III puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

III puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

V
Il fantasma, l’erede

Non ha saputo più nulla.
È passato qualche anno da quella alba livida in cui i suoi soldati uscirono per lo sterminio dei bimbi. Le voci si sono sopite, ma non spente del tutto. Dei magi, più nulla. Idioti.
Erode il Grande nella sala del trono del palazzo di Gerico tiene il volto velato. Sta steso sul triclinio romano che gli hanno regalato. Preferirebbe stare steso a terra, nelle stuoie, come usavano i suoi avi idumei.
Non gli va che i dignitari vedano come si sta riducendo il suo volto. Il cancro lo sta mangiando. Il ventre, poi su, il resto. Respira il fetore che la sua stessa bocca emana. Devono ricordarne il tratto idumeo splendente, la pupilla nera di perla.
Sotto quel velo socchiude gli occhi. I ricordi arrivano subito, come sciami di api fantasma.
I soldati che rientrarono dalla strage si sedettero al ritorno sui lunghi sedili di pietra delle caserme del suo palazzo e non parlarono.
I suoi attendenti vennero - lo ricorda come un sogno confuso, pochi anni sono secoli per un vecchio ammalato - e fecero un inchino rigido dicendo solo: «È compiuto».
Era ancora abbastanza forte allora. La malattia iniziò a devastarlo subito dopo. Una punizione del cielo per quella carneficina? È stato tentato di pensare una cosa del genere. Ma no, lui non ha peccato contro il cielo, come dicono questi Giudei bastardi. E quale cielo, poi! Sua madre gli indicava la volta nera senza stelle e diceva: i nostri dèi vogliono che tu sia un eroe. E i suoi dèi non sono capricciosi come quelli dei Greci o dei Romani... Ma quale potenza allora gli ha mandato questa rovina al ventre?
Mantenere il regno è compito eroico del re. Il regno di Giudea non deve perire per qualche fantasia malata di fanatici religiosi. Ai tempi del predone Ezechia si era scontrato con il Sinedrio, perché lui ne aveva deciso la messa a morte senza chiedere parere a quel consesso di preti. Sesto Cesare lo aveva difeso, e anzi gli aveva dato più potere. Di fanatici di Dio ce n’è già troppi in giro. “Fanatici di cosa?” pensa mentre il respiro malato gli dirama sul viso sotto il velo. Il più delle volte sono fanatici di se stessi. Ed è prerogativa del re difendere il suo popolo, bloccare i facinorosi. Si stanno addensando nubi sulla Giudea, aria di rivolte. I Romani sono diffidenti.
Erode ha dovuto impiegare tutta la sua forza e astuzia per dare l’idea di avere sotto controllo la regione. A lui non interessano le questioni religiose degli ebrei. Non le intende. Sotto gli ossequi formali alla religione ufficiale è restato pagano. I Giudei non hanno mai messo sotto il tallone gli Idumei. Ha donato a questa terra i porti di Cesarea, acquedotti, ha distribuito terre ai contadini perché le facessero rendere. Ha fatto affari con Augusto nelle miniere di Cipro e con Cleopatra nel commercio di unguenti. Ai potenti facevano comodo certi suoi prestiti... Lo considerano un buon socio in affari.
Ricorda il sorriso enigmatico della regina d’Egitto al momento di congedarsi dopo l’accordo. Ne ha avuto paura. Il loro incontro sotto una sontuosa tenda fuori dalla sua reggia fu breve e inebriante. Donna più velenosa di un serpente, aveva pensato. Solo una perfidia pari alla bellezza da dea poteva permetterle di conservare l’immenso ansante Egitto in quelle mani sottili, meravigliose. E dalle nebbie del passato, mentre il suo respiro si fa più pesante, escono, confusi uno sull’altro, i volti dei Cesari. Al tempo delle congiure era stato abile ad allearsi prima con Cassio il traditore e poi - quando questi fu sconfitto da Antonio e Ottaviano scelse la morte - fu rapido nell’entrare nelle grazie dei vincitori.
“Traditori, vinti, vincitori... cosa vogliono dire queste parole?” pensa con il velo che si solleva fradicio per il respiro malato. Ha visto cambiare i volti, e queste parole marchiare in modo alterno l’uno, poi l’altro, poi un altro ancora...
Una sola parola ha un senso chiaro: potere. Chiara, fredda, indiscutibile.
Ma ora, come ogni notte da un po’ di tempo a questa parte, sente un’altra parola nella penombra delle arcate delle sale, e nelle arcate cadenti della sua mente. È il nome di lei.
Come è possibile? Chi fa risuonare ancora, dopo anni, nelle stanze del palazzo il nome della figlia della terra degli Asmonei che ha amato, e che fu sua moglie. È un sogno bastardo? Era così bella... La chiamava «amore», la chiamava «dolce acqua della luna». Poi un mattino ha detto «uccidetela».
Ricorda il momento esatto in cui, con la bocca secca, ordinò che fosse avvelenata. Le voci dicevano che lo tradisse, che ordisse congiure. Le voci, le voci, le voci maledette...
Mariamme! Mariamme! Subito dopo aver fatto eseguire la sentenza, aveva ordinato ai suoi servi di gridare il nome di lei per giorni e settimane nelle stanze del palazzo. Come se fosse ancora viva. Mariamme... Mariamme... gridavano quelli ogni tanto, perplessi e impacciati, mentre lui sul trono sentiva il petto rompersi.
Aveva dovuto ucciderla, non c’era altra scelta. Le voci... le voci... parole sussurrate, messe in giro, inoculate. Parole deviate, avvelenate. L’unica parola chiara è: potere. Amore che parola è?
Dopo aver ucciso lei, ogni altro omicidio aveva perso sapore. Chi erano gli altri che caddero sotto la lama per suo decreto? Ombre, solo ombre. Mariamme, Mariaaaamme...
Da sotto il velo può vedere che è alta la luce del giorno, ma non se ne vanno i fantasmi attorno a lui. I suoi assassinati avevano dei nomi? Suonano vuoti, cosa erano? principi? soldati, predoni? due erano suoi figli, ah sì, i due giovani rampolli che aveva fatto studiare a Roma e poi al ritorno avevano insidiato il regno con congiure ridicole. Alessandro e Aristobulo. Quando li scoprì, grazie alle voci che giungevano sempre come onde e riflussi, come respiri alla sua testa alveare, li fece portare in piazza insieme a trecento ufficiali traditori. E lasciò che la folla aizzata dai suoi soldati si scatenasse su di loro. Li hanno fatti a pezzi. Non ha ricordi chiari di quel momento, solo ombre...
Gerico è silenziosa. Le vie sotto il sole alto di fine marzo verso lo zenit di mezzogiorno si svuotano. La gente rientra nelle ombre delle stanze, si abbandona sui letti, sui sacchi di farina. Cerca il sonno. A quest’ora il Tempio maestoso che ha inaugurato a Gerusalemme dopo vent’anni di costruzione, mentre in volto gli esplodeva la distruzione del cancro, formicola di gente. Ma cosa è Gerusalemme?
Furono pieni di ombre anche gli occhi dei soldati tornati dalla strage dei piccoli. Non dicevano niente. Si slacciavano i calzari, posavano le spade sulla pietra. Ma non dicevano niente. Erano bestie tornate nella tana, stanche di caccia.
Il suo spirito idumeo allora era sensibile, sentiva in lui la crudeltà saettare come una serpe. Poi tornava molle e gentile.
Ora non ha più forze.
Per cacciare via questi pensieri Erode il Grande prova ad alzarsi. Questa è l’ora peggiore per lui, quando la mattina si rompe nel mezzogiorno e le forze non gli bastano. Il cancro gli sta divorando la bocca, gli impedisce di mangiare gli infusi che gli preparano i medici. E da tempo anche le donne non danno vigore al corpo ormai sfatto. Ha dolori allo stomaco. Non digerisce, e non trattiene più in corpo nulla. Servi muti cambiano le sue vesti e lo lavano ogni mezzora.
La morte sta stendendo la sua ala buia su di lui. Il re lo sa. E per cacciare anche questo pensiero prova a concentrarsi sulle questioni della successione. Nel testamento ha scritto: Archelao. Ma ancora non lo ha mandato a Roma per avere il suggello da Augusto. Il regno doveva essere suo. A Filippo e ad Antipa lascerà altre parti di territorio con i titoli di tetrarca.
Ora può farlo. Il fiato fatica a venire, ma si sente più forte.
Forse la morte si tiene lontano con il potere e la crudeltà.
O il gorgo lo sta per afferrare.
Non sente più dolergli il cancro al volto e al ventre. Forse anche lui, Erode il Grande, sta finalmente diventando un’ombra.
Apre la bocca per gridare il nome di Mariamme. Ma quel che esce è solo un grugnito disgustoso che sfinisce come un pianto di bestia.
Gli inservienti abbassano la testa ed escono. È l’ora.

VI
Chiama la voce nel deserto

La foglia del melograno trema nel vento. Poi cade lentamente sul volto dell’uomo addormentato. L’albero che protende i suoi rami sopra l’acqua del fiume è verde, anche se i primi ruggiti del sole e i silenzi della stagione secca arrivano da lontano, rubano colore alle foglie, portano i primi deliri dell’aridità. Maggio è un mese violento da queste parti.
La foglia roteando sottile cade e si posa per un attimo, lambisce l’occhio sinistro chiuso dell’uomo. Poi sfila leggera a terra. Al tocco di quella carezza casuale, Giovanni apre l’occhio.
La pupilla è colore del bronzo scuro, ma il sole che filtra tra i rami le dà qualche riflesso verde. Ha quasi trent’anni. Erode il Grande è morto pochi anni dopo la sua nascita, avvenuta tra oscuri prodigi dalla vecchia chiamata Elisabetta. Anche lei non c’è più. Ombra come Erode, come suo padre Zaccaria. E quanti altri.
Fissa il cielo bianchissimo.
Non sogna mai niente. O non si ricorda cosa sogna. Il cielo rade via tutte le immagini dagli occhi. Al risveglio, il mondo è come un leone che lo assale.
Oggi il bianco dell’alba è fiacco, c’è un velo che copre il primo chiarore in cui emergono le cose, il correre lento dei cespugli, i tronchi e alcuni pali a cui i pastori o i viandanti attaccano muli e cavalli. La vegetazione che segue gli argini è verde, ma poco lontano di qui, fuori dalla valle del Giordano, iniziano nuovamente la pietra, la polvere.
Ancora è presto. I primi arriveranno quando il sole inizia ad alzarsi.
Il volo di un grande uccello segue per un poco a mezz’aria l’argine sinistro, sfiorando i canneti grigioverdi che si allungano pigramente sull’acqua.
Naaman il profeta si bagnò sette volte a queste rive, al tempo del profeta Eliseo quando nella Samaria circondata dagli Aramei mezzo chilo di sterco di colombo costava novecento grammi d’argento. In quel tempo i Baal insidiavano il culto e la terra di YHWH. C’era guerra feroce tra gli adoratori dei Baal e i suoi fedeli. Scattavano agguati. Si aprivano gole. Teste venivano spaccate da asce di pietra. E gli dèi stavano ad assistere dalle cime dei monti o attaccati come falchi ciechi alle braccia dei guerrieri. Naaman il profeta raccolse due sacchi di terriccio dal Giordano per portarseli nella regione straniera dove si sarebbe recato e così poter comunque adorare il Signore sulla sua terra. La terra, il Dio. La stirpe. Cos’altro conta?
Per un attimo Giovanni sosta disteso, gli occhi sbarrati al cielo vasto, e se ne sta immobile. A volte sembra muto come suo padre Zaccaria nelle settimane del prodigio. Una formica gli cammina sul dorso della mano ancora distesa lungo il fianco.
Quando si alza rapido come un puma anche i suoi discepoli si alzano, nascosti nei canneti, sui cespugli lungo le rive e le fratte, in qualche cavità.
Lo cercano con lo sguardo, alzano i musi, ne annusano la presenza come cuccioli. Come se avessero paura di perderlo.
È da mesi che abita presso il fiume. Prima era stato a lungo nel deserto, dopo che se ne era andato via di casa da ragazzo, seguendo le voci che lo trascinavano in luoghi di silenzio e di luce nuda.
Ora il profeta che il popolo ascolta di più è lui, il figlio di Elisabetta e Zaccaria.
Si lava il viso e le braccia dall’orcio di acqua che tiene appeso ai rami. Sente il suo viso tra le mani, e per un attimo vorrebbe restare così, coperto, al riparo dal sole e dalla gente che lo attende. Poi alza la fronte e l’acqua sulla barba scintilla nel sole.
Il suo unico vestito è un manto di peli di cammello.
Quando scende sull’argine per entrare con le gambe nell’acqua, vede che i suoi discepoli e una piccola folla di curiosi stanno già aspettando sulla riva. Un ragazzo gli allunga un cucchiaio di miele. Lui ficca in bocca il miele amaro, un altro gli allunga una borraccia di pelle con l’acqua e lui si bagna la gola, mentre si avvicina al punto della riva dove si sono radunati. Non guarda nessuno dei suoi. Sono uomini giovani, che hanno sentito l’energia della sua voce e del suo corpo opporsi alla sventura che copre il regno d’Israele, dominato dai Romani e retto da re corrotti. Hanno visto in lui qualcosa che si oppone alla malora che insidia ogni vivente.
Il Giordano non è ancora ingrossato dalle nevi. A inizio estate si sciolgono sul monte Hermon. E la stagione delle piogge è finita da un paio di mesi. Il corso d’acqua è quieto, l’acqua opaca.
«Volete da me un segno?!» Quasi grida, anche sei presenti tacciono. La sua voce sembra schiantarsi e perdersi nell’aria ferma.
«Cosa siete venuti a fare qui? Io vi battezzo se volete purificarvi. Ma se avete il cuore di vipera non venite da me!»
Giovanni pensa che non sarà facile smuovere qualcosa nell’animo di questa gente. Ne hanno sentite dire tante, da profeti veri che non hanno riconosciuto e da falsi profeti che intorbidano tutto. Ma la misura del tempo è colma. Questo cielo bianco si deve rompere sulle loro teste.
«Voi vi considerate salvi perché appartenete al popolo di Dio. Ma io vi dico che Dio se vuole può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. La scure è già posta alla radice degli alberi! E quello che non porta buoni frutti sarà tagliato e buttato nel fuoco».
Già prima di arrivare a vivere presso queste acque un gruppo di ragazzi inquieti si erano uniti a lui.
Alcuni pensano che lui sia il Messia, e trovano che sia saggio unirsi ai suoi discepoli, forse in vista di una marcia su Gerusalemme. Altri hanno apprezzato la sua fermezza contro Erode Antipa, fratello di Filippo, figlio di Erode il Grande. Altri assistono alle sue invettive come a un duro spettacolo. Il numero di persone che viene per i suoi discorsi e al battesimo cresce sempre.
Molti profeti avevano invitato il popolo dal cuore duro e dalla testa di pietra a convertirsi, ma lui solo ha iniziato a rovesciarlo con la testa nell’acqua, a battezzarlo.
Anche oggi la folla alle sue parole freme, mormora.
Un tizio con la barba bianca gli grida: «Sei tu il Messia?».
Giovanni tace, poi dice: «No, non lo sono».
Vorrebbe aggiungere altro. Ma dice solo, più piano: «Io sono: voce di uno che grida nel deserto».
I capi religiosi sono divisi tra loro. Giovanni è cresciuto negli studi delle Scritture e nella frequentazione del Tempio. Ha visto le differenze tra le correnti religiose. Poi qualcosa lo ha strappato via, nel luogo solo di sassi e sabbia e vento.
Fin da ragazzo, durante le prime visite a Gerusalemme, mentre camminavano tra i banchi, gli si fermava il respiro davanti ai grandi colonnati del Tempio dorati di fiaccole e lamine. Ha sentito da suo padre Zaccaria dire che nel Sinedrio i sadducei si oppongono ai farisei nella interpretazione della Torah. Per i discendenti del sommo sacerdote Zadok vale solo la Torah scritta nei rotoli. Alla lettera legano la loro dura fedeltà. Al Dio impronunciabile nascosto nelle parole. Il ragazzo dagli occhi scuri con riflessi verdi osservava i sacerdoti discutere tra loro. I profili tendersi, gli occhi abbuiarsi. Le dita tormentare la barba. Le luci delle idee. Le vittorie dei più sapienti. E vedeva gli emblemi del loro potere, le porte chiudersi dietro di loro nel luogo santo del Tempio. Il gruppo dei farisei invece tramanda il valore della Torah anche in forma orale. Sono uomini dedicati alla purezza. Giovanni li ha ammirati, perché vorrebbero toccare in ogni cosa Dio. Lo cercano con ansia ardente. Ma finiscono per vivere separati dal resto della gente, specie da quelli considerati peccatori e deviati. Come se Dio lo toccassero solo le loro mani ben curate e pulite.
Tra farisei e sadducei non corre buon sangue. Le loro dispute riecheggiano nel Sinedrio e nelle sinagoghe d’Israele. Chi è più fedele a Dio, chi più scrupoloso nell’osservare i suoi precetti? Camminano per la strada avvolti nei loro manti neri ricamati e stanno circondati da servi e discepoli.
Sono venuti talvolta al fiume per ascoltare Giovanni, si sono tenuti a distanza dal resto della folla. Le loro vesti nere si stagliavano contro il cielo bianco e la sabbia disseminata di pietre. «Sembrano cornacchie» ha detto un giorno a Giovanni uno dei suoi giovani seguaci. Ma lo ha zittito con uno sguardo. Ci sono spie, ma ogni tanto si fanno vedere perché il popolo che accorre capisca bene che all’occhio e orecchio del Tempio non sfugge niente, nemmeno l’estremo profeta. Non possono accusarlo di nulla. Ma il fuoco che da quest’uomo viene può essere pericoloso.
Anche oggi servi dei sacerdoti e degli scribi sono venuti, sono apparsi a un certo punto dal dorso della collinetta. E iniziano a gettare voci, a interrogarlo: «Se non sei il Cristo perché battezzi?».
Ma una donna del popolo, con le gambe già nell’acqua in fila per farsi battezzare, si mette a gridare: «Giovanni, Giovanni, dicci cosa dobbiamo fare». Ha la faccia tesa, segnata da anni e dolori.
«Chi ha due tuniche» dice più piano Giovanni guardandola intensamente sapendo di schiantarle il cuore, «ne dia una a chi non ne ha. Chi ha da mangiare faccia altrettanto». Quella abbassa gli occhi sull’acqua verdastra.
«E noi, cosa dobbiamo fare?» dice un soldato che sta sull’argine dietro alla donna e si ripara dal sole con le mani. «Non maltrattate, non estorcete nulla a nessuno, contentatevi delle vostre paghe» risponde Giovanni. Dal gruppo dei servi dei sacerdoti arriva ancora la richiesta: «Allora, Giovanni, chi sei?».
La folla è ormai numerosa e si avvicina, lo stringe. Ci sono giovani, anziani, uomini e anche molte donne. Hanno il viso segnato dal sole. Si riparano gli occhi per vederlo.
Giovanni li guarda, vorrebbe leggere i loro cuori. Perché sono venuti? In queste settimane negli occhi di qualcuno ha visto fede sincera. In molti vede una esaltazione senza senso, o addirittura un’ira disperata.
Ci sono quelli che sono in collera con gli uomini e allora pensano di amare Dio. Molti vengono per le parole strane e dure, per ridestare il cuore morto nel petto.
Se volesse, potrebbe guidare una enorme folla sotto i palazzi del re o nel Sinedrio e prendere il potere. Come provò a fare Simone di Perea, che arrivò ad appiccare il fuoco al palazzo di Erode a Gerico. O Athronges, l’invasato che creò un suo piccolo regno. Il popolo è inquieto. Eppure non partono azioni decise, non s’appicca il fuoco della rivolta. Piccoli episodi, agguati. Erode ha usato il pugno di ferro, e i Romani sempre in suo aiuto.
Ma lui non è nato tra i prodigi per ottenere un regno.
Il potere non appartiene ai profeti. E lui è della razza dei profeti. Anche se... Alla mattina vorrebbe aprire gli occhi e vedere un segno chiaro di Dio.
Urla le parole dei Salmi antichi. Ricorda le parole del Signore al suo popolo. E come i profeti ricorda al re i suoi peccati. Come Natan ricordava al re Davide d’aver peccato con Betsabea facendo morire il marito di lei Uria, così lui ricorda a Erode Antipa che non è lecito tenere per lui la moglie di suo fratello Filippo. «Dice il Levitico: non scoprirai la nudità della moglie di tuo fratello, perché è la nudità di tuo fratello».
Poi alza lo sguardo contro il sole: «I vostri cuori sono di pietra. E il regno di Dio è vicino!» grida. La voce come quella di un uccello che vola via nel cielo bianco e compatto.
Alcuni dei presenti stanno immobili. Altri parlottano tra loro: «Da dove vengono queste cose?», «Da dove gli viene la saggezza?».
«Giovanni, cosa sta per succedere?» gli grida un ragazzo dall’aspetto sconvolto dalla parte più alta dell’argine, per farsi sentire.
Ma lui non risponde, cammina avanti e indietro su una riva sabbiosa mentre gli altri lo osservano e si dispongono più in alto, ad anfiteatro.
Qualcosa sta cambiando, lui lo sa, ma non sa ancora come. La storia della salvezza sta alle sue spalle come un muro enorme, un’onda che lo ha portato fin qui, ma cosa c’è davanti, cosa li aspetta non sa. Sa che deve venire uno, deve venire... Ma è un’attesa quasi assurda.
Il gesto antico di bagnarsi nel Giordano è il segno: questi uomini vogliono scegliere ancora YHWH, e accettano di essere scelti da Lui. Si rinnova il patto, vogliono la gloria di Israele. Lo ha capito nel deserto mentre sentiva il cuore creparsi gridando a Dio: solo se il cuore cambia, la vita si rinnova.
Gli occorreva dunque un segno, il battesimo nelle acque. Un segno di decisione. Perché i tempi chiedono di decidere. Ma cosa? Lui sa solo dire: convertitevi, rinnovate la grande alleanza, la storia. Ma si tratta di questo?
In certi giorni Dio somiglia al delirio più alto, perché vuole tutto il cuore di un uomo.
Giovanni alza il viso verso tutta quella gente: «Io vi battezzo con l’acqua del fiume caro ai nostri padri. Ma viene uno che è più forte di me, uno... uno al quale io non sono degno neppure di sciogliere il legaccio dei sandali!».
A queste parole i suoi discepoli lo guardano come piccoli lupi.
Il suo sguardo è fermo sui gorghi dell’acqua. «Lui vi battezzerà in Spirito e fuoco.»
I suoi discepoli stanno a testa bassa vicino a lui. Sull’argine si sono aggiunti alcuni uomini. La folla sentendo le ultime parole di Giovanni è restata un po’ confusa... Qualcuno accenna ad andarsene, piccoli gruppi si staccano.
Poi Giovanni vede uno che cammina da solo. È sulla linea alta delle dune coperte di cespugli dietro l’argine.
La sua figura contro il cielo bianco. È un suo parente, Gesù di Natzareth. Scende verso l’argine, si confonde alla folla, Giovanni lo perde di vista. Ma smette di parlare, si ritira verso gli alberi dove sosta di solito coi suoi discepoli. Loro, vedendo che se ne va lasciando la gente in attesa, lo seguono un po’ sorpresi. Ma è uomo di scarti, di ritrosie oltre che di proclami e grida.
Non dice niente. Si avvicinano con sguardi interrogativi.
Ma quando è così pensoso, nessuno parla.
E poi sanno che oggi lo attende un appuntamento strano. Forse si tratta di questo. O cosa sta succedendo...

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