mar di Tiberiade. Una specie di sgomento, ma con una punta di gioia irrefrenabile. Quell’uomo ha parlato loro in un modo… La casa era semplice, niente di speciale. Eppure, ogni volta che afferrava il bicchiere, o porgeva un piatto o citava un salmo, sembrava farlo con… con una cosa addosso, una forza, Andrea non sa come chiamarla, una specie di esattezza. E con una autorità che non aveva mai visto. Già mentre si avvicinavano alla sua casa, sentivano crescere il sospetto: una figura eccezionale. Il Battista non avrebbe gridato quelle cose. Ai loro orecchi di fedeli erano suonate presagio grandioso. E oscuro. Ma ora il cuore non riesce a tacere: abbiamo trovato il Messia. Il Messia? Andrea strappa un rametto da terra. Come per spezzare la corsa dei pensieri, renderli più ordinati. La storia della sua gente è segnata da sempre dalla presenza di Mashiach, gli Unti dal Signore. Uomini pieni di pietà e di saggezza, come Aronne, fratello di Mosè, il primo a ricevere l’unzione quando il grande condottiero si fermò sull’ultimo fiato, alla visione della terra promessa inseguita per quarant’anni e in cui non entrò. E uomini pieni di fuoco come il re dei re, Davide. Fu un Unto del Signore a guidare la battaglia tra gli adoratori di Dio e gli adoratori dei Baal a Meghiddo, quando furono scotennati gli adoratori di dèi stranieri. Ci sono saggi che digiunano nei deserti. Che non toccano carni. E invitano a convertirsi. Però solo lui, il dolce e tremendo Giovanni, ha introdotto il gesto rituale, estremo: battezzarsi per la conversione. Chiede tutto. Giovanni è fuoco. Ma lui ha indicato quest’uomo: l’agnello… Cosa voleva dire citando le Scritture che narrano dell’Esilio? Questo Nazareno ha qualcosa di strano. Lo hanno guardato parlare per ore, mentre la luce cambiava fuori dalla finestra. Ha offerto loro da bere e frutta, e la conversazione è stata fitta, specie all’inizio. Poi ha parlato quasi solo lui mentre le prime ombre calavano nella stanza. Sono usciti nell’ora in cui le serpi tornano nelle crepe e i bambini chiedono di mangiare. Il giovane sacerdote Giovanni fissa i cespugli davanti a sé. Dai suoi passi si alza la polvere che si posa sulle foglie delle pianticelle ai lati del sentiero. La via fa alcune svolte seguendo il Giordano. Poi devia tra sterpaglie più rade. Gerusalemme gli apparirà splendida nella sera, dopo un paio d’ore di cammino. Vedrà le alte pareti ricoperte d’oro del grande Tempio urlare nella pianura. Il sole sta tramontando ancora una volta sulle vite umane e non umane, il cielo da bianco s’è fatto infuocato, i pescatori stanno rientrando. Andrea comincia a sentire le voci che si gridano dalle barche. Dopo un ultimo pendio il lago a forma d’arpa si apre davanti ai suoi occhi. Sulla riva ci sono uomini che stanno raccogliendo le reti. La sua dura gioia è un vento. Scendendo quasi si mette a correre. Si ferma vicino a suo fratello Simone. Il viso del pescatore che lo guarda arrivare non cambia espressione. È corrucciato, stanco. Il sole ha picchiato forte anche oggi e il lago sembra non voler sputare pesci nelle reti. «Abbiamo trovato il Messia» gli dice Andrea che si ascolta dire queste parole con una strana allegria. Quello lo fissa con un viluppo di cordami in mano. I suoi capelli folti e ancora scuri sono sudati e mossi dalla brezza dal lago. Gli occhi sono tondi e mobilissimi. Sa bene che suo fratello non è tipo da scherzare su certe cose. La sua fede è tesa come le corde della rete quando il lago si agita. Se lo erano detti più volte, mentre intorno al fuoco dove arrostiscono il pesce ragionavano dei tumulti nella regione e dei vari sobillatori. Sangue freddo, si erano detti. Non facciamoci incantare. La voglia di qualcosa di nuovo è forte, nessuno ne è immune. I sacerdoti e gli anziani faticano a tenere a freno il desiderio del popolo di trovare una guida forte. Ma Simone e Andrea, figli di Jona non sono gente da avere grilli per la testa. Devono tirare avanti la società di pescatori. Non possono mettere a seguire favole. L’uomo che sta presso la barca è il meno giovane dei due. Se suo fratello Andrea …

IV puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

IV puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

VII I due «Perché li ecciti contro di me?» La voce è debole, emerge dalla penombra dove il tetrarca Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, è steso a godere un po’ di fresco tra le mura del suo palazzo. Fuori il sole grida nel mezzogiorno. È più asciutto di suo padre, morto ormai da trent’anni. Giovanni resta muto in piedi. «Va bene, va bene… tanto vi conosco a voi… a voi profeti… Non amate svelare le vostre intenzioni. Lasciate che noi poveri umani intendiamo che è Dio, il vostro Dio, a suggerirvi le cose…» Antipa si solleva sul gomito destro e fissa l’uomo che gli è stato portato davanti, vestito di peli di cammello con una cintura. È un tizio non imponente, smagrito. I capelli sono schiariti dal sole e la pelle tesa, riarsa. Gli occhi, un colore indefinibile. Le torce creano riflessi rossi, verdi, color ambra. «Ti chiederai perché ti ho fatto chiamare, visto che non sono molto interessato a seguire quelli della vostra razza. Ma tutti vogliono vedere Giovanni, e allora mi sono detto: vediamolo ancora questo ultimo profeta d’Israele. Forse ha qualcosa di davvero nuovo…» Erode non è adirato con quell’uomo. Questo non è un guerriero come Simone di Perea. Oggi vorrebbe solo essere meno stanco, meno indolenzito dai piaceri della notte e dalla cavalcata della mattina coi soldati. Forse l’ha sottovalutato, doveva essere più riposato per sostenere un confronto con il profeta. L’altro resta in silenzio. La volta delle stanze è oscurità. Erode ha dato ordine di lasciarli soli in questa mezzora che di solito dedica al riposo. È già la seconda volta che fa chiamare Giovanni. Lo incuriosisce. Anche suo padre, l’idumeo Erode, chiamava talvolta santoni, indovini, maghi per conversare e scrutare attraverso i loro occhi forsennati le tenebre. Al momento di morire s’era fatto chiamare due indovini. Lui, Antipa, aveva diciassette anni. Era nella stanza vicina coi fratelli, sentì il padre urlare parole sconnesse contro i due. Non erano urla, non aveva più parole che sembrassero umane e quando lui e i fratelli entrarono trovarono il padre con il volto divorato dal male. E riverso a terra, morto, in una chiazza di vomito e sangue nero. I due indovini dal profilo egizio frusciarono via. Antipa ne aveva afferrato uno per il braccio. «Vi ha chiesto del futuro del regno?» Ma quello s’era irrigidito e con voce effeminata aveva detto solo: «A nessuno se non al re ci è dato ripetere quel che abbiamo veduto e ascoltato». Fu aperto il testamento, fu nominato Archelao. Ma durò poco, un paio d’anni e quell’imbelle fu declassato. L’imperatore da Roma gli fece togliere il titolo di re e lo fece sparire in un esilio lontano. Diede il suo regno ai Persi. La Giudea non doveva avere nessun re. Due alla pari. Non un re, ma due tetrarchi. Erode Antipa s’aspettava di figurare erede del titolo di re. Il padre glielo aveva quasi promesso. «Vecchio porco…» mormorò tra sé la notte della morte «ha cambiato le carte alla fine…» Il «vecchio porco», come fu chiamato da suo figlio, fu portato con grandi onori fuori dalla città e sepolto. Il suo corpo marcio fu deposto su un’altura desolata da cui si vede Bethlehem, dove è nato il bambino che i suoi soldati non riuscirono a trovare. Dopo la cacciata di Archelao, Antipa non poteva fare più nulla in patria per ottenere quel titolo a cui teneva come alla vita. Poteva urlare quanto voleva come un cane ogni ingiuria al cadavere senza volto del padre, non sarebbe servito. Ma quando il fratello Filippo s’era recato a Roma per cercare di avere il placet ad assumere lui il titolo di re, con nomina dell’imperatore, lo aveva seguito. Forse c’era margine per qualche estrema manovra con certi amici romani. Poteva cercare di volgere in suo favore alcuni buoni rapporti del padre. Ma le cose non andarono come sperava. «Se non sarò io il re,» gli aveva sibilato Filippo «non lo sarà nessuno». Tutti pari. Ma ci dev’essere un re, uno, il più forte. Fu là che, mentre i giorni esalavano i loro miasmi accaldati sui Fori imperiali e il suo sguardo si posava distratto e torvo sui fiori spaventati nei giardini di Augusto, Antipa si prese la rivincita più aspra sul fratello. La vendetta senza ritegno, senza riparazione possibile. Erodiade, la moglie di Filippo, era ancora più bella in mezzo alla città che mormora e canta ogni piacere possibile. Antipa una sera durante un banchetto noioso l’aveva fissata come se la vedesse per la prima volta. E lei non aveva distolto lo sguardo subito. In quei giorni di ozio forzato cercava la linea della sua schiena mentre camminava tra i colonnati. In un paio di occasioni si erano incrociati i loro sguardi mentre seguivano la lettiga di un senatore a cui l’imperatore li aveva affidati per mostrare alcune bellezze della città. Nero ossidiana quelli della giovane donna. «Con un solo sguardo mi hai rapito il cuore» dice il Cantico che sa tutto. Durante i giochi nel Colosseo, mentre Filippo assisteva annoiato, Antipa si era scaldato a vedere i combattimenti. Anche lei, eccitatissima dallo spettacolo di sangue, si era schiacciata contro il suo braccio nell’entusiasmo della gazzarra. Sugli spalti anticipava la condanna del perdente. In mezzo al caos dell’arena Antipa mormorava tra sé con sguardo ubriaco… «I tuoi seni due cerbiatti… le tue gote sono belle tra i pendagli…» E lei fingeva di ritrarsi timida. Furono segni chiari. Lei ardeva del suo stesso desiderio. E non fu difficile, mentre Filippo era occupato in qualche incontro politico riservato, fare in modo che Erodiade scivolasse nelle stanze che gli erano assegnate. Lei lo aveva dominato con un impeto tale da lasciarlo stupefatto e tramortito. Quella donna aveva l’esplosione delle stelle addosso. Si protendeva come una tempesta. Ricorda di esser rimasto senza fiato contro la parete mentre il sole illuminava fuori dalle sue finestre il frontone del tempio di Minerva nel pomeriggio. Nulla è dolce e bastardo come l’amore. «È forte come la morte» dice …

III puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

III puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

V Il fantasma, l’erede Non ha saputo più nulla. È passato qualche anno da quella alba livida in cui i suoi soldati uscirono per lo sterminio dei bimbi. Le voci si sono sopite, ma non spente del tutto. Dei magi, più nulla. Idioti. Erode il Grande nella sala del trono del palazzo di Gerico tiene il volto velato. Sta steso sul triclinio romano che gli hanno regalato. Preferirebbe stare steso a terra, nelle stuoie, come usavano i suoi avi idumei. Non gli va che i dignitari vedano come si sta riducendo il suo volto. Il cancro lo sta mangiando. Il ventre, poi su, il resto. Respira il fetore che la sua stessa bocca emana. Devono ricordarne il tratto idumeo splendente, la pupilla nera di perla. Sotto quel velo socchiude gli occhi. I ricordi arrivano subito, come sciami di api fantasma. I soldati che rientrarono dalla strage si sedettero al ritorno sui lunghi sedili di pietra delle caserme del suo palazzo e non parlarono. I suoi attendenti vennero – lo ricorda come un sogno confuso, pochi anni sono secoli per un vecchio ammalato – e fecero un inchino rigido dicendo solo: «È compiuto». Era ancora abbastanza forte allora. La malattia iniziò a devastarlo subito dopo. Una punizione del cielo per quella carneficina? È stato tentato di pensare una cosa del genere. Ma no, lui non ha peccato contro il cielo, come dicono questi Giudei bastardi. E quale cielo, poi! Sua madre gli indicava la volta nera senza stelle e diceva: i nostri dèi vogliono che tu sia un eroe. E i suoi dèi non sono capricciosi come quelli dei Greci o dei Romani… Ma quale potenza allora gli ha mandato questa rovina al ventre? Mantenere il regno è compito eroico del re. Il regno di Giudea non deve perire per qualche fantasia malata di fanatici religiosi. Ai tempi del predone Ezechia si era scontrato con il Sinedrio, perché lui ne aveva deciso la messa a morte senza chiedere parere a quel consesso di preti. Sesto Cesare lo aveva difeso, e anzi gli aveva dato più potere. Di fanatici di Dio ce n’è già troppi in giro. “Fanatici di cosa?” pensa mentre il respiro malato gli dirama sul viso sotto il velo. Il più delle volte sono fanatici di se stessi. Ed è prerogativa del re difendere il suo popolo, bloccare i facinorosi. Si stanno addensando nubi sulla Giudea, aria di rivolte. I Romani sono diffidenti. Erode ha dovuto impiegare tutta la sua forza e astuzia per dare l’idea di avere sotto controllo la regione. A lui non interessano le questioni religiose degli ebrei. Non le intende. Sotto gli ossequi formali alla religione ufficiale è restato pagano. I Giudei non hanno mai messo sotto il tallone gli Idumei. Ha donato a questa terra i porti di Cesarea, acquedotti, ha distribuito terre ai contadini perché le facessero rendere. Ha fatto affari con Augusto nelle miniere di Cipro e con Cleopatra nel commercio di unguenti. Ai potenti facevano comodo certi suoi prestiti… Lo considerano un buon socio in affari. Ricorda il sorriso enigmatico della regina d’Egitto al momento di congedarsi dopo l’accordo. Ne ha avuto paura. Il loro incontro sotto una sontuosa tenda fuori dalla sua reggia fu breve e inebriante. Donna più velenosa di un serpente, aveva pensato. Solo una perfidia pari alla bellezza da dea poteva permetterle di conservare l’immenso ansante Egitto in quelle mani sottili, meravigliose. E dalle nebbie del passato, mentre il suo respiro si fa più pesante, escono, confusi uno sull’altro, i volti dei Cesari. Al tempo delle congiure era stato abile ad allearsi prima con Cassio il traditore e poi – quando questi fu sconfitto da Antonio e Ottaviano scelse la morte – fu rapido nell’entrare nelle grazie dei vincitori. “Traditori, vinti, vincitori… cosa vogliono dire queste parole?” pensa con il velo che si solleva fradicio per il respiro malato. Ha visto cambiare i volti, e queste parole marchiare in modo alterno l’uno, poi l’altro, poi un altro ancora… Una sola parola ha un senso chiaro: potere. Chiara, fredda, indiscutibile. Ma ora, come ogni notte da un po’ di tempo a questa parte, sente un’altra parola nella penombra delle arcate delle sale, e nelle arcate cadenti della sua mente. È il nome di lei. Come è possibile? Chi fa risuonare ancora, dopo anni, nelle stanze del palazzo il nome della figlia della terra degli Asmonei che ha amato, e che fu sua moglie. È un sogno bastardo? Era così bella… La chiamava «amore», la chiamava «dolce acqua della luna». Poi un mattino ha detto «uccidetela». Ricorda il momento esatto in cui, con la bocca secca, ordinò che fosse avvelenata. Le voci dicevano che lo tradisse, che ordisse congiure. Le voci, le voci, le voci maledette… Mariamme! Mariamme! Subito dopo aver fatto eseguire la sentenza, aveva ordinato ai suoi servi di gridare il nome di lei per giorni e settimane nelle stanze del palazzo. Come se fosse ancora viva. Mariamme… Mariamme… gridavano quelli ogni tanto, perplessi e impacciati, mentre lui sul trono sentiva il petto rompersi. Aveva dovuto ucciderla, non c’era altra scelta. Le voci… le voci… parole sussurrate, messe in giro, inoculate. Parole deviate, avvelenate. L’unica parola chiara è: potere. Amore che parola è? Dopo aver ucciso lei, ogni altro omicidio aveva perso sapore. Chi erano gli altri che caddero sotto la lama per suo decreto? Ombre, solo ombre. Mariamme, Mariaaaamme… Da sotto il velo può vedere che è alta la luce del giorno, ma non se ne vanno i fantasmi attorno a lui. I suoi assassinati avevano dei nomi? Suonano vuoti, cosa erano? principi? soldati, predoni? due erano suoi figli, ah sì, i due giovani rampolli che aveva fatto studiare a Roma e poi al ritorno avevano insidiato il regno con congiure ridicole. Alessandro e Aristobulo. Quando li scoprì, grazie alle voci che giungevano sempre come onde e riflussi, come respiri alla sua testa alveare, li fece portare in piazza insieme a trecento ufficiali traditori. E lasciò che la folla aizzata dai suoi soldati si scatenasse …

II puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

II puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

Capitolo III L’ordine Erode non ha avuto pace nemmeno stanotte. La coppa è vuota, ai piedi del trono. L’alba sembrava non venire mai. Non è servito spostarsi a Gerusalemme, nel grande palazzo fatto costruire per essere il nuovo Davide. Più grande di Davide. Le notti sono insonni, lunghe, maledettamente lunghe, come in tutte le residenze. Anche a Gerico, la preferita. Davanti a lui nella sala sono comparsi quattro dignitari in silenzio. Non fiatano. Vedono che è stravolto dall’insonnia. La cagna che abbaia solo nella testa. La cagna da guardia del niente. Il suo corpo possente e alto si è gonfiato e curvato in questi mesi. La pancia spinge dolorosamente contro le vesti preziose che un tempo gli stavano a pennello. I problemi della successione, e altre oscure forze si agitano nel re. Non sa decidere quale dei suoi tre figli, Archelao, Filippo e Antipa, sia degno della carica. A volte pensa che il più giovane, Antipa, sia il più dotato di tempra, quello che gli somiglia di più. Poi si ricrede: troppo giovane. Meglio Archelao, o Filippo, meno impulsivo, più freddo. La carica di re spetta a uno solo, gli altri dovranno accontentarsi del titolo di tetrarca. La decisione resta sospesa. Non c’è fretta, la vita del Grande non vuole appassire… Lui farà la sua proposta, poi a Roma, come sempre e come tutto, decideranno. I Romani non vogliono caos nella zona. Ma devono stare attenti: i capi religiosi giudei non sopportano nessuna provocazione dai dominatori. Erode si trova tra l’incudine e il martello: sa di essere odiato dai capi religiosi. “Ma in questo palazzo non tengono più fiaccole?” pensa d’improvviso. “C’è poca luce…” poi si tocca gli occhi con un lontano terrore. Aveva accarezzato l’idea di farsi nominare da loro “Messia”. La loro religione attende un misterioso salvatore, un condottiero benedetto da Dio e pensava che a lui, come avviene ad altri re e imperatori, potesse spettare il titolo di divinità o almeno di figlio di Dio. Quei rognosi di gran capi dei sacerdoti si erano opposti. «Erode il Messia? Via, non siate ridicoli!» aveva detto, scomparendo sotto un’arcata del Tempio in costruzione, uno dei sacerdoti a un suo emissario mandato a sondare il terreno. Fece soffocare nel sangue da sicari segreti alcuni di quei corvi, così che la piantassero almeno con l’irrisione. La sua grandezza risplenderà nei secoli. Questi sciocchi Giudei non capiscono. Anche se ha evitato alla Galilea di pagare tasse gravi a Cesare e anche se garantisce con il pugno duro la pace, e se pure evita che i Romani calpestino il suolo di Israele con legioni in assetto di guerra, i sacerdoti e gli scribi lo odiano. È un Idumeo, mantiene nei suoi comportamenti qualcosa di una terra pagana. Sua madre era araba, Kypros. Si racconta che a Roma è salito al Tempio e ha fatto sacrifici a Giove con Ottaviano e Antonio, e ha costruito tempietti pagani in diversi luoghi della sua giurisdizione. I Giudei sono contrariati. Mah! Un dio vale l’altro… Ma un re, dev’essere uno. Un re. Per questo ha cacciato quei cenciosi di Nabatei dai confini, anche senza il permesso di Augusto. Beduini maledetti! Là a Roma non avevano dato il loro permesso. E allora? Un re è un re. Anche Augusto deve capirlo. Che si fotta. I quattro uomini che ora ha di fronte sono stati chiamati mentre la notte cedeva al primo languido chiarore e le stelle si stavano facendo inghiottire. Il palazzo domina Gerusalemme. Per arrivare dalle stanze destinate dalla corte alla sala del regno occorrono alcuni minuti. Uno dei quattro si è fermato a guardare il cielo. Una cicatrice gli traversa l’occhio sinistro in diagonale. La pupilla è più scura dell’altra. Il suo nome è Cuza. Ha sputato per terra. Dalle strade già si sentono abbaiare i cani. La sua giovanissima sposa, Giovanna, dorme in una casupola lontano, in un’altra città. Spera di tornare presto da lei. Ora i quattro stanno lì, e lui non si decide a parlare. Poi come se non si rivolgesse a loro: «Ammazzatelo» dice a denti stretti. Sollevano lo sguardo, sanno di chi parla. Ogni sera prima di licenziarli chiede se quei maledetti saggi sono tornati con qualche notizia. Se qualcuno sa finalmente qualcosa sul misterioso re bambino. Ma nessuno ha saputo più nulla di loro. E non si sa nient’altro. È nato. Solo questo. Il re non sembra pensare più ad altro. Sì, sì, la successione… Ma quella lo angustia solo talvolta – c’è tempo, dice tra sé scacciando quel rovello. Ha interrogato altri maghi, fatto venire visionari e presunti profeti a colloquio. Ha chiesto anche al sommo sacerdote. Da qualche tempo la carica non è più ereditaria, non passa per la stirpe. È lui a nominarli. Ma deve incaricare quelli che il popolo e i sacerdoti vogliono. Non può andar contro la casta religiosa. Quel vecchio con le fiaccole vicino al volto scarno l’ha guardato un istante con gli occhi neri come la notte, poi ha detto solo: «Sorgerà un re, uno più potente di tutti i re». E nient’altro. Possibile che nessuno riesca a dargli rassicurazioni o notizie? Eppure ovunque circolano racconti sul Messia che deve venire. Il popolo è agitato da storie di ogni genere. Scribi e dottori della Legge si snervano sulle profezie. Nelle sinagoghe si mormora di un Messia alle porte, puntando le dita magre e adunche su alcuni punti dei rotoli. Animi esagitati hanno iniziato a nascondere le armi. Nascono e scompaiono correnti sotterranee. «Ammazzatelo», ripete piano, incolore Erode come se avesse ripetuto quella parola tutta la notte e ormai gli uscisse come un respiro stanco. I quattro lo guardano nella penombra delle fiaccole e della prima fioca luce dell’alba. Non c’è nemmeno bisogno che chiedano come fare a trovarlo. Lo presentono, terribilmente. «Fateli fuori tutti. Tutti i maschi della zona nati entro un anno, anzi no, due anni da oggi. Tutti…» I quattro non dicono nulla. Cavalli nervosi. “Ma sono bambini” passa nella testa di uno dei dignitari. Ma è un pensiero nuvola, …

I puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

I puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

Capitolo I Il re Gli alberi sono fermi nel buio. Cosa sono le ombre che sta vedendo? Il sudore gli scende fino alle palpebre. Lui, il re, non dovrebbe essere ridotto così. Le sue tempie sono toccate da un alito gelato. Ora è davvero solo. Deve sopportare la prova tremenda. Lo hanno spogliato. Le sue braccia, le gambe sono apparse bianche, stracci abbandonati nel buio. Quelli con le vesti sono scivolati nell’ombra sotto di lui. Il posto dove sta è sopraelevato. Come per vedere meglio e più vicina la morte o come si vuol chiamare questa grandiosa, accecante oscurità. Gli occhi bruciano. E per tutto il corpo sente una trafittura. Al ventre, ai polsi, alle reni. Non doveva capitare a lui una cosa del genere. Non immaginava che le cose sarebbero andate a finire così. La bocca gli si è seccata. La apre ma non riesce a uscire un suono. Fissa lo sguardo, quel poco che riesce, davanti a lui, non vede nulla, solo tenebre avanzano. I suoi più fedeli vicini se ne sono andati. Proprio quelli che lo festeggiavano come re… Non pensava di doverci arrivare. Sapeva che sarebbe successo ma non immaginava in questo modo oscuro, dolorosissimo. Cerca qualcosa, aria o luce, davanti a sé, come un pazzo. Gli spasmi lo stanno torturando. Spera finisca presto. Non è decoroso che finisca tutto così. Sta sospeso, una specie di paralisi lo sta mangiando. Erode, è questo il suo nome, ed è il re… Erode detto il Grande. Le fiaccole della grande buia sala del trono deserta illuminano a malapena il suo viso. Le vede? Anche la mano alla fine del braccio destro che ha disteso abbandonato al lato del trono, con la coppa di ferro vuota stretta tra le dita, gli sembra di un altro, chissà di chi… Quando un uomo fissa una fiamma sente la propria solitudine. La scomparsa, o la fosforescenza. Ha saputo da qualche settimana, da un sussurro dei suoi sapienti e indovini, che è sorto un nuovo re nella regione, un bambino che qualcuno vuole sia il re. E il suo incubo stanotte si è presentato di nuovo. Perdere tutto, non esser più re, non esser più niente. Le fitte al ventre si sono intensificate nelle ultime settimane. Un bambino? Un re bambino? Che invenzione di demoni è questa… “Chi osa sfidarmi ancora?” pensa o forse nemmeno riesce a formulare questo pensiero. Per mantenere in suo pugno il potere su questo schifo di regno non ha esitato qualche anno fa a uccidere due dei suoi figli. Alessandro e Aristobulo. Soffiavano parole lungo i muri contro di lui. I suoi figli… «Crudele» gli ha detto serrando le labbra la donna che li partorì… «E allora?» le aveva risposto con gli occhi liquidi. Anche il re Davide mosse contro il suo prediletto, Assalonne. I figli diventano infidi, a volte odiano più di qualsiasi altro… bisogna fermarli… La donna a quelle parole si era ritirata, abbassando lo sguardo nero e brillante. Lei sa che quando Erode parla del re Davide è morso da una serpe. Il re, il re… Il re è sempre Davide, quel bastardo figlio di caprai diventato amante della figlia di Saul per le poesie e la musica e poi sterminatore di Filistei e creatore dei Salmi. E fondatore di Gerusalemme capitale, padre di Salomone costruttore del Tempio… Davide, sempre il re Davide… sempre il suo nome sulla bocca di tutti, anche ora che marcisce da mille anni nella sua tomba mausoleo dove lui è pure entrato a rubare gli ori, gli argenti e dopo esser marcito da vecchio con la puttanella Abisaig nel letto per non sentire il freddo della morte… La morte che avanza, anche se sei il re Davide… Sempre lui… Ma Erode, lui, d’ora in poi sarà ricordato come il re. Così ha deciso, così ha deciso. Ma l’incubo… Ora gli restano tre figli, il regno sarà di qualcuno di loro. Ha già qualche idea per la successione. Ma questo bambino re di cui si mormora, di chi sarà figlio? Erode posa la coppa di metallo che tiene stretta con il braccio abbandonato. È vuota da alcuni minuti. Le labbra, fredde e screpolate, sentono quasi dolore al contatto con il metallo dell’orlo. Il vino sapeva di niente. Glielo ha dato in omaggio uno di quei mercanti romani con cui si devono tenere buone relazioni, ma del quale ha profondo disgusto. Qui tutto sembra provocare disgusto. I Giudei sono disgustati dai Romani. I Romani sono disgustati dai Giudei. Gli invasori venuti da Roma guardano con curioso senso di superiorità questi pastori e mercanti che credono in un Dio immenso e potente che però li fa passare di schiavitù in schiavitù. I Giudei guardano con disgusto i segni di prepotenza romana. E sono disgustati da lui e dai suoi erodiani, servi di Roma. Ma a lui le truppe romane fanno comodo. Quando i Giudei volevano impadronirsi del suo tesoro a Gerusalemme, sono state le truppe di Varo, il governatore romano di Siria, ad accorrere per proteggerlo. Ne hanno crocifissi duemila, durante la rivolta guidata da Giuda figlio di Ezechia. Figlio degno del padre… Le urla dei dannati hanno riempito la città per ore e ore. Erode ricorda quando, da giovane servitore del re suo padre, Antipatro, dovette sedare alcune rivolte. Un capo di bande di Giudei rivoltosi, Ezechia, aveva occupato con le armi il suo palazzo a Seppori, in Galilea. Il sogno di questi esaltati di Giudei è di essere indipendenti da Roma… Stupidi! non capiscono che conviene loro il dolce calcagno dell’Impero che controlla e sopisce invece di tornare preda delle divisioni feroci tra loro… Allora fu lui a ordinare la esecuzione di Ezechia. Aveva lo sguardo fiero, quel disgraziato. E ora anche il figlio… Si sono animati spiriti ribelli. Gli zeloti, con le loro facce da capre ansiose, stanno facendo proseliti e la loro violenza provoca tensioni, specialmente tra i più miserabili e i facinorosi. Lui si deve occupare di tutte queste rogne. Sa come fare. Per tutta la vita …

A cosa serve la poesia?

A cosa serve la poesia?

Dalla Introduzione a “L’allodola e il fuoco” (La nave di Teseo, 2019) Un’allodola. Di fuoco. La poesia è quasi niente nell’aria del mondo. Aria che a volte ci pare gremita di parole che dominano, parole che corrono, di lamenti, di grida, di sospiri. Di trasmissioni vocali e di ogni altro genere. E poi di rumori, e di musica, troppe volte lei pure ridotta a rumore di fondo. A volte non hai l’impressione che l’aria sia troppo piena? Che sia esaurita, intendo. Che in questo posto si soffochi. Aria piena di spari, di gas di scarico, riflessi cangianti dai video, tagliata da vetrate di grattacieli e da propulsioni di motori a reazione. Aria piena di proteste o esultanze, a volte, o più spesso di imprecazioni. L’allodola di fuoco va, quasi invisibile, nell’aria. E certe volte accende le persone, passando sugli occhi e sulle labbra, sfiorando il cuore. Bucando la lingua, un piercing divino. Mi chiedono a cosa serva la poesia. E come tutti quelli che l’hanno conosciuta non so bene cosa dire. Fate un gioco: guardate la faccia di quelli a cui chiedete “ehi, scusa, cosa è la poesia? A cosa serve?” A meno che non si tratti di idioti tromboni, diventano come quelli che forse hanno visto un fantasma, o si stanno svegliando da un sogno. L’hanno vista in volto? Era lei? “Sì, devo averla vista, ma non sono sicuro…” Diventano come quelli che devono parlare della persona più importante della loro vita. Non trovano le parole. Anche a me capita così. È più di trent’anni che ne parlo. E non so cosa dire. Eppure le ho dedicato la vita, me l’ha presa. Allora dico piano: “Niente”. Niente. Splendore di questa parola. Suona vertiginosa quando indica il punto in cui manca ogni convenienza. Ogni economia. Niente scambio, niente in cambio di niente. Non si tratta di quel “niente” che pensano i filosofi nichilisti e saccenti, i quali immaginano con la loro piccola testa di sapere che tutto esiste per nessun motivo e nessun destino. E che pensano che di tutto la consistenza è nulla. Venivano derisi da Montale: “Con quale voluttà/ hanno smascherato il Nulla./ C’è stata un’eccezione però:/ le loro cattedre”. No, no, il niente che è la poesia non è di quel genere. I bambini e i mistici (e i poeti) sanno cosa è questo “niente” – quello dei pomeriggi dove non si fa nulla di importante ma si cresce, o che si sente dentro finché la mamma non ti abbraccia, quello che acceca per un istante la vista che ha visto tutto. Dante tace quando deve dire cosa ha veduto in fondo al suo viaggio nei regni della morte e della vita. Nientissimo “nada”. Quel che si fa largo nelle emozioni fragili. Lo conoscono, a volte, anche coloro che chiamiamo “i pazzi”. Il tutto visto di spalle. Stiamo parlando del punto della perfetta letizia, come diceva san Francesco? Dove non hai niente, niente, sei povero, niente a cui attaccarti, e potresti morire – se non la presenza che davvero ti allieta. La poesia riguarda tale “presentarsi”. Non il “presente!” gridato all’appello dal soldato o risposto di malavoglia dallo scolaro. È il “che bello che sei qui…” dell’innamorato. Sono pochi i punti dove si tocca lo splendore di questo genere di “niente” in una esistenza: alcuni amori veri, lo sguardo verso i propri figli, certi momenti in cui non si bara con Dio, e molto spesso – non sempre, purtroppo – il rapporto con il padre e con la madre. La poesia, allodola di fuoco, tiene vivo il “niente” nelle nostre vite troppo economiche, commerciali, fatte di scambi. Ci accende di quel niente. Ma la poesia è niente anche perché tutta l’Iliade non vale la vita di un bambino malato. Chi pensa che l’arte sia un idolo, una cosa di grande valore, che vada onorata più della esistenza sfortunata di un piccolo malnutrito in Ruanda, non ha capito nulla dell’arte. Rispetto alla vita – come diceva Rimbaud – la poesia è “merda”. “Merde pour la poesie!” – la frase esplode così, nella meravigliosa, tremenda sua forza e verità dentro “Una stagione all’inferno”. La poesia viene sempre “dopo” la vita. Chi invece la parifica, chi la antepone o chi, addirittura, crede che la poesia sia una specie di salvezza della vita e pensa così facendo di onorarla, in realtà la sfigura. Nientissimo niente, spiraglio. Ispirazione. Io negli scambi non sono capace. Li ho sempre persi, e anche con lei ho perso tutto. È un po’ truffatrice la poesia. Ma la guardi negli occhi e dici: per fortuna ti ho incontrato… Sono contento che sia andata così e comunque non poteva andare diversamente. L’allodola di fuoco a volte si ferma al centro degli occhi di un ragazzino. Potevo voltare la testa, certo. Non l’ho fatto. Questo libro non è una antologia. Non è nemmeno un vero e proprio libro di poesie. La poesia, del resto, non è mai stata una faccenda di libri. L’hanno fatta passare per una cosa di libri solo di recente, e hanno sbagliato. Lei infatti non ci sta. Con grave scorno di editori, professori e letterati, gente coi cuori poco accesi. I libri stanno cambiando, in buona parte svanendo, e sta cambiando il supporto con cui si passano le parole tra gli uomini. Ma la poesia no, non sta svanendo. I suoi libri si stanno trasformando in una specie di preziosi talismani, e intanto la sua voce corre per nuovi canali, e sempre per aria. Né Dante né Omero e nessun poeta fino a secoli recentissimi si è mai posto il problema dei libri di poesia. Esisteva la poesia, come esiste ancora, spesso recitata, mormorata, detta ad alta voce, e oggi replicata con mille tipi di diffusione, dalla radio a Internet. Parole e voci umane che nascono da momenti di esperienze personalissime, parole accese che sono in grado, a differenza di tantissimi altri tipi di parole, di essere significative per persone lontane nel tempo e nello spazio. L’allodola vola dove vuole. E come vuole.