XI puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XI puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XXV
Lo strano privilegio

Taddeo è tornato da Gerusalemme insieme ad alcuni parenti e discepoli.
È entrato in casa di Pietro, dopo aver battuto i sandali polverosi sul muro. Appoggiando le bisacce ha detto: «Si parla molto di te. I farisei hanno dato disposizione che chi ti vede deve denunciarti. Ma molti nuovi seguaci si chiedono come mai non vai per la festa delle Capanne. Si aspettano di trovarti nel Tempio».
Gesù alza la testa. È seduto tra i suoi discepoli. Stava spiegando alcune delle parabole usate nei discorsi. Si interrompe. «Nel Tempio?».
«Sì, c’è attesa di te. Delle tue parole.»
Giacomo ricorda: Gesù ha detto che a Gerusalemme lo aspetta la manifestazione finale e la morte. Il seme
deve morire...
Pietro sta sistemando una corda. Tra lui e il Nazareno basta un’occhiata.
Si va.
Gli altri non se l’aspettavano. Ha cambiato idea, il maestro ha cambiato idea. Si va, si va a Gerusalemme.
La strada verso la città capitale della Giudea è un suono di corno, una canzone che si perde tra i monti.
Si cammina in silenzio, ma anche discutendo, ridendo. Pietro si avvicina a Giacomo, che è il più silenzioso.
«Cosa ne pensi?» La voce un sospiro.
Pietro sa a cosa si riferisce. Nei giorni scorsi lui, Giacomo e suo fratello Giovanni che li aveva raggiunti,
come accade di rado dalla città, hanno accompagnato Gesù in un luogo appartato. Erano in una piccola altura.
«Non so bene» risponde Giacomo, guardando l’amico. Ha sempre pensato a Simone detto Pietro come a uno che non perde la testa. È contento di essere al suo fianco. Sono diversi, certo. Ma una coppia che sa capirsi. E per Giacomo, che sa d’essere uno di entusiasmi profondi e di abissali delusioni, il fatto di avere vicino uno come Simone, uomo irruento ma pratico, è un conforto.
«Queste visioni erano riservate ai profeti, agli eletti» mormora Giacomo.
Simone detto Pietro sorride, anche se l’altro vede che è un sorriso pensoso. A volte a Simone viene in mente
la sua piccola ditta di pescatori a Tiberiade. Le cose potevano andare avanti così. La pesca, le reti, la sua famiglia, i soci, i soldi...Poi era arrivato questo uomo. E tutto era stato trascinato in un’altra direzione. E addirittura ora, a lui pescatore di Tiberiade, erano date visioni con Mosè, Elia...
«Non parlatene a nessuno» aveva intimato Gesù scendendo da quel luogo appartato. Anche lui sembrava tremare per quanto era successo. No, non impaurito. Ma è come se un magone, un battere come di lontani sonagli più forte fosse entrato da allora nelle sue parole. E loro tre, i tre testimoni privilegiati di quella trasfigurazione, ogni tanto si lanciavano occhiate, mezze parole. Loro avevano visto.
Giacomo ora cammina facendosi ombra agli occhi con un lembo di mantello sulla testa. Sta vicino a Gesù,
ogni tanto gli passa dell’acqua, un dattero. Pietro sta davanti, gli piace osservare i posti dove arrivano, guarda la gente sulla soglia di casa, i gatti, i piccoli che giocano. Andrea è guardingo, cammina sempre aspettandosi
qualche possibile problema, occhi radar. Levi Matteo è il più elegante nel portamento. Gli altri all’inizio non lo vedevano di buon occhio. Come era venuto in mente a Gesù di chiamare un pubblicano, un esattore di tasse
di Cafarnao nel gruppo? I primi discepoli erano perplessi. «La gente non ci guarderà bene», dicevano. E infatti le occhiate di traverso e le mormorazioni al suo passaggio non mancavano. Poi Matteo si era rivelato un
uomo di cuore forte e netto come la calce sotto la luna.
Natanaele Bartolomeo è quello che suda di più, tiene compagnia agli altri con le sue battute anche nei momenti difficili. E se c’è qualcosa di faticoso da fare non si tira indietro. Filippo ha nome greco, come Andrea, è colto e sa parlare con tutti. A volte piega la testa e osserva Gesù come se lo vedesse per la prima volta.
Scherza con Natanaele perché quando gli aveva detto di aver conosciuto Gesù, quello aveva esclamato: «Ma cosa vuoi che venga di buono da Natzareth?». Giacomo di Alfeo è anche lui Nazareno e si vede. Un ragazzo semplice, senza grilli per la testa. Giuda Taddeo è magnanimo, si mette sempre in moto per primo per le esigenze di Gesù e del gruppo. Va a prendere vestiti se servono vestiti, va a cercare acqua, o frutta, anche se il cassiere, chi governa i soldi del gruppo è il suo omonimo, Giuda di Keriot. Un uomo silenzioso, fidato. Gli occhi di taglio orientale danno al suo viso una specie di grazia gentile anche quando si fa scuro. Ultimamente accade spesso. Ha subito dimostrato buone doti di amministratore. Pietro e Giacomo gli han dato l’incarico
di non lasciarli mai a secco.
Qualcuno ogni tanto fa un’allusione, una mezza battuta sul fatto che i soldi che circolano rapidi tra le sue dita circolano a volte così rapidi che non si vedono nemmeno più, e spariscono non si sa bene dove. L’altro Simone del gruppo è di Cana, è un ragazzo appassionato e devoto. Ha avuto forse simpatie per gli zeloti, deve aver partecipato a qualche loro azione da insorti, ma preferisce non parlarne. Tommaso è uno della cerchia dei parenti del Nazareno. Ha gli occhi grandi, la fronte spaziosa. Un uomo che sembra ogni tanto perduto in suoi pensieri e poi interviene su molte questioni con precisione micidiale, come se prendesse le idee per aria.
Gesù cammina nel mezzo, in questa strana nube d’uomini. Non veste come gli altri rabbì. Non è come altri sapienti che girano con cinque discepoli e che sono serviti e riveriti dovunque arrivino. I suoi sono dodici.
I farisei lo hanno notato subito. Dodici come le tribù di Israele. Non fa niente a caso, questo Gesù, dicono tra loro. I più esperti sobbalzano vedendo come cita oscuramente le Scritture, come obliquamente lega in modo strano, nuovo i fili di antichi salmi, profezie. A volte mentre i presenti lo ascoltano, e caprai, donne malate, sbandati, tessitori, mendicanti, tendono l’orecchio curiosi, stanchi, spesso confusi, gli scribi invece stanno a testa bassa. O con la faccia appoggiata sul palmo della mano, la faccia seria. Lui sa che loro capiscono. E l’acciaio degli sguardi a tratti fa scintille.
Questo gruppo di uomini polveroso, accaldato, spesso circondato da ammalati, da straccioni, da biascicanti, ovunque passa lascia una strana inquietudine. Un gruppo di sediziosi? L’ennesima brigata di agitatori politici? Cosa cercano? Perché passano di villaggio in villaggio, e cosa li attende a Gerusalemme? Di molti di loro, specie in Galilea, si sanno notizie, non sfuggono ai pettegolezzi.
Chi è quell’uomo al centro, che cammina sotto le nubi e ha qualcosa, un segreto che gli fa girare lo sguardo come se cercasse qualcosa?

XXVI
Lei, di Magdala

«Certo che hai detto cose tremende...» La voce di lei è bassa, ma non intimidita... «Su Gerusalemme, sì, insomma...»
Lui non risponde. Guarda il fuoco.
La voce della donna, seduta fuori dalla casa vicino a lui, ha un tremito, ma lievissimo, forse una premura.
«Devi proprio andare?»
Gesù la guarda. Sta piegando alcune stoffe. Tuniche, vestiti. Ha i lineamenti decisi, ma al tempo stesso graziosi. Una delicatezza forte. Qualcosa nel suo sangue deve venire dall’Etiopia o da altri paesi remoti verso ovest.
Lui non dice nulla. Anche lei accenna un mezzo sorriso. Ma è il sorriso delle donne quando sono un po’ nervose. Un niente, un brivido, lucertola tra le foglie.
«Io non capisco bene cosa dici quando parli in quel modo» continua lei alzandosi.
Prende da un grande cesto e distende alcuni piccoli teli e combinazioni di panni sulle pietre vicino al fuoco. «Quando sento che parli della fine dei tempi, di distruzione della città di Davide, io, ecco io mi confondo... Insomma, sei uno che ha guarito le persone, non ti sei fatto problema a parlare con donne e disgraziati di ogni tipo e di ogni regione. Mi piace questo. Tu sei un profeta, tu insomma, sei... Io penso che davvero vedi i
segreti del tempo. Stai mettendo in guardia la gente da pensare che le cose vadano bene, qualunque cosa si fa.
Però, ecco, insomma, ti volevo dire: stai attento.»
Dice queste cose senza guardarlo. Si china a stendere bene con il palmo della mano un telo. «No, ecco, insomma, tu fai bene, ad ammonire Gerusalemme. Io ho una sorella che abita là. È una città tremenda. Soldati
e preti, solo preti e soldati. E tanti mercanti. E quindi tanti ladri e farabutti.»
Gesù osserva questa donna che da un po’ di mesi sta nel loro seguito. Di lei si dice che sia stata una della più note prostitute della sua zona. Maria di Magdala, la chiamano. Ma non è ben chiaro da dove viene né cosa
abbia fatto finora. Le donne hanno spesso un passato nebuloso. Un mistero di sofferenze inconfessabili e di schianti. O di felicità passate come sogni e poi fuggite. Alcune riescono a portarne lo stemma, a fare di un’ombra un monile prezioso. Nel gruppo dei discepoli c’è chi l’ha guardata con sospetto. Ecco, dicevano, una di quelle che non è più giovane e allora si attacca a un carro qualsiasi che le potrà assicurare pane e protezione.
Altri le stanno lontani per paura di chiacchiere fastidiose.
La notte è altissima. In inverno il cielo sembra voglia stare più solo e lontano, con i suoi scoppi di stelle interiori, i suoi smalti, le tempeste segrete...
«Verrai con noi?» chiede Gesù.
Lei finisce di disporre i panni sulle pietre e di raccogliere quelli già asciutti. Ha le maniche tirate su, le braccia e il viso, lievemente sudati, si illuminano del bagliore del fuoco. Per lei in molti devono aver sbandato. E invocato come nell’antico Cantico la sua bellezza come «colomba che sta nelle fenditure della roccia».
«Come un nastro di porpora le tue labbra...» Dicevano di lei: ha sette demoni... Poi lui se la è ritrovata nel seguito. Non sa bene come è capitata lì. Quando arrivano in qualche paese o villaggio gli uomini sulle porte delle botteghe o delle case la guardano come se passasse un vento di niente negli occhi.
Lei alza la testa, fa uno scatto del viso in avanti, come una cerva, una lupa tra i rami, indicando la casa presso il cui muro è seduto Gesù e dove stanno i discepoli, alcuni già addormentati. «Questi,» dice con un sorriso, «senza noi donne non vanno da nessuna parte. E non perché laviamo le loro tuniche, no... Loro pensano così.
Ma il fatto è un altro: è la paura.»
Gesù la guarda con un moto di curiosità negli occhi.
Lei, mentre rientra con il grande cesto, sosta un attimo accanto al sedile in pietra su cui sta il Nazareno: «Tutti hanno paura di qualcosa. Dei demoni, dei sacerdoti, della tua fine dei tempi... O anche solo di morire. Noi donne, sai, a volte abbiamo già conosciuto così tanto dolore, così tanta felicità e poi così tanta morte
addosso che no, non abbiamo più paura di niente».
E poi guardando qualcosa chissà dove: «Di niente...».
Gli si avvicina con le labbra ai capelli: «Vedrai, noi ci saremo sempre con te».

XXVII
Gli assalti

Il pugnale fino al manico. La gola si apre, il rovescio di pelle bianca e il vivo rosso.
Il sangue gorgoglia. L’uomo si accascia sul mulo per strada, una mano sulla ferita trascinando giù il carico che voleva proteggere. Nella polvere finiscono un sacco di piccoli vasi di terracotta, un orcio di olio, rotolano alcuni frutti. Il mulo scuote il corpo appeso male, sgangherato e il sacco di vasi.
I predoni in un attimo sono sugli altri due viandanti, che provano a difendersi con i bastoni. Il più rapido riesce a colpire uno dei cinque assalitori alla spalla. Ma un colpo di sbieco. Il bandito ha una smorfia di dolore.
La pelle per la contusione fiorisce violacea. Ma questa è gente agile e veloce coi coltelli. Il primo dei malcapitati già sta morendo con la pugnalata in gola, ha la gamba ancora appesa ai cordami del mulo. Un fantoccio sgraziato, gorgoglia con la bocca nella sabbia. Il secondo prova a fuggire ma in un attimo gli sono addosso in due, grida per pochi attimi, scalcia, forse prova una supplica che gli muore tra i denti. I colpi gli arrivano ripetuti nel ventre. Come in un sacco. Il sangue nero gli impregna la tunica, le viscere premono sulla tela.
Il terzo ora è in ginocchio davanti agli altri tre briganti. In un istante si fa un silenzio assoluto, teso. In piedi tengono gli occhi semichiusi per la troppa luce del mattino alto. Uno si guarda nervosamente intorno.
Occhiate come un contagio. È il più giovane, i capelli gli scendono fino alle spalle.
«Per il nome del Signore,» dice tremando il mercante che ha la fronte tirata per il terrore «prendetevi tutto ma non uccidetemi. Ho moglie, quattro figli piccoli.» Ma il capo della banda, un uomo grosso e calvo, che sta sudando sopra agli occhi che gli bruciano lo colpisce con un calcio in viso. Se non dà ogni tanto queste prove di disprezzo i suoi penseranno che è arrivato alla fine. Certe prove di crudeltà sono diventate necessarie.
A quarant’anni sente l’alito del suo assassino che arriva.
L’uomo in ginocchio non riesce nemmeno a lasciare un lamento. E quando è sbattuto a terra, il capo con un gesto svelto come di pastore che lega un agnello lo finisce con una pugnalata dritta nel cuore. L’uomo sobbalza, trema, rantola un poco. Gli occhi sono spalancati, come se non volesse credere a quanto sta succedendo.
Una bava gialla gli scende di lato dalla bocca, la luce lo abbandona, un sogno che rientra nelle pupille.
Le strade per Gerusalemme nei giorni prima delle feste sono pericolose. I predoni arrivano rapidi. E rapidi svaniscono tra le rocce. Uomini in piccoli gruppi, cani magri. Hanno bracciali ai polsi, labbra spaccate negli scontri. Hanno cicatrici sul viso o in testa che bruciano nel sole. Spartiscono il bottino con qualcuno dei villaggi vicini in cambio di protezione. Hanno il sangue maledetto dei braccati. Pasqua è un buon periodo per questi colpi. Pellegrini sprovveduti ce ne sono. I predoni non possono certo attaccare le carovane di quindici venti persone con bambini e uomini armati. Ma questi sparuti gruppetti, di caprai o artigiani che vengono da piccoli paesi sono prede ideali. Cosa credevano di fare coi loro bastoni... Il capo della banda, al riparo di una roccia sta dividendo il bottino con gli altri. Il bandito ferito dalla bastonata alla spalla mugola qualche bestemmia. Gli altri lo deridono. E si passano l’orcio del vino. Gli anelli alle dita e i bracciali brillano nel niente torrido del mezzogiorno. Il capo allarga la bocca per far vedere che ride, intanto osserva il viso dei suoi con sospetto.
Torna silenzio sul luogo dell’assalto, la terra crepa di sete, il mulo è stato trascinato via. La sabbia si imbeve di sangue.
I tre corpi scomposti sono lettere di un alfabeto del nulla. Uno scorpione torna sotto la pietra.

XXVIII
Gerusalemme rosa incendiata, labirinto

La città appare quieta nel cielo di inizio ottobre.
Verso sera l’azzurro si fa chiarissimo e poi più intenso e infine si accendono fuochi nelle piazze dove la gente si raccoglie da tutto Israele per la Festa delle Capanne. Si alzano tende per i raduni di ringraziamento per i raccolti. I quattro grandi candelabri d’oro nel grande Atrio delle Donne al Tempio sembrano dare luce a tutta la città. Canti, nenie, suoni di tamburi e flauti si spargono come gli odori di arrosti e di spezie.
Ma di mattina è il sole a dominare. E il caos. La città tigre si sveglia famelica e predatrice.
Il gruppetto di uomini che entra dalle grandi mura a nord per la Porta delle Pecore si immerge nelle viuzze piene di banchi, di ragazzetti che corrono, di uomini con i muscoli tesi sotto i sacchi. Non dà nell’occhio.
Quarantamila affaccendati brulicano tra i due grandi mercati e le case in mattoni di terra. Si incrociano le vesti nere di molti sacerdoti. Sono circa in ventimila, la metà degli abitanti. La città di Dio è nelle loro mani. E molti pensano che Dio stesso sia nelle loro mani. Ogni mattina in questa settimana di festa, centinaia di sacerdoti escono in processione fino alla vasca di Siloe. Hanno vesti eleganti, cantano salmi accompagnati da tamburi, cembali con nenie musaiche infinite. Poi tornano all’altare del Tempio, il largo piano in pietra dove cola il sangue delle vittime. Agnelli, colombi... Lo benedicono tra canti, strepiti di bestie impaurite e folla. C’è ovunque voglia di festa. Come una pazzia trattenuta. Di notte ci sono danze fino allo spasmo, inni sacri, sacerdoti che tra le colonne danzano vorticosamente con le torce in mano. L’odore del sangue si mescola a incensi e altri aromi. «Immolerà il capo di grosso bestiame davanti al Signore, dice il Signore, e i sacerdoti figli di Aronne offriranno il sangue e lo spargeranno intorno all’altare... scorticherà la vittima e la taglierà a pezzi... e i sacerdoti figli di Aronne porranno il fuoco sull’altare e disporranno i pezzi, la testa e il grasso... laveranno le interiora e le zampe, poi il sacerdote brucerà tutto... Se la sua offerta è di bestiame minuto, pecora o capra, offrirà un maschio perfetto, lo immolerà dal lato settentrionale dell’altare, e i sacerdoti spargeranno il sangue attorno all’altare...»
I ragazzi, appoggiati fuori dalle botteghe dei forni o sui gradini delle case, guardano coi loro begli occhi neri passare le donne. Che non guardano e sanno. La città si è lasciata alle spalle il mesto giorno dello Yom Kippur, il ringraziamento segnato da digiuni e penitenze. Il sommo sacerdote in quel giorno ha versato il sangue della vittima nel luogo più sacro del Tempio, penetrando per l’unica volta in un anno nel sancta sanctorum. Il punto più santo della storia del popolo eletto, da dove irradia la potenza della Parola di Dio.
Quella stanza è vuota. Non c’è nulla. Da quando l’Arca della Alleanza è sparita, nel corso di una delle razzie straniere, il sommo sacerdote entra nella stanza vuota mentre fuori sospendono il fiato le danze e i canti.
Lì nella stanza deserta il capo dei sacerdoti prega il Dio onnipresente. Il Dio dell’infinita misericordia. Dell’alleanza con Abramo, uomo dalla discendenza come le stelle del cielo. Infinite e disperse.
Il gran sacerdote invoca il grande Presente nella stanza senza niente. Muove le labbra anziane. La memoria alveare lascia in lui sciami di parole, di versi, ricavati da antichissime profezie, preghiere...
Poi come ogni anno era stato liberato il grosso capro. L’animale, stupefatto in mezzo alle urla, liberato nel piazzale del Tempio è stato sospinto verso il deserto. Fremente nel suo lungo pelo nero, come un incubo.
Là deve correre e svanire, capro espiatorio che porta su di sé tutti i peccati di Israele. L’animale, dopo che gli inservienti lo hanno tratto da un carro chiuso sul retro del Tempio e lo hanno buttato in mezzo al portico, anche quest’anno ha scartato, indeciso sulla direzione da prendere. Hanno agitato le braccia, gridato. Il suo muso si è riempito di bave, le sue pupille erano ardenti di sole anteriore, stupide e piene di fiamme. Il buio in cui lo avevano tenuto e pulito le aveva quasi spente. E ora si erano dilatate, fiammanti e cieche. Spaventato, folle, si è dileguato sospinto verso la porta in direzione del deserto, con un verso lugubre mentre la folla esultava e batteva mani e tamburi.
E dal deserto ora viene il Nazareno. Avanza nel nucleo d’aria tra i suoi amici che lo accompagnano.

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