Poesia e arte. Opera in versi ispirata a Elisabetta Sirani

Poesia e arte. Opera in versi ispirata a Elisabetta Sirani

Il veleno, l’arte
Elisabetta Sirani (Bologna 1638-1665), pittrice in Bologna

Una figura di donna, nella penombra. È seduta a terra. È vestita
d’arancione come i tristi prigionieri che abbiamo conosciuto
recentemente.
Accanto ha qualche povera suppellettile, una brocca, un cucchiaio
di legno, qualche foglio di carta.
Ha la voce impastata, come di una quasi ubriaca.

I
– Andate a dire al Magistrato del Torrione
che io non ne so niente! Non ne so
niente e non me ne importa niente!
Che non mi vengano più a cercare.
Mi lascino in pace. In questa fogna.
A crepare, se si deve crepare.

II
Hai capito secondino, o guardiaccia
che tanto lo so che origli con le tue orecchie pelose
dietro a quella porta di legno e di ferro!
Vaglielo a dire al tuo luogotenente
e poi lui lo dica al suo superiore sbirro
e quello salga le scale che deve salire,
lo dica al suo capitano e lui vada su, su a finire
allo scranno del Magistrato del Torrione e se può, se riesce,
lo vada a dire pure all’Arcivescovo, glielo bisbigli
nell’orecchio mentre con il suo codazzo esce:
lei non ne sa niente, lei non ne vuol sapere niente,
non c’entra nulla in quella faccenda
nera come il demonio di pittori, donne e veleni...

III
Cosa me ne importa –
Non ne so niente della Sirani.
In questa galera,
dove non mi vedo
più il viso,
le mani...
Qui nel buio alto
vedo se voglio grandi navi,
o strani i colori pestati.
Oppure appaiono le forme più vane,
draghi, mille torri in fiamme,
e sì, a volte, il sontuoso
il grandioso di Elisabetta catafalco...

IV
Hai capito carceriere! Piantatela di venirmi
a interrogare con i vostri ferri e le vostre funi!
Non mi fate più effetto. E smettete di mandare qualcuna
di queste che nemmeno si posson dire più donne
che mi si avvicinano di notte nel letto
o nelle ore della broda o del poco d’aria e mi fanno:
ah, la povera Sirani...
finire così giovane, così male...
tu che da tanto tempo sei qua dentro, quante ne avrai sentite...
E mi guardano dritta con gli occhi da animale
per carpire un segreto, una mezza parola, una espressione...
Ma io niente, zitta.
Io non dico niente, non ne voglio sapere niente...
(si alza, rassettandosi un po’. Parlando più piano)
Io una mia idea ce l’ho...
È vent’anni ormai che sono quaggiù
dove la luce è precipitata,
dove sono di buio tonta,
e non sono forse capace di capire un mistero come quello?
L’esperienza conta!
(a voce più alta)
È vent’anni ormai che son qua dentro!
E per fortuna la mia guardiaccia con le orecchie pelose
mi vuole un po’ di bene e ogni tanto
mi passa un goccio di vino amaro!
Ah il mio amore di guardiaccia, il mio Ercole, le mie rose,
il mio Adone, il mio innamorato, uomo raro
che mi fa questo favore,
che mi tratta così da regina in questo scantinato!
Sei il mio innamorato!
Guardiaccia! Senti come mi batte il cuore per te!
E per la tua fiaschetta! Non ti preoccupare,
tanto a quest’ora di notte, a quest’ora perfetta
non ci sente nessuno.
In questa buca dormono tutte
con il sonno pesante delle colpevoli.
E gli altri secondini sono fermi, sonnecchiano, non uno
che badi a queste mie grida.
Amore mio! Mai visto e mai amato!
(ride, sguaiata)
Sei gentile con me per i servigi che a tuo padre
ho elargito,
a lui che prima di te in custodia mi tenne!
Lo sai vero?
Tu mi porti il vino, e te ne renda merito Dio.
Ma lui ogni volta che venne
ben altro mi ha portato! E gliene rendevo merito io!
Allora ero giovane, bella, ci sapevo fare.
Non ero questo mucchio di stracci, faccio
fatica a respirare.
E non mi sembrava facesse così buio qui.
Quando ero giovane non mi sembrava così notte.
Così notte come ora...
È cambiata qui dentro la notte. Chi sa se anche là fuori,
se Bologna, se la notte, se è cambiata
la Signora...
Se ci sono i ragazzi come ero io a girare e i pittori
quel Guido Reni, giocatore d’azzardo,
i suoi allievi, quelli bravi e quelli invidiosi,
o altri han preso il loro posto, e se ne vanno
barcollando di meno, di meno in ritardo...
Chi sa se ci sono tra gli archi, tra i portici, quelle luci
che avevo nei miei occhi belli, nei capelli...
Gurdiaccia ci sei...
Ci sei almeno tu, amoremio, tu
mio carceriere e tiranno, sei lì ad ascoltarmi
ora che ci siamo bevuti nel buio
un altro anno –
o non mi senti più...
Forse stanotte te la dico. Te la dico la verità
sulla morte della povera Sirana, o Sirani Elisabetta,
la pintora che morì così male in quell’agosto,
la pintora poveretta...
La vuoi sentire la verità sulla Sirana?
La smetterete di venirmi a tormentare?
Ci farai bella figura? Ti servirà a qualcosa o sarà vana
per la tua pulciosa carriera di soldato e di spia?
Se te la dico mi porti via? Ah!
Mi apri la porta di legno e di ferro e mi porti
in piazza a ballare, oppure più in là
dove mi dicono che ci sia,
grande e pieno d’aria, il mare...
La vuoi sentire la verità sulla Sirana?
Vuoi che continui a parlare la tua donna
perduta e strana?

V
Mi sembra di sentirlo ancora blaterare
il magistrato della Torre
che scendeva in questa palude
con l’occhio azzurro, spaccato,
e mi veniva a interrogare:
(si mette a fare una specie di pantomima)
In nome della Iustitia che è amministrata in Bologna da sua Eminenza
il Vescovo, o anche più propriamente Archiepiscopus, nonché
della civica Iustitia amministrata dal qui presente Magistrato
del Torrione, che poi sarei io me medesum, le pongo ancora
una volta, per l’ennesimissima volta la quaestio,l’inquisitio, la
domanda: dove ella stava i dì della festa della porcellina in agosto
in Bologna nell’anno domini 1665 e sapeva ella se la pintora
Elisabetta Sirani, filia et adiuctora dell’illustrissimus dipintore
Sirano a illo tempore afflictus da gutta e dolens in la su magione,
la stava ben in ton? Insomma cum la stava la cinnazza?
E conosce ella se la di lei serva Lucia Tolomelli stava in quei dì
della festa a servizio oppure se ne era misteriosamente, furtivamente,
in tutta evidenza colpevolmente et malaintentionatamente
ita, annata, sciuta, allée, fora, senza motivo apparente, lasciando
nella casa del pintore Sirano, lui medesimo, la moglie e
la figliola in preda ai lor mali, et in particulare Elisabetta che doleva
allo stomaco, come han dimostrato otto valentuosissimi medici
nel gran consulto e tempesta di cervelli, dove tuona et fulmina
et saetta la scientia medicalis, secondo quanto nel riportato
allegatus si dimostra e compruova, per aver assunto da mano
ignota un veleno potentissimo che fece nel di lei stomaco, come
ha evidenziato l’apertura del cadavero, un bucus, un forus bruciaticcio
et corroso come suole lasciare il fuoco morto? Eh, in dove
la stava?
E mi guardava, con l’occhio spaccato, da mosca
curvo, infelice, duro in questa aria
di carcere, fosca.
E poiché io ridevo, mi veniva insomma
da ridere per le sue parole, per quella
gromma di latino e di dialetto che usava
per i suoi interrogatori, sì da esser
comprensibile ai svariati uditori, lui
si faceva serio, e mi son fatta
seria anch’io...
È che c’era la festa signor Magistrato Uditore!
Festa della maialina come lei dice, o anco detta
gran festa di mezzo agosto e della porchetta.
Alle serve, ai garzoni, si dava un premio
qualche moneta in più, mica una fortuna.
Erano giorni di gran calura,
Bologna d’agosto è un arrosto, è una
febbre malsana nell’aria,
si faceva prima a bere e il vino
picchiava cantando alla testa.
Che festa, che gente varia, signor Magistrato,
ma dal suo occhio liquido, dal suo
mento tremulo vedo che lei
non ci deve essere mai andato...
Voi avete da essere di quelli che va alle feste
dove si sta in piedi con un bicchiere solo
e due pasticcini senza soddisfazioni,
e si sa quasi tutto di tutti i presenti,
i traffici tra i letti e i parenti, cosa
si sono detti in cantina ed in soffitta,
e i motivi di quella acconciatura,
i costi di quella tettina così diritta...
Voi non andate alle feste popolari, dove
non sai chi incontri e un ladro
pare un santo o uno sconosciuto
t’innamora e si beve, si beve
finché non passa l’ora,
e non si capisce più niente.
Più niente.
Come il niente che io le dirò della Sirana.
Il niente che le dirò.
Non mi strapperete dal seno
niente di quella storia di pittori
e di veleno.
Non vi dirò niente, possono andarsene
lorsignori...
Via da questa notte
i loro fantasmi, con i loro verbali,
i faldoni degli archivi, le falde
dei cappelli, gli strascichi, le perizie
dei dottori...
Se ho qualcosa da dire, ehi!, fantasmi
della galera, ehi, visi color
della sera, no, non lo dirò a voi...
Lo dirò a lui, se lo vuole, al mio guardiano,
alla mano che mi chiude qui tutte le notti,
a chi mi lascia per terra, lurido
un bicchiere di vino,
al mio amore carceriere.
Mi senti?
La vuoi sentire la verità sulla Sirana?
Come e perché morì quella ragazza
valente e strana?
Lo vuoi sapere quale fu il veleno mortale?
Amore mai toccato, anche tu, là dove
sei nel gabbiotto o dove
carcerato...

VI
Senti? Qualcuno là fuori
urla, si azzuffa,
è un corteo?
O sono io scema di troppo
silenzio. No, ascolta
si danno sulla voce.
Rompe la notte un piccolo rodeo.
Tra seria e buffa
è la loro contesa – –
È un crocchio? O è un sogno
che mi si insinua
tra la mente offesa e l’occhio.
Ti arrivano le loro grida, i diversi
dialetti? Sirani, il Flaminio, Cantarini
il pesarese che grida: Siboga, t’an capès gnint!
e c’è Brunetti, quelli che sono
negletti e quelli che sono
preferiti dal maestro – eh! a loro non fa vedere
i disegni, per paura che quei
colori vengano rapiti.
Si copiavano, si odiavano,
vezzeggiati, malfidati, a caccia
di denari e di fama.
Guido, il grande
giocatore se li lega, usa la loro brama,
si fa odiare, se ne frega, a lui non arriva nessuno,
li fa diventare matti, li fa litigare,
mangia ricotte rancide
o quel che capita,
tanto di Guido ce n’è uno...
I pittori di Bologna, autori di glorie e di visi assorti,
uomini senza vergogna.
Li senti, carceriere? Si offendono, bevono
si danno il cinque con le mani...
O sono solo altri morti,
e là fuori non c’è nessuno, solo
altri nomi di vento qui nella mia zucca?
Sono anche loro fantasmi
che vogliono sapere della Sirani?
Ah, via! andatemi via dagli occhi,
via anche voi da questa bocca...

VII
È andato di bocca in bocca.
È diventato mostruoso.
Anche quel tizio, quel con il nome
di un vino, un tizio
curioso, anche lui voleva fare il pittore
e invece si mise a scriverne le vite,
le vittorie, le ferite...
Malvasia! Ah, mi fa venir sete
questo nome!
Dormi, carceriere?
Mio unico amore... a quando
un altro bicchiere...
Anche Malvasia si mise a dire
è colpa anche mia, si mise
a gnolare, se è morta
la Sirana, se anche lei è come Masaccio
giovane vittima di un veleno, di un
fattaccio, se il cielo ce l’ha
rubata la colpa è pure mia
io ho spinto il padre che la spinse
povera bambina
a farne una pittora, lei
così veloce nell’ora del dipingere.
Invece di farci piangere,
Elisabetta poteva essere come le sue
sorelle, né brutte né belle,
bravina a suonare, e diligente
ad aiutare il padre pittore.
E invece fui io, dice il vinoso Malvasia,
fui io a suggerire: pittora sia!
È brava, precisa rapida.
Faceva i suoi amorini, diversi
l’uno dall’altro, gli angeli
bambini, delicati, sognati
come bambini mai avuti...
E il padre, eterno secondo
nella mente ripida
della sua invidia e del suo tormento
posò lo sguardo su di lei,
la figlia tesoro,
ogni quadro un po’ di oro
nelle tasche e sul nome.
Lo senti amoremio, dannato
carceriere, lo senti come
nella bravura può celarsi
una iattura, lo senti, mio
unico uomo e ascoltatore,
come non ci salva l’amore...

VIII
Se fossi una fedele sarebbe già ora di dire
le preghiere.
Per me, per la Sirana, e anche per te
anima in pena,
che mi stai ad ascoltare, e che cosa
ti toccherà sentire...
Ma non so più fare,
Dio nel buio capirà
anche se solo gli alzo il bicchiere...
Ora se lo posso vedere con i miei occhi
liquidi e persi,
se lo posso vedere,
Dio
è come un bambino. Tu
lo hai disegnato quasi solo così
Gesù
con la mano piccola e tenere
il volto di Maria, che non vada
via.
Diventerà grande, lo alzeranno
urlante, lo vedremo cadere,
seminerà la terra con la sua
morte, sì, e con la sua alba in petto le primavere
dello sguardo.
E camminerà, gigante nella storia,
lo grideranno, odieranno, segno, pegno
divideranno. E di lui faranno noia,
strame,
scoria.
Ma tu, Elì, Bettì
lo dipingi sempre bambino,
me lo fai vedere
ancora nel suo inizio,
e in tale fossa, qui, lo presenti al mio sguardo
che nella tenebra si fa,
non mi succedeva più,
primizia...

IX
Sì, la serva, Lucia Tolomelli
fece qualcosa di imprevisto.
Fece qualcosa di mai visto.
Andarsene così, alla vigilia
mentre tutta la famiglia dava segni
di malanno.
Anzitutto lui, il vecchio padre,
già per gli anni in affanno
e infastidito e fastidioso per un mal di gotta
o di podagra non ricordo più in questo buio...
Andarsene così, Lucia
diede subito da pensare
aveva qualcosa da coprire,
forse una colpa da fuggire...
L’accusa il padre, la continua
ad accusare... Tira fuori mille
argomenti,
ne riempie interrogatori, mille
incartamenti... Ma io
qui ricordo solo la sua nenia.
Non la voce che accusa, ma la voce che
no, nemmeno, piange...
Ricordo solo la sua voce
quando vide la figlia
sfinita dalla croce del mal di pancia
quando la vide finita, male addormentata.
Ricordo solo
la sua voce, caduta:
«Sembra una vecchia, diceva
perduto, diceva: guarda
com’è gonfiato il viso, come cucito
il sorriso, guarda com’è enorme
il ventre.
Cos’hanno fatto alla mia bambina,
cosa ti han fatto elisabettina».
Nemmeno piangeva mentre
si chiudevano
su di lei le ali
dei corvi medicali.
Stava, come sta un inebetito,
da quello spettacolo stordito.
Era un padre colpito nella figlia.
Non c’è dolore che gli somiglia.
E anche se era un padre prepotente,
anche se tutta la gente
dice e dirà nei secoli che cadranno in questo buio
di galera
che lui era violento, ingannevole, che era
un buon artista ma di lei un infame
sfruttatore, io lo ricordo,
e lo ricorderò sempre
che ripeteva al magistrato e a chi
neppure se lo voleva sentir dire:
«dovevate vedere, aveva ventisei
anni, sembrava ne avesse sessanta, lei
che era bella e fresca e ancora signorina,
la mia bambina, la figlia santa
che ogni padre sogna,
la morte la trasformò in una carcassa
franta, in una inguardabile
carogna...».
Lo vedevo, lo vedrò
sempre raccontare cosa gli toccò
vedere, che cosa i suoi occhi
fatti delicati a seguire
le sfumature dei visi di Guido Reni
han dovuto subire
vedendo la figlia con gli zigomi
cani, il naso enfiato, lo sguardo
rovesciato, il ventre spaccato.
Lei che in un gesto solo
sapeva raccogliere al volo
i suoi anni di pittore e i suoi anni
di bottega,
lei che lui spiava mentre faceva i colori
pestando le terre, piccola dolce strega –
chi me l’ha avvelenata, diceva senza grido
ma padre fatto drago,
chi me l’ha bruciata dentro,
chi le ha corroso la luce, ferito la polpa
diceva cupo, impietrito
e sapeva che anche sua era la colpa...

X
Cosa è questo buio...
Com’è s’è fatto folto.
Cosa vedo, cosa stravedo.
Disse: mettetela in alto.
Non si era mai visto
un così grandioso catafalco.
Vedi come brulica di gente
San Domenico, vedi come hanno elevata
la ragazza,
quante ombre, i fuochi, senti
il bisbiglio
di chi dice di sapere,
lei, lassù
dove non arriva il lancio dei fiori, né l’oro
dei ceri,
lassù, così pianta, così di stupore
affranta d’esser dovuta morire,
non vede più niente
nessuno,
così lanciata, finalmente
hanno aperte le finestre, forse un angelo
ora le fa vedere, lei lassù
Elisabetta, sorriso di nevai, enigma
potente
sopra tutte le teste, come lanciata
verso le volte della cattedrale, e più su, ad altre
feste,
neppure Michelangelo
ebbe un tale onore. Otto metri
davanti all’altare.
Su, datela, portatela
a Dio,
era solo una ragazza
sia alto, laggiù i fuochi,
alto,
tra i fiori il suo
entrare nell’oblìo!
E tutto ora nel buio è ritornato.
Smontato il catafalco,
risalito, compatto
il buio, e lei, in quale vento...
E noi, noi, in questo tormento.

XI
È dura la verità sulla Sirana,
non so se ti conviene sapere, mio
amore carceriere,
non so se ne potrai scampare, non so
se ti conviene qui con me
in questo buio guardare...

XII
Che la Sirana era così bella e sola
e su di lei il tempo vola
ed è silenzio in quelle stanze
dove si dipinge, si pesta il rosso
si prepara la tela.
Tace Elisabetta, tace nel suo fosso
di luce il padre, e sgonnando
Lucia.
Le finestre sono chiuse, nessuno sta guardando
Bologna nella sua luce perfetta e infinita
dipingi, dipingi la vita nel riflesso
tra la perla e la carne del viso illimpidita,
cerca, cerca la vita, la sua grazia
ferita
in quest’ombra che mortifica
e perfeziona i colori
la serva Lucia vede passare
Elisabetta vede passare gli amori.
Il padre con lo sguardo torvo
e furtivo fa lavorare Elisabetta
con il suo gesto perfetto,
guarda lavorare Lucia, Dio, come la stringe
il corpetto,
passa il niente in quello sguardo d’uomo
qualcosa di lontano e cattivo,
l’invidia della bellezza presente.
Diranno: dipingeva così bene,
diranno: lui sì gran pittore, ma lei
dipinge ormai con più finezza,
più onore.
Dirà lui tra se e sé: Elisabetta
senza te
cosa farei ora, come potrei essere
pittore senza la tua pittura,
dirà: Lucia, avvicinati piano,
tra i tuoi capelli, così belli
e acconciati, non aver paura,
come trema
la mia mano...
La signora madre brontolava,
brontolava sempre
per quelle stanze chiuse,
brontolava per quelle stanze
aperte,
non le andava bene nulla, Lucia
oca, stupida fanciulla, trovava da dire
sempre, mangiapane a tradimento,
la madre brontolava sempre.
E cosa è quella acconciatura,
che cerchi mai, serva, una nuova
avventura? Perché passi vicino alle finestre,
chi vuoi che ti veda
con chi amoreggi invece di badare
alle mie minestre?
E quel lamento ingrigiva l’aria
nelle stanze, spegneva i saluti,
le piccole danze di risa
che ogni tanto qualcuna delle sorelle apriva.
Si lamentava sempre,
quel suo veleno spargeva
nelle stanze...
E anche Lucia nel suo cuore
aveva un pugnale. Diceva:
Elisabetta è libera, non ha nessun
dovere, nemmeno coniugale.
È lei che vengono a vedere
i giovanotti, i perditempo, ma si affaccia
spesso qualche messere
con una scusa o l’altra
per vedere se la pittora è graziosa d’arte
o anche da sposare.
Ma lei, pensa Lucia nel suo cuore
piumato e crudele, non alza nemmeno il viso
e quelli se ne vanno, via
e a me no, non mi guardano neppure – –
per me hanno un sorriso di fiele solo
quelli con occhio bieco, voglioso,
che fan suonare le monete nella tasca,
e quando mi addosso con uno di loro
contro il muro giù in cantina,
dopo un attimo mi sento cretina,
voglio solo che faccia in fretta.
E che sfinisca...

XIII
Ehi carceriere,
che buio questa sera, non vedo più niente...
Dove avrò posato il bicchiere?
Vuoto...
Oh, mia anima deserta, mio unico
lampo...
Mio amore che m’incarceri, senti queste voci
in una? La vuoi
la verità sulla Sirana?
se te lo dico, mi porterai in piazza,
mi farai vedere il mare?
Amore, mi darai scampo?
Dicono che là ci sono luci
d’oro, e la sera dal cielo
quando si placa leggero il vento
scendono luci d’argento, di luna
sull’acqua...
Non è più preziosa la luce d’oro
di quella bianca, lama, d’argento...
Si può dire più bella la luce che taglia
lo sguardo di una bimbetta da nulla
del lampo che scrive d’improvviso
qualcosa di tremendo nel temporale,
si può dire che una
più dell’altra vale?
Le luci
non hanno podi, non è classifica,
la luce è uno spazio senza odi.
Forse perché non sono loro, le luci
argentate, o in oro laminate
delle acque o delle nevi, o del sole
tra i rami, o le fughe di luci
tra le ciglia, non sono
loro
ad aver natura d’oro
o di argento o a volte di infuocato
bronzo, non è la loro olimpiade
naturale una gara.
È che s’inseguono le luci, è quel loro
vorticare, il loro tocco
gentile, il loro bruciare.
Lo sanno i pittori, se ne lasciano
incantare, se ne lasciano
ossessionare.
Per fermare una bava di luce
o un velo d’ombra, quante ore
Sirana, quanta vita, Elisabetta...
Perché sono loro che rendono le cose quel che sono.
Le luci pitturano il mondo, ce lo fanno
vedere.
Cosa dico, cosa ne so io,
mio carceriere. Questo buio
cosa mi fa immaginare...

XIV
Ora apri la mano
voglio appoggiare la mia bocca
per dire il segreto della Sirana.
Lo dirò tra le righe della tua mano,
voglio lasciarlo come un segreto
nella rete, nel canestro del tuo
destino, dire a te che unico
sei stato, mio dolce mastino,
mio separato vicino...
L’hanno uccisa tutti
non l’ha avvelenata nessuno,
l’hanno avvelenata tutti
e non l’ha uccisa nessuno
Il lamento di suo padre
e della madre e quello
d’invidia della povera
Lucia –
il veleno di quegli sguardi
l’ha portata via, l’ha
lavorata dentro,
il silenzio di quelle occhiate
la penombra tra quelle ciglia
il fuoco morto della nostra voglia...
Lei non aveva diritto
d’essere un’artista, non c’è
diritto di esserlo mai.
Sì, essere figlia, sì
essere padrona, ne aveva
il diritto lei.
Ma la grazia d’essere artista
non lo hanno perdonato mai.
D’essere gratis, impreveduta,
e come una luce ammirata,
dalle finestre cercata,
in silenzio guardata.
Contro il veleno esserlo gratis
e senza gara,
senza previsione.
Elisabetta! Elisabetta!
ti hanno spento e non
ti spegneranno mai,
vieni, dipingi qualcosa
in questa galera,
porta la tua luce di pittura,
la tua luce vera.
Io la vedo in questo buio,
disperato e innamorato,
io ti vedo alla fine
dei miei giorni.

explicit
Se tu, amore, aprirai la mano
per posare le mie labbra,
questo segreto
sarà l’ultimo passare di colori
dai miei occhi,
il mio bacio estremo
dopo la fine dei miei dolori.

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