Arte e sacro. Intervento al convegno di Firenze degli scrittori cristiani

Arte e sacro. Intervento al convegno di Firenze degli scrittori cristiani

Sintesi dell'intervento del novembre 2011

Quando mi capita di riflettere sul rapporto tra Bibbia e poesia, tengo a mente un avvertimento, che mi insegue fin dai tempi di studi universitari e dalla lettura di saggi come quelli di Frye ma anche di Bloom e di altri, comprese le riflessioni di Luzi e altri poeti miei maestri, come Testori e Bigongiari, che voglio ricordare qui a Firenze. Il primo fu tra l’altro autore di una splendida via Crucis oltre che di una introduzione illuminante sulle Lettere di Paolo e suoi scritti sul Grande Libro sono stati recentemente raccolti. Il secondo qui a Firenze fu fischiato per il suo teatro violentemente ispirato a eventi biblici, come l’Erodiade e fu poeta traduttore della lettera ai Corinzi. Il terzo, Bigongiari, in un suo bel testo “Col dito in terra” riflette poeticamente sull’unico momento in cui Gesù scrive da quel che sappiamo nei Vangeli. E scrive qualcosa che non sappiamo nella polvere. L’ammonimento è che la Bibbia non è letteratura; certamente non la si può leggere come un testo letterario. C’è una differenza sostanziale – per chi lo affronta senza dimenticarsi d’esser credente – da qualsiasi altro testo umanamente ispirato. Me ne accorsi sulla mia pelle dando dieci anni fa una versione dei salmi, edita da Marietti. Nella Bibbia parla una storia speciale. Non inventata dall’uomo, potremmo dire, ma da Dio. Molte sono naturalmente le referenze, i rimandi di tanta poesia di tutti i tempi e contemporanea a quel testo. Il Cantico dei cantici, come poema di lode, è stato ripreso da vari autori, anche in epoca recente. Eppure oggi – come ricordava Claudel – non si trova quasi mai in letteratura la “lode”. Pare che siamo in una terra desolata. Eppure il poeta C. Miloszc in una sua bella lirica intitolata Caffè Greco, afferma che la letteratura sarà riscattata dall’Inno. Trovo interessante questo spunto di Miloszc, provocante per chi avverte una stagnazione. Così anche Giobbe, è stato spesso usato – più o meno impropriamente – in letteratura per sottolineare la sofferenza, ma alla fine l'uso retorico smodato del testo archetipico biblico ha prodotto quasi un annullamento del tema del giusto che soffre in letteratura. Non una sparizione, ma una diminuzione di forza. Quindi oggi è difficile la lode, così come la descrizione della disperazione. Ma non possiamo evitarlo e dunque non eviteremo né il cantico né il libro di Giobbe.

Che cosa arriva a noi dunque essenzialmente dalla Bibbia e come ci dovremmo porre noi oggi?
Sarà utile trarre spunto dal celebre saggio Atene e Gerusalemme di Sergej Averincev, in cui si osserva, tra l'altro, che il mondo occidentale – sul modello ellenistico – va sempre alla ricerca di un autore. L'autore di un'opera letteraria ma anche di una biblioteca. Autore è un termine rischioso: indica uno che aumenta, che fa crescere la coscienza del lettore. La Bibbia sfugge all’idea dell’autore nel senso greco. Gerusalemme, per dirla con Avernicev, introduce una esperienza dell’autore per cui abbiamo Davide che è, ad esempio, re e salmista. O il profeta, o l’autore la cui vera identità non conta o si perde o coincide con una figura “tipica”.
In questo quadro, un autore cristiano da cosa è inquietato e ferito dal rapporto con la Bibbia, oltre che dagli infiniti spunti e dal valore di quanto raccontato? Probabilmente ci tocca essere autori meno preoccupati della nostra sorte di autori in termini ellenistici, e di più in termini “biblici”…
Autori, aumentatori di qualcosa negli altri piuttosto che di noi stessi. Ma cosa possiamo offrire di fertile, di originale nel nostro essere autori?

La nostra è un’epoca dominata dalla letteratura moralista/sapienziale. I libri che van per la maggiore secondo le mode imposte dal potere dominante sono quelli ad alto contenuto moralistico o sapienziale. Gli esempi sono tanti. Un libro è buono perché denuncia moralmente qualcosa, o perché indica vie di sapienza. In questo senso la letteratura viene ritenuta valida se denuncia il male (naturalmente quello che il potere dominante decide che è male – dunque la camorra, non l’aborto, ad esempio) e se offre vie per diventare eletti, in un mix di varie confuse spiritualità. E dunque quale può essere oggi il contributo effettivo alla letteratura di uno scrittore cristiano? Solo quello di tagliarsi la propria parte nel bazar morale/sapienziale? Si tratta di aggiungere la nostra parte di letteratura morale a quella imperante?

Una postilla. Oggi si dice che il cristianesimo è minoritario. Lo è nel senso che la proposta morale che nasce dal cristianesimo pare comunicata e vissuta in modo minoritario. Ma il cristianesimo non è una morale, anzitutto. È l’annuncio di un evento che cambia il modo di vedere la storia e l’uomo. Un modo positivo, dove la libertà di Dio e dell’uomo possono incontrarsi. Il fascino suscitato in tanti dalla rilettura di Dante fatta dal mio amico Benigni è il segno che il cristianesimo parla a tanti, e molti sono i segni nell’arte contemporanea di una vera fame di Cristo.

L'autore cristiano non si qualifica perché dà un contributo particolare alla letteratura morale. Sta tutto nel mettere in gioco la propria vita di cristiano, la propria esperienza di fede nella sua scrittura. Lo scrittore cristiano scrive ciò che vive, vedere il mondo come è, come lo vedono anche altri – pieno di scandalo, di male, di pena e di cose meravigliose – solo che per me, per chi è cristiano qui agisce come protagonista della scena Gesù. La scena del mondo che il cristiano vede e descrive non è né meglio né peggio in sé di quello che possono fare altri. Un esempio meraviglioso noi italiani ce l’abbiamo ne I promessi sposi di Manzoni. Ma accade anche nel cristiano Baudelaire, nel cristiano Dostoevskij, nella cristiana Flannery O’Connor. Solo che vede in questa scena bella e tremenda muoversi un protagonista nuovo. E questo – solo questo – fa diverso quello che scrive.

Poesie da Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1976

È tutto un crollare, un inginocchiarsi o forse un curvarsi, o stringere in petto. Un sospirare. O sputare bestemmia. Di fronte al volto di Cristo la poesia, essendo umanissima cosa, esprime e mette in scena l’intero arco degli umani atteggiamenti, tutti quelli che vediamo nella via crucis iniziata là tra Gerusalemme e il Golgota e mai, mai terminata. E quelli che da allora, replicando infinite volte i soldati, le donne, le veroniche, le madri dolorose e infinite volte i fuggitivi discepoli, gli attoniti, i pilateschi e gli incarogniti, puntualmente a quella via crucis si affacciano.

Nella poesia di tre autori che allineo qui tra i tanti possibili, vedremo per prima la precisione definitiva, la definizione perfetta pur nella mancanza di qualsiasi affetto che non sia solo vergogna, di Pasolini. A partire da una situazione in cui il poeta contempla la sua situazione, di mancante al suo destino, si affaccia la mancanza del volto di Cristo.

Un aeroplano dove si beve Champagne, Caravelle
che il capitano annuncia volare
a una media “effettiva” di ottocento km all’ora.
Praticamente sto fermo, bevendo champagne
(versato con più abbondanza nel mio bicchiere
per prestigio letterario). e so che non ho
“effettivamente” alcun libro in cuore, alcuna opera.
Sono impari a ciò che “praticamente” sono,
se io ero fatto per restare ai piedi del mondo

non qui, suo padrone, in un Caravelle,
che mescola Corfù alla Terra dei Mazzoli
(laggiù macchiettata di nubi),
a Roma, col Tevere come uno dei mille Giordani.
Devo tornare povero? Ignoto? Ragazzo?
Non so, “effettivamente”, essere padre, padrone.
È ridicola la mia influenza, la mia fama.
Padre, cosa mi sta succedendo?

Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto
in ogni mio intuire. Ed è volgare,
questo non essere completo, è volgare
mai fui così volgare come in quest’ansia,
questo “non avere Cristo” – una faccia
che sia strumento di un lavoro non tutto
perduto nel puro intuire in solitudine,
amore con se stessi senza altro interesse
che l’amore, lo stile, quello che confonde
il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico,
– sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici,
sulle casupole del Meridione – col sole
della pellicola, pastoso sgranato grigio,
biancore da macero, e controtipato, controtipato,
con altrettanta fisicità che nell’ora
in cui è alto, e va nel cielo, verso
interminabili tramonti di paesi miseri…

Poesie da Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti 1985

Poesia concepita durante la ricerca dell’attore che impersonasse il volto di Gesù nel suo “Vangelo secondo Matteo”, coglie con teologica precisione la “funzione” del volto di Cristo nella storia, venuto a rompere il lavoro “in solitudine” dell’uomo per mettersi in rapporto con Dio. Ma, appunto, poesia priva di altro affetto verso quel volto che non sia una inchiodata, perfetta e definitiva vergogna per la sua “mancanza”. Verticale, assoluta, e per ciò commovente testimonianza di separazione, di lucida distanza. Il poeta che forse di più ha inscenato sulla propria figura e vita e morte qualcosa che i teologi e i letterati amano chiamare “cristico” (e che è dir niente se appunto tale aggettivo non contiene più ombra di incarnazione di quel volto), ecco proprio quel poeta grande e tragico dà qui nel distanziarsi, preso in oscura e orgogliosa vergogna, una immagine profonda di quel che Cristo potrebbe essere e non fu per lui.

Se Ti chiedessi
di stringerti a me,
d’aprire la bocca
incrostata di sangue;
se Ti chiamassi
come si chiama un amante,
resteresti,
fuggiresti da me?
Rispondi.
Non è una diffida.
È l’ultimo dado da trarre,
l’ultima sfida.

In questa breve e dolce e aspra di Testori, invece, s’ha il contrario del movimento pasoliniano. Nessuna definizione qui, solo la domanda d’essere amante, di più: baciante, con il segno reale e mistico della “bocca/ incrostata di sangue”. E insomma la preghiera che diventa quasi ossessione, o meglio, invasione o eccesso, perché di fronte al viso bellissimo e feritissimo del Cristo patiens Testori sa che nessuna vergogna personale, nessuna mancanza, nessuna definizione dei Cristo è più forte dell’attrattiva di quella presenza. Attrazione fisica, secondo il racconto che su dal Cantico dei cantici arriva per via di ogni mistica esperienza fino a dirsi in queste poesie testoriane. E se esse da un lato rovesciano o meglio “sfidano” e “scandalizzano”, confermandole, metafore proprie della poesia dei grandi mistici d’ogni epoca, dall’altro richiamano la esperienza del fedele contemporaneo a non piegarsi, come spesso accade, a immagini di Cristo eteree e ideologiche, come se, appunto, il Suo volto invece che labbra e bocca e sorriso e sangue fosse una specie di carta costituzionale o decalogo di bei valori.

Infine Luzi, lasciando indietro ma confitti nella carne altri versi, come quelli magnifici di Ungaretti versati sul dolore della guerra “Cristo, pensoso palpito…” o vagando altrove, fino alle radici convulse della poesia moderna, dove Rimbaud grida di non volersi imbarcare in un viaggio con Cristo “come suocero” (poiché, come sospettavano quel “mistico allo stato selvaggio” e il suo “dio” Baudelaire, Cristo non è un suocero), o il balzo di “Cristo, la tigre” di Eliot o il bambino di Dylan Thomas, ecco tralasciando quel che ci portiamo dietro e dentro come voci di nuovi sperduti inni o invocazioni, ecco Luzi. Che al Gesù diede voce nella sua composta e vorticosa via Crucis, e più volte nella sua ventosa e vasta opera lo sorprende. Un Gesù che lavora al livello profondo della creazione, a quel livello in cui la vita si svela legge e scopo di se stessa, prodigiosamente passando l’oscuro della storia e del mondo. Un volto che appare tra le mille maschere luziane della coscienza. E che ne disfa, per così dire, la possibile vanvera. Umile e perentoria figura dell’essere che ne conferma l’onore e la vittoria.

Quale riposo? quale pietra
su cui posare il capo? Niente,
non c’è quella pietra, non c’è luogo
alcuno su cui tu possa stare. Devi
essere. Essere sempre
e anche solo per questo
anima e corpo indefettibilmente ardere –
gli dicono sfacendosi
le caverne del sonno
in cui cercava asilo,
gli si commutano in fiamme.
E lui non si compone
come vorrebbe, non ancora,
“fino a quando, padre mio,
rispondimi” – o c’è solo il mio miserabile dialetto
e lui risplende
disseminato e sparso nella moltitudine del mondo –
come sale? – come sale e come sangue.

Poesie da: Davide Rondoni, Apocalisse amore, Mondadori 2009

La poesia è cattolica, dice provocatoriamente Les Murray, gran poeta d’Australia. Poiché “is presence”. Ovvero c’è una qualità di incarnazione, di evento presente della parola poetica che la differenzia da ogni altro genere di parole. È parola che cerca e convoca la presenza del significato, inteso non più solo come discorso ma come suo presentarsi in “corpo” e “voce”. Vero e proprio “teatro del senso” la poesia ripropone anche inaspettatamente, tra le tante figure del suo viaggio nel mondo, il volto di Gesù. Lo fa, a mio avviso, come la anziana signora che vidi a Morellas, in Messico, inginocchiata davanti a un altare di quelle Chiese con grandi Cristi ragazzi in vesti di velluto e Madonne colme di fiori e metalli. Lei, minima e sperduta, non arrivava all’altezza degli altari. E allora pregava un suo viso di Gesù, stampigliato o forse a sbalzo in una base di gran candelabro. Lo carezzava con lo sguardo alla sua altezza, non riuscivano le sue preghiere a levarsi al tripudio di statue e colori. Ma gli bastava quel gesuino, quel minimo metallo da carezzare, per dire tutto la pena e l’affidamento, dire tutto il cuore e tutto il sangue. La poesia fa come quella donnina. Anche quando sembra muovere le sue fanfare e i suoi tamburi, in realtà sta pregando il volto di Gesù che sta anche alla sua altezza, o alla sua bassezza. Alla sua statura umana.

Rialza il viso tu contro il faro
che passa rapido e falcia

dall’asfalto ti prego
il viso rialza –

tigre urbana,

rosa rara
al centro degli occhi, guida
indiana che posi l’orecchio al mio cuore, alla via
e ti rialzi, ti esponi ai colpi

per noi che rimaniamo giù, la guancia
sulla strada, andato via il sole,
a sentire un po’ di calore
che ci ricordi le donne, l’apertura
delle porte dei bar, o certe
sere estive,

lascia i nostri visi sull’asfalto

avere qualcosa di simile
alla confidenza della pietra
dove far cadere le lacrime
e posare tra i cementi, lentissimi
i baci

*
Cortese mio capitano,

che soffri più avanti

su ogni fronte

guardo la tua mano
tagliare un frutto, toccare

i capelli di chi è ferito a morte
o spostarli dagli occhi
di chi amo…

Se non fossi tuo, sarei solo
delle parole, delle alte gole
dove con precisione il giorno
delirando segue alla notte - -

tienimi tra i tuoi, che solitari o a frotte
cercano la collina
dove si mormorano storie e a volte si canta

con una luce d’alba tra le voci rotte…

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