Arte e sacro. Intervento al convegno di Firenze degli scrittori cristiani

Arte e sacro. Intervento al convegno di Firenze degli scrittori cristiani

Sintesi dell’intervento del novembre 2011 Quando mi capita di riflettere sul rapporto tra Bibbia e poesia, tengo a mente un avvertimento, che mi insegue fin dai tempi di studi universitari e dalla lettura di saggi come quelli di Frye ma anche di Bloom e di altri, comprese le riflessioni di Luzi e altri poeti miei maestri, come Testori e Bigongiari, che voglio ricordare qui a Firenze. Il primo fu tra l’altro autore di una splendida via Crucis oltre che di una introduzione illuminante sulle Lettere di Paolo e suoi scritti sul Grande Libro sono stati recentemente raccolti. Il secondo qui a Firenze fu fischiato per il suo teatro violentemente ispirato a eventi biblici, come l’Erodiade e fu poeta traduttore della lettera ai Corinzi. Il terzo, Bigongiari, in un suo bel testo “Col dito in terra” riflette poeticamente sull’unico momento in cui Gesù scrive da quel che sappiamo nei Vangeli. E scrive qualcosa che non sappiamo nella polvere. L’ammonimento è che la Bibbia non è letteratura; certamente non la si può leggere come un testo letterario. C’è una differenza sostanziale – per chi lo affronta senza dimenticarsi d’esser credente – da qualsiasi altro testo umanamente ispirato. Me ne accorsi sulla mia pelle dando dieci anni fa una versione dei salmi, edita da Marietti. Nella Bibbia parla una storia speciale. Non inventata dall’uomo, potremmo dire, ma da Dio. Molte sono naturalmente le referenze, i rimandi di tanta poesia di tutti i tempi e contemporanea a quel testo. Il Cantico dei cantici, come poema di lode, è stato ripreso da vari autori, anche in epoca recente. Eppure oggi – come ricordava Claudel – non si trova quasi mai in letteratura la “lode”. Pare che siamo in una terra desolata. Eppure il poeta C. Miloszc in una sua bella lirica intitolata Caffè Greco, afferma che la letteratura sarà riscattata dall’Inno. Trovo interessante questo spunto di Miloszc, provocante per chi avverte una stagnazione. Così anche Giobbe, è stato spesso usato – più o meno impropriamente – in letteratura per sottolineare la sofferenza, ma alla fine l’uso retorico smodato del testo archetipico biblico ha prodotto quasi un annullamento del tema del giusto che soffre in letteratura. Non una sparizione, ma una diminuzione di forza. Quindi oggi è difficile la lode, così come la descrizione della disperazione. Ma non possiamo evitarlo e dunque non eviteremo né il cantico né il libro di Giobbe. Che cosa arriva a noi dunque essenzialmente dalla Bibbia e come ci dovremmo porre noi oggi? Sarà utile trarre spunto dal celebre saggio Atene e Gerusalemme di Sergej Averincev, in cui si osserva, tra l’altro, che il mondo occidentale – sul modello ellenistico – va sempre alla ricerca di un autore. L’autore di un’opera letteraria ma anche di una biblioteca. Autore è un termine rischioso: indica uno che aumenta, che fa crescere la coscienza del lettore. La Bibbia sfugge all’idea dell’autore nel senso greco. Gerusalemme, per dirla con Avernicev, introduce una esperienza dell’autore per cui abbiamo Davide che è, ad esempio, re e salmista. O il profeta, o l’autore la cui vera identità non conta o si perde o coincide con una figura “tipica”. In questo quadro, un autore cristiano da cosa è inquietato e ferito dal rapporto con la Bibbia, oltre che dagli infiniti spunti e dal valore di quanto raccontato? Probabilmente ci tocca essere autori meno preoccupati della nostra sorte di autori in termini ellenistici, e di più in termini “biblici”… Autori, aumentatori di qualcosa negli altri piuttosto che di noi stessi. Ma cosa possiamo offrire di fertile, di originale nel nostro essere autori? La nostra è un’epoca dominata dalla letteratura moralista/sapienziale. I libri che van per la maggiore secondo le mode imposte dal potere dominante sono quelli ad alto contenuto moralistico o sapienziale. Gli esempi sono tanti. Un libro è buono perché denuncia moralmente qualcosa, o perché indica vie di sapienza. In questo senso la letteratura viene ritenuta valida se denuncia il male (naturalmente quello che il potere dominante decide che è male – dunque la camorra, non l’aborto, ad esempio) e se offre vie per diventare eletti, in un mix di varie confuse spiritualità. E dunque quale può essere oggi il contributo effettivo alla letteratura di uno scrittore cristiano? Solo quello di tagliarsi la propria parte nel bazar morale/sapienziale? Si tratta di aggiungere la nostra parte di letteratura morale a quella imperante? Una postilla. Oggi si dice che il cristianesimo è minoritario. Lo è nel senso che la proposta morale che nasce dal cristianesimo pare comunicata e vissuta in modo minoritario. Ma il cristianesimo non è una morale, anzitutto. È l’annuncio di un evento che cambia il modo di vedere la storia e l’uomo. Un modo positivo, dove la libertà di Dio e dell’uomo possono incontrarsi. Il fascino suscitato in tanti dalla rilettura di Dante fatta dal mio amico Benigni è il segno che il cristianesimo parla a tanti, e molti sono i segni nell’arte contemporanea di una vera fame di Cristo. L’autore cristiano non si qualifica perché dà un contributo particolare alla letteratura morale. Sta tutto nel mettere in gioco la propria vita di cristiano, la propria esperienza di fede nella sua scrittura. Lo scrittore cristiano scrive ciò che vive, vedere il mondo come è, come lo vedono anche altri – pieno di scandalo, di male, di pena e di cose meravigliose – solo che per me, per chi è cristiano qui agisce come protagonista della scena Gesù. La scena del mondo che il cristiano vede e descrive non è né meglio né peggio in sé di quello che possono fare altri. Un esempio meraviglioso noi italiani ce l’abbiamo ne I promessi sposi di Manzoni. Ma accade anche nel cristiano Baudelaire, nel cristiano Dostoevskij, nella cristiana Flannery O’Connor. Solo che vede in questa scena bella e tremenda muoversi un protagonista nuovo. E questo – solo questo – fa diverso quello che scrive. Poesie da Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1976 È tutto un crollare, un inginocchiarsi o forse un curvarsi, o stringere in petto. …

XII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XXIX Alla vasca di Betsaida È dall’ultima Pasqua che Gesù con i suoi non veniva qua. In primavera la gran città di Dio era più dolce, meno febbrile. Vicino a dove stanno passando ora, dietro la fortezza Antonia, Gesù aveva guarito un paralitico. Pietro lo ricorda. È successo alla vasca di Betsaida, la più piccola delle cinque grandi vasche di raccolta di pioggia della città. In quel luogo dedicato ad Asclepio, il dio greco della salute, sostano malvissuti di ogni genere in cerca di un po’ di refrigerio, tenuti dalle guardie lontani dal bordo. Ogni tanto una donna buona o un uomo pio allunga loro un bicchiere o uno straccio bagnato. Nei pressi di quel luogo, la città dei preti, dei mercanti e dei soldati di Roma, diventa un luogo strano. Una zona senza regole, dove ci sono movimenti come di lucertole, nodi informi, di topi, uomini che strisciano si spingono si urtano. Malvissuti e malati, con zaffate di fetore e mugolii, scatti di rabbia, grugniti. Mezzi bisbigli. E ogni tanto il ribollire di acque. In primavera dunque, nei giorni prima di Pasqua, un uomo sciancato e immobile se ne stava là in mezzo, sperduto con il viso all’aria. Gesù era voluto andare presso la piscina e aveva atteso il momento in cui secondo il popolo un’ala d’angelo passa sulle acque, quando sale un ribollire che in realtà viene dal fondo della fonte. Pietro se lo ricorda bene. Aveva cominciato a ribollire l’acqua. «Passa l’angelo» avevano biascicato alcuni. E i malvissuti e i disgraziati cominciarono a spingere, a strisciare, tra versi, preghiere e imprecazioni. Qualcuno addirittura colpiva i vicini per farsi largo, con un bastone, steso a terra. Quasi tutti avevano chi li aiutava, un parente, un compagno di sventura, una donna. Quel tizio invece se ne stava fermo a terra, steso, fremente. Non poteva muoversi. E non aveva nessuno che si curava di avvicinarlo al bordo della piscina miracolosa. Gesù si mise accanto a lui. L’uomo aveva la faccia storta, sbavava, tremante. Lunghe rughe gli solcavano la fronte e le guance. Le braccia rattrappite erano scarnite. Le gambe percorse da una specie di tremito febbrile. Un nodo di panni lo copriva a malapena. Aveva la barba lunga, che aveva invaso quasi tutta la faccia. Due occhi cisposi e i capelli appiccicati e lunghi. Due lacrime per lo sforzo di provare a scivolare sulla schiena o per chissà cosa gli scendevano di lato. Intorno gli altri strisciavano e si allungavano. Gesù gli aveva chiesto: «Vuoi guarire?». L’uomo aveva roteato lo sguardo malato nel cielo bianco e lattiginoso, cercando il volto di chi parlava e di tenere fermi gli occhi avvelenati sullo sconosciuto ben vestito che si era curvato su di lui. Dopo un istante, aveva fatto un impercettibile sì con il mento. Gesù prendendolo quasi in braccio lo aveva sollevato. Pietro e gli altri avevano visto. L’uomo sollevato tra le braccia di Gesù barcollava, rideva. Come un bimbo invecchiato. Come se stare in piedi dopo anni e anni di prostrazione lo stupisse e quasi lo divertisse. Sembrava un saltimbanco un po’ fuori esercizio. Ci fu un caos, un imprecare. Gli altri malati e le persone che si trovavano in quel luogo infernale cominciarono ad agitarsi e a gridare. Qualcuno provò ad aggrapparsi alle vesti di Gesù, ma lui, dopo aver detto qualcosa all’uomo che aveva guarito, era sparito via veloce. Pietro lo ricorda, era di Sabato, e subito qualcuno aveva iniziato a gridare al sacrilegio. Passando ora ancora vicino alle vasche, Pietro vede che lo spettacolo non è cambiato. Grappoli di ammalati, di disgraziati che incanagliscono lì, strisciano, tenuti lontani dalle altre vasche dai soldati. Poi dopo quella Pasqua, Gesù aveva fatto un’altra cosa sconveniente. Pietro, mentre cammina ora per Gerusalemme, ci ripensa, quasi sorridendo. «Andiamo in Samaria» aveva detto il Nazareno mentre scendevano dopo l’insegnamento al Tempio. E i dodici discepoli, quasi tutti Galilei, avevano pensato: “Ma allora quest’uomo cerca guai. Cosa può venire di buono da quella regione di malfidati e di avidi?”. Già prima di arrivare allora a Gerusalemme avevano provato a entrare nei villaggi di quella regione di gente con poca voglia di lavorare e dai costumi arretrati, ma ne erano stati scacciati. E lui, ecco, ci voleva tornare. Forse il sentore di scontro con i farisei e i sadducei consigliava Gesù di togliersi per un po’ dalla Giudea. Pietro ammira il coraggio di Gesù. La forza con cui va contro i luoghi comuni, le usanze. Ma in pochi facevano attenzione davvero e capivano che cosa animava quello strano uomo. E i dissidi con i sacerdoti facevano mormorare tanti. Raramente qualcuno lo difendeva. Era successo con un vecchio membro del Sinedrio, Nicodemo. Aveva alzato la voce nel cortile del Tempio in sua difesa. Ma i suoi colleghi sacerdoti non lo avevano ascoltato, era rientrato nella folla. Gli scontri si moltiplicavano. Ma evidentemente non era questo che cercava. E così: «Andiamo in Samaria» aveva detto, sorprendendoli ancora. Cosa sta cercando? Si chiede Pietro mentre si addentrano nuovamente nella città grandiosa e tremenda e lui, come spesso gli accade, pensa ai giorni trascorsi. Anche lui sta cercando di capire. Di vedere che cosa veramente sta succedendo. A volte teme quasi che il cuore e la mente a furia di allargarsi si perdano. La Samaria era apparsa come sempre, una terra dolce, animata da movimenti di colline, molti tipi di alberi. Fianchi di colline su cui corrono ulivi e ulivi e ulivi. Sta lì, a separare l’aspra Giudea di pastori, deserti e montagne e la Galilea, ricca d’acqua per la pesca e schiantata nella roccia. Il cammino era stato percorso rapidamente. Come se Gesù avesse fretta di arrivare là, forse per visitare il pozzo di Giacobbe, presso il villaggio di Sichar. A quel pozzo si era radunato il popolo di Israele prima di entrare nella Terra Promessa, guidato dal fratello di Mosè, il condottiero che non entrò mai nel suo sogno. E ora invece il Nazareno si fermava lì, uscendo dal sogno di Gerusalemme. Arrivati al pozzo, accaldati …

Viandanti sperduti. La preghiera alla Vergine

Viandanti sperduti. La preghiera alla Vergine

Matera, 10 settembre Introduzione: Buonasera a tutti, grazie per l’invito e grazie per quello che state facendo come segno positivo per la cultura italiana; perché il fatto che si sia riunita molta gente in un posto bello come Matera per leggere insieme Dante è un segno positivo per tutti! Avete voluto scrivere “lectio magistralis di Davide Rondoni” ma, evidentemente, io sono un poeta. Scrivo poesie, non ho lo standing – come direbbero gli inglesi – per questa lectio. I miei saranno appunti, da scrittore, da poeta, se volete. Avevo intenzione di fare alcune premesse poi leggere il testo di Dante. Perché questo bisogna fare, stare sul testo. La prima cosa: Dante è visionario: Uno dei motivi dell’attrazione che Dante continua ancora ad esercitare a dispetto di tutto – perché tanti sono gli elementi della sensibilità contemporanea che effettivamente ci allontano da Dante, dal suo tempo, dalla sua cultura – a tutti i livelli, anche i più giovani ne sono attratti, è il fatto che la sua voce abbia dentro una cosa che chi è vivo, chi non si è ancora addormentato, avverte. E cioè il senso del rischio. Dante è un uomo che inizia un viaggio perché percepisce dentro di sé un grande rischio, perché si accorge di aver sperimentato la vita come rischio, come cosa non scontata, come cosa in cui c’è l’eventualità di rischiare e di perdere. Qualsiasi uomo vivo avverte questa cosa perché la vita è un rischio e la materia di questo rischio è il senso stesso dell’esistenza. Dante inizia questo viaggio, dalla selva, perché riconosce di essere in una situazione di sperdutezza, di rischio; perché ha vissuto un’esperienza che noi tutti un po’ conosciamo, per questo parla un po’ a tutti, nonostante la distanza, perché lui ha vissuto l’esperienza di aver visto un miracolo, Beatrice: “cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare.” Una cosa meravigliosa, una cosa bellissima, ha visto questa cosa e poi l’ha persa. Poi lei è morta. E quindi Dante si trova nella situazione di uno che dice: “Beh, cos’è la vita, cos’è questa cosa, questo viaggio in cui mi è data una cosa, un miracolo, e poi mi viene tolto? Che cos’è?” Dante è mosso da questa domanda, domanda rischiosa. Vuole conoscere che cos’è questa esistenza in cui ha incontrato un miracolo, che per lui è Beatrice ma può essere tutto. Un bene grande, una madre, un figlio, un padre, che all’improvviso viene meno, va via. Dante è sperduto nella selva perché sta cercando una risposta a questa domanda. La selva è un grande topos dell’iniziazione, come sapete. Dante si trova in questa condizione perché ha vissuto questa grande esperienza di perdita. Tant’è vero che scrive quella frase che a me fa tremare i polsi ogni volta che ne parlo, la scrive al termine della Vita Nova – dove racconta questo fatto di aver incontrato e perso B.: “Io spero che Dio mi dia abbastanza giorni per scrivere di lei quello che nessuno ha mai scritto per nessuna”. Questo lo scrive perché capisce che tutta la sua vita sarà un grande tentativo di mettere a fuoco cosa è successo nell’incontro con B.; perché, scusate, cos’è la Divina Commedia? È un viaggio. Un viaggio che un uomo fa per arrivare fino in faccia a Dio, in fondo all’essere, alla vita, per vedere cosa c’è. Lo fa rivedendo tutto, rigiudicando tutto, la sua vita e la storia. Lo riguarda e lo rigiudica. Perché la vita se non la giudichi non diventa esperienza. Dante riguarda tutta la sua esistenza e la rigiudica. Perché attraverso questo viaggio fa diventare esperienza significativa la sua vita. Come fai ad andare fino in fondo alla vita? Puoi soltanto vivere intensamente il reale, per cercare di arrivare a capire cosa c’è in fondo. E questo Dante lo fa muovendosi lui, ma ce lo mostra. Sente di fare parte di un tutto e mentre si muove lui, a differenza di quello che sentiamo noi di questa epoca, sa che si muove tutto. Le costellazioni, le stelle, le stagioni, perché è un uomo che sente che tutto è in moto. Dante si sentiva parte di una grande scena, in cui c’è il sole, le stelle, i pianeti. E tutto si muove. Perché dico questo? Perché Dante è un poeta visionario, e cosa vuol dire, relativamente a Dante, avere una visione? Dante ha una strana elezione sicuramente, è un poeta, uno sciamano, un beato, un po’ tutto… Per avere una visione o hai fatto uso di sostanze allucinatorie – e sono visioni a vanvera – o, ed è il caso di Dante, guardi il mondo, vivi il mondo, come una scena. E sono visioni che introducono al vero, al livello più profondo del reale. E cosa vuol dire vivere il mondo come una scena? La parola scena la usa anche San Paolo, non a caso. Guardare il mondo come una scena è chiedersi cosa abbia a che fare una cosa con l’altra, come gli eventi siano collegati. Come quando sei a teatro e guardando quanto accade ti domandi, per quanto in segreto o implicitamente, come le cose che vedi siano misteriosamente legate. A volte – e sono i film più avvincenti – il senso della scena in cui si sono succedute cose, colpi di scena, cose tremende e cose meravigliose, si comprende all’ultimo momento, pur se intravisto per un attimo. Se non guardi il mondo come una scena non puoi avere la visione. Avere la visione non vuol dire spiegare il mondo con una formula. Vuol dire avere colto il senso, direzione, destino. Senso vuol dire anche qualcosa che riguarda il sentire… In Dante questo problema della visione è importantissimo. E la condizione della visione è guardare il mondo come una scena, anche misteriosa. Il punto dove volevo arrivare è questo: il viaggio di Dante è visionario. I critici ancora si accapigliano per definire se avviene in sogno, se è una visione, o solo una finzione, un racconto di visione. Noi non siamo più tanto abituati a vedere la vita …

XI puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XI puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XXV Lo strano privilegio Taddeo è tornato da Gerusalemme insieme ad alcuni parenti e discepoli. È entrato in casa di Pietro, dopo aver battuto i sandali polverosi sul muro. Appoggiando le bisacce ha detto: «Si parla molto di te. I farisei hanno dato disposizione che chi ti vede deve denunciarti. Ma molti nuovi seguaci si chiedono come mai non vai per la festa delle Capanne. Si aspettano di trovarti nel Tempio». Gesù alza la testa. È seduto tra i suoi discepoli. Stava spiegando alcune delle parabole usate nei discorsi. Si interrompe. «Nel Tempio?». «Sì, c’è attesa di te. Delle tue parole.» Giacomo ricorda: Gesù ha detto che a Gerusalemme lo aspetta la manifestazione finale e la morte. Il seme deve morire… Pietro sta sistemando una corda. Tra lui e il Nazareno basta un’occhiata. Si va. Gli altri non se l’aspettavano. Ha cambiato idea, il maestro ha cambiato idea. Si va, si va a Gerusalemme. La strada verso la città capitale della Giudea è un suono di corno, una canzone che si perde tra i monti. Si cammina in silenzio, ma anche discutendo, ridendo. Pietro si avvicina a Giacomo, che è il più silenzioso. «Cosa ne pensi?» La voce un sospiro. Pietro sa a cosa si riferisce. Nei giorni scorsi lui, Giacomo e suo fratello Giovanni che li aveva raggiunti, come accade di rado dalla città, hanno accompagnato Gesù in un luogo appartato. Erano in una piccola altura. «Non so bene» risponde Giacomo, guardando l’amico. Ha sempre pensato a Simone detto Pietro come a uno che non perde la testa. È contento di essere al suo fianco. Sono diversi, certo. Ma una coppia che sa capirsi. E per Giacomo, che sa d’essere uno di entusiasmi profondi e di abissali delusioni, il fatto di avere vicino uno come Simone, uomo irruento ma pratico, è un conforto. «Queste visioni erano riservate ai profeti, agli eletti» mormora Giacomo. Simone detto Pietro sorride, anche se l’altro vede che è un sorriso pensoso. A volte a Simone viene in mente la sua piccola ditta di pescatori a Tiberiade. Le cose potevano andare avanti così. La pesca, le reti, la sua famiglia, i soci, i soldi…Poi era arrivato questo uomo. E tutto era stato trascinato in un’altra direzione. E addirittura ora, a lui pescatore di Tiberiade, erano date visioni con Mosè, Elia… «Non parlatene a nessuno» aveva intimato Gesù scendendo da quel luogo appartato. Anche lui sembrava tremare per quanto era successo. No, non impaurito. Ma è come se un magone, un battere come di lontani sonagli più forte fosse entrato da allora nelle sue parole. E loro tre, i tre testimoni privilegiati di quella trasfigurazione, ogni tanto si lanciavano occhiate, mezze parole. Loro avevano visto. Giacomo ora cammina facendosi ombra agli occhi con un lembo di mantello sulla testa. Sta vicino a Gesù, ogni tanto gli passa dell’acqua, un dattero. Pietro sta davanti, gli piace osservare i posti dove arrivano, guarda la gente sulla soglia di casa, i gatti, i piccoli che giocano. Andrea è guardingo, cammina sempre aspettandosi qualche possibile problema, occhi radar. Levi Matteo è il più elegante nel portamento. Gli altri all’inizio non lo vedevano di buon occhio. Come era venuto in mente a Gesù di chiamare un pubblicano, un esattore di tasse di Cafarnao nel gruppo? I primi discepoli erano perplessi. «La gente non ci guarderà bene», dicevano. E infatti le occhiate di traverso e le mormorazioni al suo passaggio non mancavano. Poi Matteo si era rivelato un uomo di cuore forte e netto come la calce sotto la luna. Natanaele Bartolomeo è quello che suda di più, tiene compagnia agli altri con le sue battute anche nei momenti difficili. E se c’è qualcosa di faticoso da fare non si tira indietro. Filippo ha nome greco, come Andrea, è colto e sa parlare con tutti. A volte piega la testa e osserva Gesù come se lo vedesse per la prima volta. Scherza con Natanaele perché quando gli aveva detto di aver conosciuto Gesù, quello aveva esclamato: «Ma cosa vuoi che venga di buono da Natzareth?». Giacomo di Alfeo è anche lui Nazareno e si vede. Un ragazzo semplice, senza grilli per la testa. Giuda Taddeo è magnanimo, si mette sempre in moto per primo per le esigenze di Gesù e del gruppo. Va a prendere vestiti se servono vestiti, va a cercare acqua, o frutta, anche se il cassiere, chi governa i soldi del gruppo è il suo omonimo, Giuda di Keriot. Un uomo silenzioso, fidato. Gli occhi di taglio orientale danno al suo viso una specie di grazia gentile anche quando si fa scuro. Ultimamente accade spesso. Ha subito dimostrato buone doti di amministratore. Pietro e Giacomo gli han dato l’incarico di non lasciarli mai a secco. Qualcuno ogni tanto fa un’allusione, una mezza battuta sul fatto che i soldi che circolano rapidi tra le sue dita circolano a volte così rapidi che non si vedono nemmeno più, e spariscono non si sa bene dove. L’altro Simone del gruppo è di Cana, è un ragazzo appassionato e devoto. Ha avuto forse simpatie per gli zeloti, deve aver partecipato a qualche loro azione da insorti, ma preferisce non parlarne. Tommaso è uno della cerchia dei parenti del Nazareno. Ha gli occhi grandi, la fronte spaziosa. Un uomo che sembra ogni tanto perduto in suoi pensieri e poi interviene su molte questioni con precisione micidiale, come se prendesse le idee per aria. Gesù cammina nel mezzo, in questa strana nube d’uomini. Non veste come gli altri rabbì. Non è come altri sapienti che girano con cinque discepoli e che sono serviti e riveriti dovunque arrivino. I suoi sono dodici. I farisei lo hanno notato subito. Dodici come le tribù di Israele. Non fa niente a caso, questo Gesù, dicono tra loro. I più esperti sobbalzano vedendo come cita oscuramente le Scritture, come obliquamente lega in modo strano, nuovo i fili di antichi salmi, profezie. A volte mentre i presenti lo ascoltano, e caprai, donne malate, sbandati, tessitori, mendicanti, tendono l’orecchio curiosi, stanchi, …

X puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

X puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XXI L’azzardo «Siete venuti perché avete visto il pane.» Gesù guarda in terra, non solleva il viso verso i suoi interlocutori. La sinagoga di Cafarnao non è grande, s’è riempita in fretta. C’è tensione. Un sacco di gente è arrivata in città nelle prime ore del mattino, dopo aver percorso tutta la riva del lago, dopo aver visto che non c’era più la barca degli apostoli. Ci sono anche molti abitanti di Cafarnao che aspettavano che tornasse lo strano Nazareno, il figlio del falegname. «Vi siete saziati» continua Gesù, e ora gira lo sguardo intorno sul viso dei presenti. «Ora procuratevi non il cibo che finisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il nato tra gli uomini vi darà. Perché su di lui Dio ha messo il suo sigillo.» Si fa silenzio. Nemmeno lo scalpiccio di un passo né un colpo di tosse. Un odore greve, di corpi, di terra battuta e di paglia sta riempiendo la sala della sinagoga. Uno degli anziani, dopo essersi guardato attorno, prende la parola: «Dicci, maestro, cosa dobbiamo fare per compiere le opere che Dio vuole?». «Dovete credere in colui che Dio ha mandato.» Giacomo guarda per un istante Pietro. Il viso del pescatore è teso. Nell’aula della sinagoga ci sono alcuni dei suoi ex compagni di lavoro. Qualcuno lo ha salutato con rispetto. Ora qualcuno lo guarda chiedendosi con chi sia finito, aveva delle belle barche, una bella famiglia… Ma Pietro guarda Gesù, non lo ha mai visto così teso, sembra quasi fuori di sé. «Che segno ci dai perché dunque crediamo in te? Qual è la tua opera?» dice uno a voce alta, dalla seconda fila di quelli in piedi, assiepati. «I nostri padri hanno mangiato il pane venuto dal cielo nel deserto, dato da Mosè.» Un mormorio percorre la sala. Gesù riabbassa lo sguardo. «In verità vi dico, non è stato Mosè a darvi il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane vero, disceso dal cielo.» I sacerdoti e gli scribi e alcuni Giudei sono immobili come statue. Sono venuti da altre città, qualcuno dice che ci siano scribi perfino da Gerusalemme per ascoltarlo. Sono seduti nei primi posti. Gesù come un puma fissa la folla dietro di loro e alza la voce: «Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita vera al mondo». Un uomo da dietro, con le tempie tese e la bocca senza alcuni denti, si mette a gridare: «Dacci sempre di questo pane!». Sale un certo trambusto. Le prime file dietro i sacerdoti e gli anziani sono nervose, alcuni si voltano continuamente. La luce del mattino splende dalle finestre. Allora Gesù si alza: «Io, io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete! Voi avete visto quello che compio e non credete. Ma tutto ciò che il Padre mi dà io lo accolgo. Chi viene a me non lo respingerò perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà ma quella di Chi mi ha mandato». Giacomo sente quasi mancargli il respiro. Cerca con lo sguardo Andrea che è addossato alla parete opposta, confuso nella folla. Ma quello è inchiodato con il viso rivolto a Gesù che continua, a voce ferma, teso: «E questa è la sua volontà: che io non perda nulla e nessuno di quanto Lui mi ha dato, ma lo resusciti nell’ultimo giorno! Lui vuole così: chi vede il Figlio e crede in me abbia la vita eterna, io lo resusciterò nell’ultimo giorno». Alcuni dei Giudei e dei sacerdoti presenti non riescono più a trattenersi. Mormorano e gesticolano, disapprovano. In molti si mettono a commentare tra loro. Gesù riprende la parola, ma si fa più fatica ad ascoltare. Alcuni in fondo gridano che non si sente bene. Andrea e Pietro si guardano intorno. Vedono che certi stanno uscendo. Altri parlano con i vicini scuotendo la testa. Gesù spinge la sua voce. «Non mormorate tra di voi, nessuno viene a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira. E io lo resusciterò. Sta scritto nei profeti…» In quel momento si alzano voci più forti. «Cosa stai dicendo? Chi pensi di essere?» Pietro e Giovanni nella cagnara sentono ormai solo a pezzi. Gli scribi sono rimasti lì davanti a lui a sedere, quasi con aria di sfida. Ora che la protesta aumenta hanno l’aria soddisfatta. Gesù parla con voce ferma, non grida ma resta in piedi, cerca di farsi sentire. Giacomo pensa tra sé: “Sta rischiando tutto”. Levi Matteo pensa: “Così si può procurare solo un sacco di guai”. Guarda Andrea. Anche lui sa che toccare il tema del pane sceso dal cielo, la manna di Mosè, significa arrivare al cuore del Libro. Ed è in quel momento che Andrea sente quel che non aveva mai immaginato di sentir dire. «Io sono il pane della vita» dice Gesù con gli occhi fissi sulla folla rimasta, come se guardasse un volto tra quelli presenti. «I vostri padri hanno mangiato il pane disceso dal cielo nel deserto, e sono morti. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, chi ne mangia avrà la vita eterna.» Ha gli occhi accesi, il corpo teso. Ma la voce si è fatta meno ripida, sembra quasi che si stia rivolgendo con una specie di supplica. «E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo…» I Giudei e gli scribi si alzano di scatto. Uno di loro, afferrando il proprio bastone con durezza, si rivolge agli altri quasi con scherno verso Gesù: «E come farà quest’uomo a darci la sua carne da mangiare?». Si alzano risate, offese. Un uomo accanto ad Andrea sbraita come un forsennato. A quel punto Gesù, come se fissasse un punto sopra le teste dei presenti e con un volto stranamente rasserenato dice più lentamente, scandendo le parole, forte e in un grande abbandono: «In verità vi dico: se …