I puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

I puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

Capitolo I Il re Gli alberi sono fermi nel buio. Cosa sono le ombre che sta vedendo? Il sudore gli scende fino alle palpebre. Lui, il re, non dovrebbe essere ridotto così. Le sue tempie sono toccate da un alito gelato. Ora è davvero solo. Deve sopportare la prova tremenda. Lo hanno spogliato. Le sue braccia, le gambe sono apparse bianche, stracci abbandonati nel buio. Quelli con le vesti sono scivolati nell’ombra sotto di lui. Il posto dove sta è sopraelevato. Come per vedere meglio e più vicina la morte o come si vuol chiamare questa grandiosa, accecante oscurità. Gli occhi bruciano. E per tutto il corpo sente una trafittura. Al ventre, ai polsi, alle reni. Non doveva capitare a lui una cosa del genere. Non immaginava che le cose sarebbero andate a finire così. La bocca gli si è seccata. La apre ma non riesce a uscire un suono. Fissa lo sguardo, quel poco che riesce, davanti a lui, non vede nulla, solo tenebre avanzano. I suoi più fedeli vicini se ne sono andati. Proprio quelli che lo festeggiavano come re… Non pensava di doverci arrivare. Sapeva che sarebbe successo ma non immaginava in questo modo oscuro, dolorosissimo. Cerca qualcosa, aria o luce, davanti a sé, come un pazzo. Gli spasmi lo stanno torturando. Spera finisca presto. Non è decoroso che finisca tutto così. Sta sospeso, una specie di paralisi lo sta mangiando. Erode, è questo il suo nome, ed è il re… Erode detto il Grande. Le fiaccole della grande buia sala del trono deserta illuminano a malapena il suo viso. Le vede? Anche la mano alla fine del braccio destro che ha disteso abbandonato al lato del trono, con la coppa di ferro vuota stretta tra le dita, gli sembra di un altro, chissà di chi… Quando un uomo fissa una fiamma sente la propria solitudine. La scomparsa, o la fosforescenza. Ha saputo da qualche settimana, da un sussurro dei suoi sapienti e indovini, che è sorto un nuovo re nella regione, un bambino che qualcuno vuole sia il re. E il suo incubo stanotte si è presentato di nuovo. Perdere tutto, non esser più re, non esser più niente. Le fitte al ventre si sono intensificate nelle ultime settimane. Un bambino? Un re bambino? Che invenzione di demoni è questa… “Chi osa sfidarmi ancora?” pensa o forse nemmeno riesce a formulare questo pensiero. Per mantenere in suo pugno il potere su questo schifo di regno non ha esitato qualche anno fa a uccidere due dei suoi figli. Alessandro e Aristobulo. Soffiavano parole lungo i muri contro di lui. I suoi figli… «Crudele» gli ha detto serrando le labbra la donna che li partorì… «E allora?» le aveva risposto con gli occhi liquidi. Anche il re Davide mosse contro il suo prediletto, Assalonne. I figli diventano infidi, a volte odiano più di qualsiasi altro… bisogna fermarli… La donna a quelle parole si era ritirata, abbassando lo sguardo nero e brillante. Lei sa che quando Erode parla del re Davide è morso da una serpe. Il re, il re… Il re è sempre Davide, quel bastardo figlio di caprai diventato amante della figlia di Saul per le poesie e la musica e poi sterminatore di Filistei e creatore dei Salmi. E fondatore di Gerusalemme capitale, padre di Salomone costruttore del Tempio… Davide, sempre il re Davide… sempre il suo nome sulla bocca di tutti, anche ora che marcisce da mille anni nella sua tomba mausoleo dove lui è pure entrato a rubare gli ori, gli argenti e dopo esser marcito da vecchio con la puttanella Abisaig nel letto per non sentire il freddo della morte… La morte che avanza, anche se sei il re Davide… Sempre lui… Ma Erode, lui, d’ora in poi sarà ricordato come il re. Così ha deciso, così ha deciso. Ma l’incubo… Ora gli restano tre figli, il regno sarà di qualcuno di loro. Ha già qualche idea per la successione. Ma questo bambino re di cui si mormora, di chi sarà figlio? Erode posa la coppa di metallo che tiene stretta con il braccio abbandonato. È vuota da alcuni minuti. Le labbra, fredde e screpolate, sentono quasi dolore al contatto con il metallo dell’orlo. Il vino sapeva di niente. Glielo ha dato in omaggio uno di quei mercanti romani con cui si devono tenere buone relazioni, ma del quale ha profondo disgusto. Qui tutto sembra provocare disgusto. I Giudei sono disgustati dai Romani. I Romani sono disgustati dai Giudei. Gli invasori venuti da Roma guardano con curioso senso di superiorità questi pastori e mercanti che credono in un Dio immenso e potente che però li fa passare di schiavitù in schiavitù. I Giudei guardano con disgusto i segni di prepotenza romana. E sono disgustati da lui e dai suoi erodiani, servi di Roma. Ma a lui le truppe romane fanno comodo. Quando i Giudei volevano impadronirsi del suo tesoro a Gerusalemme, sono state le truppe di Varo, il governatore romano di Siria, ad accorrere per proteggerlo. Ne hanno crocifissi duemila, durante la rivolta guidata da Giuda figlio di Ezechia. Figlio degno del padre… Le urla dei dannati hanno riempito la città per ore e ore. Erode ricorda quando, da giovane servitore del re suo padre, Antipatro, dovette sedare alcune rivolte. Un capo di bande di Giudei rivoltosi, Ezechia, aveva occupato con le armi il suo palazzo a Seppori, in Galilea. Il sogno di questi esaltati di Giudei è di essere indipendenti da Roma… Stupidi! non capiscono che conviene loro il dolce calcagno dell’Impero che controlla e sopisce invece di tornare preda delle divisioni feroci tra loro… Allora fu lui a ordinare la esecuzione di Ezechia. Aveva lo sguardo fiero, quel disgraziato. E ora anche il figlio… Si sono animati spiriti ribelli. Gli zeloti, con le loro facce da capre ansiose, stanno facendo proseliti e la loro violenza provoca tensioni, specialmente tra i più miserabili e i facinorosi. Lui si deve occupare di tutte queste rogne. Sa come fare. Per tutta la vita …

A cosa serve la poesia?

A cosa serve la poesia?

Dalla Introduzione a “L’allodola e il fuoco” (La nave di Teseo, 2019) Un’allodola. Di fuoco. La poesia è quasi niente nell’aria del mondo. Aria che a volte ci pare gremita di parole che dominano, parole che corrono, di lamenti, di grida, di sospiri. Di trasmissioni vocali e di ogni altro genere. E poi di rumori, e di musica, troppe volte lei pure ridotta a rumore di fondo. A volte non hai l’impressione che l’aria sia troppo piena? Che sia esaurita, intendo. Che in questo posto si soffochi. Aria piena di spari, di gas di scarico, riflessi cangianti dai video, tagliata da vetrate di grattacieli e da propulsioni di motori a reazione. Aria piena di proteste o esultanze, a volte, o più spesso di imprecazioni. L’allodola di fuoco va, quasi invisibile, nell’aria. E certe volte accende le persone, passando sugli occhi e sulle labbra, sfiorando il cuore. Bucando la lingua, un piercing divino. Mi chiedono a cosa serva la poesia. E come tutti quelli che l’hanno conosciuta non so bene cosa dire. Fate un gioco: guardate la faccia di quelli a cui chiedete “ehi, scusa, cosa è la poesia? A cosa serve?” A meno che non si tratti di idioti tromboni, diventano come quelli che forse hanno visto un fantasma, o si stanno svegliando da un sogno. L’hanno vista in volto? Era lei? “Sì, devo averla vista, ma non sono sicuro…” Diventano come quelli che devono parlare della persona più importante della loro vita. Non trovano le parole. Anche a me capita così. È più di trent’anni che ne parlo. E non so cosa dire. Eppure le ho dedicato la vita, me l’ha presa. Allora dico piano: “Niente”. Niente. Splendore di questa parola. Suona vertiginosa quando indica il punto in cui manca ogni convenienza. Ogni economia. Niente scambio, niente in cambio di niente. Non si tratta di quel “niente” che pensano i filosofi nichilisti e saccenti, i quali immaginano con la loro piccola testa di sapere che tutto esiste per nessun motivo e nessun destino. E che pensano che di tutto la consistenza è nulla. Venivano derisi da Montale: “Con quale voluttà/ hanno smascherato il Nulla./ C’è stata un’eccezione però:/ le loro cattedre”. No, no, il niente che è la poesia non è di quel genere. I bambini e i mistici (e i poeti) sanno cosa è questo “niente” – quello dei pomeriggi dove non si fa nulla di importante ma si cresce, o che si sente dentro finché la mamma non ti abbraccia, quello che acceca per un istante la vista che ha visto tutto. Dante tace quando deve dire cosa ha veduto in fondo al suo viaggio nei regni della morte e della vita. Nientissimo “nada”. Quel che si fa largo nelle emozioni fragili. Lo conoscono, a volte, anche coloro che chiamiamo “i pazzi”. Il tutto visto di spalle. Stiamo parlando del punto della perfetta letizia, come diceva san Francesco? Dove non hai niente, niente, sei povero, niente a cui attaccarti, e potresti morire – se non la presenza che davvero ti allieta. La poesia riguarda tale “presentarsi”. Non il “presente!” gridato all’appello dal soldato o risposto di malavoglia dallo scolaro. È il “che bello che sei qui…” dell’innamorato. Sono pochi i punti dove si tocca lo splendore di questo genere di “niente” in una esistenza: alcuni amori veri, lo sguardo verso i propri figli, certi momenti in cui non si bara con Dio, e molto spesso – non sempre, purtroppo – il rapporto con il padre e con la madre. La poesia, allodola di fuoco, tiene vivo il “niente” nelle nostre vite troppo economiche, commerciali, fatte di scambi. Ci accende di quel niente. Ma la poesia è niente anche perché tutta l’Iliade non vale la vita di un bambino malato. Chi pensa che l’arte sia un idolo, una cosa di grande valore, che vada onorata più della esistenza sfortunata di un piccolo malnutrito in Ruanda, non ha capito nulla dell’arte. Rispetto alla vita – come diceva Rimbaud – la poesia è “merda”. “Merde pour la poesie!” – la frase esplode così, nella meravigliosa, tremenda sua forza e verità dentro “Una stagione all’inferno”. La poesia viene sempre “dopo” la vita. Chi invece la parifica, chi la antepone o chi, addirittura, crede che la poesia sia una specie di salvezza della vita e pensa così facendo di onorarla, in realtà la sfigura. Nientissimo niente, spiraglio. Ispirazione. Io negli scambi non sono capace. Li ho sempre persi, e anche con lei ho perso tutto. È un po’ truffatrice la poesia. Ma la guardi negli occhi e dici: per fortuna ti ho incontrato… Sono contento che sia andata così e comunque non poteva andare diversamente. L’allodola di fuoco a volte si ferma al centro degli occhi di un ragazzino. Potevo voltare la testa, certo. Non l’ho fatto. Questo libro non è una antologia. Non è nemmeno un vero e proprio libro di poesie. La poesia, del resto, non è mai stata una faccenda di libri. L’hanno fatta passare per una cosa di libri solo di recente, e hanno sbagliato. Lei infatti non ci sta. Con grave scorno di editori, professori e letterati, gente coi cuori poco accesi. I libri stanno cambiando, in buona parte svanendo, e sta cambiando il supporto con cui si passano le parole tra gli uomini. Ma la poesia no, non sta svanendo. I suoi libri si stanno trasformando in una specie di preziosi talismani, e intanto la sua voce corre per nuovi canali, e sempre per aria. Né Dante né Omero e nessun poeta fino a secoli recentissimi si è mai posto il problema dei libri di poesia. Esisteva la poesia, come esiste ancora, spesso recitata, mormorata, detta ad alta voce, e oggi replicata con mille tipi di diffusione, dalla radio a Internet. Parole e voci umane che nascono da momenti di esperienze personalissime, parole accese che sono in grado, a differenza di tantissimi altri tipi di parole, di essere significative per persone lontane nel tempo e nello spazio. L’allodola vola dove vuole. E come vuole.

La movimentata letizia di un poeta

La movimentata letizia di un poeta

Un padre e un maestro Mario Luzi è stato per me non un oggetto di studio, ma anzitutto un padre e un maestro nella poesia. E il mio punto di vista nel parlarne è segnato da un rapporto di più di vent’anni con una persona con la quale mi trovavo ogni settimana a discutere e a far leggere le mie poesie. Così, la prima fatica che devo fare – ma non voglio farla – è quella di sopprimere una sorta di groppo di gratitudine che viene prima di ogni altra considerazione. Perché a quest’uomo io sono grato: prima ancora di averlo letto e studiato, prima di tutto Mario Luzi è una persona alla quale sono grato. E credo che la gratitudine dovrebbe essere una spezia non assente anche nello studio della letteratura. Un critico che nessuno studia più, Pietro Mignosi, e che fu particolarmente polemico con «Il Frontespizio», sosteneva una visione molto bella: la critica letteraria o è come l’amicizia o è poco interessante. E davvero la critica letteraria, se non ha dentro un po’ di amicizia, si riduce a una chiacchera sterile. Vorrei concentrarmi su due delle tante cose che si potrebbero dire di Luzi. Prima di tutto, occorre smettere di parlare di Luzi come se parlassimo di un autore ermetico. Anche perché molti di coloro che hanno avuto dei rapporti diretti con Mario ricordano bene come Luzi, ogni volta che si parlava di ermetismo, chiedeva: «che cos’è?», come accade, per altro, a tutti coloro che vengono collocati dentro una definizione o una casella che riconoscono limitativa della propria opera. Vorrei riflettere su due aspetti che cercano di guardare alla presenza attuale e alla futura presenza di Mario Luzi. Il 2014 è stato un anno luziano, contrassegnato da tanti incontri a lui dedicati che era necessario e molto opportuno promuovere. E se ci sono moltissime persone legate alla sua opera, non è tanto per un passato, ma piuttosto è proprio per quanto di futuro quest’opera ci sta indicando. Il ruolo dell’uomo nella natura La prima cosa che voglio dirvi mi è venuta in mente qualche settimana fa, in un luogo che sembra non aver niente a che fare con la nostra riflessione. È il Cern di Ginevra, dove fisici di tutto il mondo studiano l’universo. Ero lì perché ero stato invitato, insieme ad altri poeti europei, per discutere con i fisici sul reale e sulla natura. E proprio in quel luogo, discutendo con i fisici, mi sono tornate in mente molte delle intuizioni di Luzi. Il quale è stato uno degli uomini più impegnati a riflettere adeguatamente, cioè poeticamente – ogni riflessione, per essere adeguata, deve essere poetica –, sul posto dell’uomo nella natura. E credo che forse nessun altro poeta, almeno della seconda metà del Novecento, abbia con altrettanta acribia guardato a questa questione. Perché se parliamo di umanesimo e di nuovo umanesimo, non dobbiamo parlare dell’uomo separato dal resto, ma andare a vedere qual è la sua posizione rispetto alla natura. Di fatto, Luzi ha riflettuto su questo per tanti anni, soprattutto negli ultimi anni, con un’insistenza che è risultata incomprensibile a molti tanto che una parte della critica italiana, militante e accademica, a un certo punto, ha perso il contatto con Luzi pensando che egli fosse andato troppo in là, mentre in realtà egli era precisamente dentro la nostra epoca, mentre i critici erano finiti da un’altra parte. Luzi stava riflettendo su un tema cruciale, che ci tocca a tutti i livelli della riflessione politica, morale, anche economica, per i risvolti che ha. Appunto: qual è il rapporto tra l’uomo e la natura? Ovvero, detto in maniera più semplice, ma non per questo banale: cos’è naturale, oggi, che cosa significa naturale? Forse non ci troviamo tutti di fronte e perfino dentro questo problema, a riguardo della nascita dell’uomo, la vita e la morte dell’uomo, le leggi in materia? Luzi era, prima di altri, intento a riflettere su queste cose: ho in mente, fra gli altri, il bellissimo testo sul seme e sul tema, in lui ricorrente, del germinare del vivente[1]. Di fatto, non siamo tutti qui oggi a chiederci che cos’è il vero germinare del vivente, quando inizia il vivente, a che punto possiamo sorprenderlo, dove lo possiamo manipolare, dove la nostra azione diventa naturale o innaturale? Ecco, Luzi era già lì prima di noi, era già lì addirittura prima di quest’epoca. Un andamento ossimorico In quel punto della riflessione, Luzi faceva fondamentalmente due cose. Prima di tutto, rifletteva poeticamente, vale a dire rifletteva con un’ampiezza di sguardo che riusciva a mettere insieme le cose. Al Cern di Ginevra è stato interessante discutere con gli scienziati che – per riassumere una realtà di fatto assai complessa –, avendo infine scoperto il bosone di Higgs, non sanno più cosa pensare. Avendo, infatti, terminato di trovare conferme per il modello teorico dell’universo standard, come lo chiamano, ora si stanno chiedendo verso dove dirigersi nell’indagare la realtà, dal momento che le ultime scoperte fatte non hanno diminuito il mistero, ma l’hanno aumentato. Da poco, in particolare, si è scoperto che il big bang che ha dato origine all’universo – e che Dante aveva, in qualche modo intuito, secoli prima, quando descriveva «legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna»[2] – non è un’esplosione come le altre, che ha un inizio e poi rallenta. Si è scoperto che l’esplosione generata dal big bang accelera. E ora ci si chiede: qual è la forza che spinge e produce l’accelerazione dell’universo? Forse l’antimateria, la dinamica generata dalla ipotetica super-simmetria? Gli scienziati, dunque, sono lì senza sapere che cosa fare, nel senso bello della parola. Mario Luzi è un poeta che ha colto esattamente il senso di questa posizione dell’uomo contemporaneo, il quale ha esperito fino in fondo certe strade della conoscenza e oggi deve come reinterrogarsi di nuovo. È una poesia piena di domande, quella di Luzi. Perché la domanda non è solamente un vezzo della mente aperta o una caratteristica dell’anima religiosa, se vogliamo dire …

“per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” del Novecento

“per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” del Novecento

“Poi nella cassa ti verranno a chiudere/ per sempre. No, per sempre/ sei animo della mia anima e la liberi./ Ora meglio la liberi/ che non sapesse il tuo sorriso vivo”. Ritengo quel verso di Ungaretti “per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” della poesia del ‘900. Nei versi dedicati alla morte del figlio Ninetto di nove anni, si incastona questa violentissima, e però urlante d’amore, inversione. Un “per sempre” che diviene un altro “per sempre”. Lui poeta del “sentimento del tempo” traversa il fuoco del rapporto tra presente ed eterno. E non lo fa per via filosofica o speculativa, ma aggredito dal dolore più grande possibile, la morte del figlio piccolo. E così si inchiava, si incendia questo verso, asciutto e quasi frastornante, contenuto nella poesia “Gridasti, soffoco”, come un chiodo di diamante e di lacrime. Ungaretti, “belva d’amore”, poeta e uomo inciso nella poesia e nella immaginazione del nostro paese, e intellettuale di natura europea, ci ha lasciato questo verso in controtempo assoluto nel Novecento, secolo di ogni riflessione sul tempo e sulla storia. Lui sapeva bene cosa fosse il dolore. Ci ha scritto un libro intero sopra, piangendo, per la morte del figlio Ninetto e del fratello. E però l’apice lo raggiunge in quella poesia che non volle nemmeno pubblicare in quel libro perché gli pareva esagerata. Ed esagerata è, quella poesia che finisce in un piovere attonito di stelle, per la realissima descrizione dello strazio, e per quel verso nodo, verso chiodo, quel verso dove si ricapitola la vita intera e l’intero universo che da imbuto dove pare doversi perdere persino il volto più caro diviene luogo di tracce luminose. Un “per sempre” che cambia direzione, che non imbocca il tunnel che pare obbligato della disperazione e dell’annientamento, ma quella della tremante e tesa visione di segni e frammenti di luci. Tutto questo, ripeto, mentre si contempla il dolore più inspiegabile e grande. E mi chiedo sempre, stupefatto e grato, da quale energia, da quale sterminato serbatoio di nostalgia del bene, da quale provatissima ed essenziale fede il poeta trae la invenzione di quel verso? Da quale segreto attaccamento alla vita, testimoniato fin dalle poesie di guerra e lungo tutto una vita appassionata di esistenza e famelica di bellezza e di conoscenza? Come se quel verso, quasi inumano nella forza che esprime, fosse la verifica più alta di una esistenza, del senso della “vita di un uomo” che mai cede, nutrito dalle linfe della letteratura più grande e della fede più semplice ritrovata nel tempo. Qui si esprime il big bang della forza poetica di Ungaretti, in questo rovesciamento del senso del destino comunemente inteso come dissipazione e perdita. Dissipazione a cui non si oppone, per virtù propria, la letteratura, nemmeno in quei tentativi di fermare in lettere d’oro il tempo del suo amato Petrarca. No, in questo verso grido e rovesciamento, agisce una energia che non viene dalle pur sublimi e incantate sapienze della letteratura e della poesia che Ungaretti frequentò e creò ai massimi livelli. Qui agisce una dismisura, una potenza di mistero. Come se quel “segreto” che lui stesso diceva esser la preda inseguita e mai raggiunta della poesia fosse emerso lì, in un punto, in un verso micidiale e memorabile. Un maestoso capodoglio tra le onde, o un riflesso negli occhi. Una doglia di parto dell’eterno. (Avvenire, 31 maggio 2020)

Ungaretti, scrittore scandaloso

Ungaretti, scrittore scandaloso

Ungaretti è il vero scrittore scandaloso italiano. Non solo perché la sua vita, e secondo voci che si rincorrono negli ambienti letterari, anche la sua morte, è stata piena di veri scandali, ma perché scandaloso è il nucleo della sua forza artistica rispetto al tempo in cui si è espressa e ancora oggi. Scandalosa è la sua bellezza. Scandalosa è la esclusione dal Premio Nobel, dato ai suoi due “colleghi” Quasimodo e Montale, i quali furono giustamente riempiti di onori dalla cultura dominante, mentre Ungaretti brindava, si dice, con “Montale senatore, ma Ungaretti fa l’amore”. Scandaloso il suo leggere e interpretare fisicamente la poesia mentre i due “colleghi” la offrivano con stile da borbottio ministeriale o sussiego da avvocaticchio di provincia. Scandalosa la sua quasi petulante ammirazione per Mussolini, appassionata per l’uomo e invece confusa, abborraciata sul piano politico – e soprattutto utile per uscire dalla fame o a cercar di campare facendo pigramente lavori burocratici. Scandalosa al punto di negargli quel Nobel che meritava e che attese fino alla fine, e che, secondo le dichiarazioni recenti della Accademia di Svezia, travolta infine da scandali e attribuzioni dubbie, fu negato per motivi politici (la prefazione di Mussolini del ’22) mentre ad altri scrittori fiancheggiatori di regimi totalitari comunisti non mancò. Scandalosa la sua visione cosmopolita, scandalosa la sua fame d’amore e di corteggiatore, scandalosa la sua posizione sul ’68, forse più estrema di quella di Pasolini. Scandalosa la sua adesione alla fede quando la cultura à la page se ne allontanava. E scandaloso quel suo modo di vivere, presentare, studiare la poesia come una montagna di senso, un viaggio nel deserto e nella foresta, una passione senza fondo, una nostalgia accesa, non una faccenduola da filologi e professorini. E pur che professore è stato Ungaretti! In Italia e in Brasile, quel suo affascinante perdersi e ritrovarsi in letture e divagazioni che i suoi allievi han fatto in tempo a raccontarmi. Una mole impressionante di studi, di letture, di attività letteraria in tutto il mondo, una lucidità feroce nell’investigare Leopardi, Petrarca, il suo preferito Jacopone. E poi scandaloso nell’aver della poesia una concezione così vasta, religiosa e non stilistica, così libera e profonda da poterla ribadire senza infingimenti dinanzi agli scrittori sovietici del realismo materialista e da riuscire ad accogliere e accompagnarsi alle diverse correnti, dalla Beat Generation ai poeti cantanti brasiliani, dal dialogo con Pasolini, fino al fiuto di intuire in Zanzotto un poeta di vaglia e di reale avanguardia rispetto ad altri che si proponevano come tali. E libero nell’aver dell’arte – indagata e amata nei rapporti con Fazzini e Scipione e altri – una visione attenta alle forze innovatrici, come vide in Burri. Ungaretti porta lo scandalo di un uomo antico e fanciullo nella contemporaneità. Nel ’69 guarda la luna conquistata e pur affascinato da quel prodigio lo legge all’interno del perpetuo desiderio umano. Scandaloso infine nel leggere il dolore che lo investe dai tempi della Guerra fino alla terribile morte del figlioletto di nove anni, come condizione ma non prigione dell’essere umano, nomade e in viaggio verso una “terra promessa”. Scandaloso, cioè vivo. (Quotidiano Nazionale, 1 giugno 2020)

As minhas Leituras de Luigi Giussani

As minhas Leituras de Luigi Giussani

Apri il documento Apresentação do Livro do Mês As Minhas Leituras de Luigi Giussani 16 de abril 2020 Com Davide Rondoni, poeta, escritor e dramaturgo italiano, autor de vários prefácios de livros de don Giussani Mª Rosário Lupi Bello (MRLB) O que nos traz a todos aqui hoje é a vontade de sermos ajudados à leitura do livro do mês As Minhas Leituras, que é um livro muito particular sobre o valor da leitura, no qual encontramos o elenco dos autores preferidos por don Luigi Giussani. Aprender a compreendê-los, a lê-los melhor, é uma forma de nos identificarmos com o olhar, com a sensibilidade e com o coração de don Giussani. Convidámos o nosso amigo Davide Rondoni, que é poeta, escritor, dramaturgo, tradutor, e que prefaciou alguns livros de Giussani e de outros grandes autores; conheceu pessoalmente don Giussani e conversou com ele sobre literatura, a vida, a arte. Sendo poeta, Davide Rondoni é um homem que trabalha com as palavras, e que pode, por isso, ajudar-nos a penetrar no valor que as palavras tinham para don Giussani, um valor que, mais do que literário em sentido estrito, era poético – como ele nos irá explicar. Agradecemos-lhe muito a sua presença, que é um gesto de amizade para connosco. A educação que recebemos do carisma de don Giussani está cheia de referências a autores literários e a outros artistas. De onde vinha, para Giussani, este interesse “estético” pela literatura, a arte, a poesia? Trata-se de um método educativo, ou de algo mais profundo? Davide Rondoni Da parte de Giussani não é tanto o interesse estético nem o amor à literatura. Ou melhor, o interesse estético e o amor à literatura vêm porque ele encontrou estas vozes destes autores. Ou seja, encontrou a voz de homens que fizeram crescer a sua humanidade. A vida é um risco, e quando se arrisca é preciso confiar-se aos autores. Giussani fala muitas vezes também de Dante. A Divina Comédia começa com um homem que está perdido na selva. Porque a vida é uma selva, não é um lugar claro. Dante conta que enquanto está na selva vê uma figura não muito clara, não muito precisa, mas em que ele acaba por reconhecer Virgílio, um grande autor. E então, para a sua viagem na selva, confia-se a Virgílio. Na vida, podemos errar em muitas coisas. Podemos errar no nosso dinheiro, às vezes até podemos perder o rosto, mas não podemos enganar-nos nos autores, até porque os autores ou os escolhes ou são-te impostos pelo poder. E don Giussani fez um gesto de generosidade, disse: “estes são os autores que me fizeram crescer. Desafio a vossa humanidade a confrontar-se com eles”. Neste sentido, é uma partilha de don Giussani que faz parte de um método educativo, porque sem autores não há educação.

Trionfo dell’amore di Petrarca

Trionfo dell’amore di Petrarca

Una bella comitiva I Per anni si è affaticato, ha provato a contorcere la sua ispirazione, quasi a tirarle il collo perché divenisse più alta, più cantante. E a vestir la sua poesia come una donna diversa da quella che è, incantevole e raffinata. Come certe ragazzine che a quindici anni ne voglian mostrare ventitre. Ha provato a renderla di più forte corporatura, di presenza più incisiva truccandola pesantemente, mettendole addosso taffetani e foulard vistosi. Ma quella ragazza delicata e elegante così mascherata e imbellettata è risultata grottesca. Se la osservi, in queste pagine che accompagnarono per anni senza mai terminare la vita del suo inventore, vedi balenare a tratti il suo sguardo, riconosci sotto i velluti e le pieghe di versi spesso troppo gravi il passo elegantissimo, prodigioso. Ora che ci sta dinanzi, diciamo “no, non è lei”. Sta dunque quasi simpatico questo Petrarca che sotto il titolo di “Trionfi” iscrive la sua più violenta e rovinosa caduta. Lui che difficilmente sta “simpatico” – con quel che di professore, di impiegato, di erudito di corte, che lo oppone all’erratico Dante, poeta infernale e mistico, secondo poeta on the road dopo Omero – ecco, in questa opera dal titolo tecnico e però altisonante trova il suo quasi “simpatico” fallimento. E non si tratta solo di una sconfitta nel campo della poesia e della opera nel suo insieme. Questo tipo di “fallimento” già l’han notato molti seri studiosi e lettori, non senza una certa cupidigia in taluni casi. Come di chi vede la star fallire il colpo, il campione subire il knock-out. No, qui il fallimento è più radicale. Il crollo riguarda i moti primari che precedono il tentativo di questa opera, e da lì investe, come un incendio che si propaga dal centro chiuso di una foresta, i rami alti, i fusti, il fogliame, tutto insieme il tentativo di canto. L’errore magnifico che infatti ci consegna questa opera non sta nella carenza di struttura, di forza creatrice e motrice di terzine, di tessitura tra metafore e narrazione. Tali difetti sono conseguenti a un fallimento, a un trionfale smacco, un buco, che si trova là profondissimo nella stessa concezione e, se così si può dire, in una visione che precede l’opera. Il fallimento del pur moralissimo Trionfo si deve, paradossalmente, a un problema morale fondamentale, un problema di umiltà. Il poeta che volle trionfare sulla propria poesia invece che obbedirle, franò proprio sui Trionfi che scriveva. II Nel Trionfo dell’amore la visione manca, si sfarina, si smonta. Per deficit di umiltà. Per letterale poetica deficienza. E in questo fallimento sta, lo dico chiaro, per noi che osiamo criticarlo, un grande monito: quella deficienza, quella mancanza di umiltà colpì un grandissimo, un eccelso come Petrarca, figuriamoci allora quanto sono più ridicole e continuate le mancanze nostre. Ma di che “s-trionfo” sto parlando dunque? Non si tratta nel suo caso solo di quella mancanza di umiltà artistica – ovvero cercare il pareggio con Dante se non il sorpasso – che è tra i motivi dell’opera. È una umiltà più profonda che qui Petrarca tradisce, e lo fa con il tipico orgoglio del letterato. Infatti un poeta, in ogni epoca si trovi, è chiamato a un gesto che lo rende differente dal letterato, un gesto supremo e libero di umiltà: riconoscere la propria voce. Che è quella e non un’altra. Può darsi addirittura che tale voce nemmeno gli piaccia troppo. O che, come in questo caso, non sia adatta per imitare ed eguagliare la voce d’un altro poeta che sembra più rappresentativo o importante. Inchiodato alla propria voce, un poeta può inventare di tutto, ma non la voce medesima. In molti, anche in anni recenti, non hanno accettato l’umiliazione di non avere la voce che volevano e perciò si sono persi dietro al poeta o alla poetessa che desideravano essere. Ma il poeta deve accettare la propria voce con una umiltà spesso mortificante. E lavorarla perché emerga nella sua natura unica. Occorre una umiltà fertile. La voce che si ha in dote è il primo segno di una “vocazione”. Senza l’umiltà di accettarla ci si avventura in opere stridule, in costruzioni artificiose. III Va in scena il Trionfo dell’Amore dinanzi al viaggiatore: dev’essere un gran corteo, si pensa se non si tiene a mente il significato storico del termine. La storia ci racconta i trionfi di re e imperatori, di sanguinari condottieri vittoriosi che portavano schiavi e tesori in città. Noi, invece, quasi ci si aspetta una festa. Una squadra che alza una coppa. Una bella comitiva. Per ritrarre il Trionfo d’Amore, Petrarca oltre a spudorate risonanze dantesche, pesca da Ovidio, da Omero, dalla Bibbia. Nell’intenzione del poeta la comitiva è una fila di dominati da Amor, che per i latini era la passione. Lui, Amore, si erge come loro condanna, nel senso che afferra e priva di dignità e di vera gloria agli occhi dello scriba una schiera di uomini e donne, più o meno noti. Da Giove a oscuri poeti come Onesto di Bologna: il catalogo è infinito. Ci sono pure Dante e Beatrice, non solo Paolo e Francesca, nonché Virgilio, rovinato dall’amore per qualche giovinetto. Ma il trionfo dell’amore su tutti questi diviene agli occhi del lettore contemporaneo uno strano trionfo rovesciato. Più che al compatimento del poeta verso questi, secondo lui, disgraziati, il lettore si trova legato a una curiosità rianimata verso ciascuno di costoro, verso la loro storia d’amore bizzarra o dolente, misteriosa o famosa. Così che ognuno dei catalogati e nominati, portato in rilievo dalle parole del poeta, più che lontano e “perduto”, diviene più vicino e compagno. Il poeta si sa, vorrebbe qui mettere in fila e svergognare tutta la comitiva di dei, semidei, eroi, personaggi biblici, omerici, latini, barbari etc, raccontandoci o meglio accennando i fatti e fattacci loro – come uno che parla a chi sa e dunque intende. Il lettore contemporaneo, invece, che poco intende di quelle storie di dei, semidei, letterati e personaggi biblici, imperatori romani e barbari, corre dunque alle note …

Quattro idee non babbee per votare alle Europee

Quattro idee non babbee per votare alle Europee

Documento dell’associazione Amici di Marzo Il popolo non è solo un “No” Da molti anni, in Italia e in altri grandi paesi del mondo, è in atto un processo contrastante. Da un lato le élite che vogliono comandare senza la faticosa mediazione delle politiche nazionali e dei corpi intermedi hanno ovunque intentato grazie a media e magistratura processi alla classe politica. L’hanno screditata, spesso ma non sempre con buone ragioni, e additata agli occhi dei popoli come causa di ogni corruzione e male. Da noi nel 1992 pochissimi, tra cui don Giussani, dicevano che non sarebbe venuto del buono da tutto questo. Il termine “casta” coniato in Italia dal giornale delle élite economiche e culturali è stato usato per colpire una gran parte della classe politica. Quel malcontento popolare è montato ed espresso in vario modo. Ma le sue radici vengono da lontano, da certe false promesse non mantenibili, come vide già De Toqueville nel 1840, su cui si fonda la democrazia liberale, e la sua nuova versione chiamata globalizzazione. La promessa della “felice autonomia dell’individuo” si è rivelata in molti casi crisi e schiavitù economica di persone e popoli, creando una specie di cittadino “fanciullo” in balia a scontento e idee confuse. Molto tempo s’è perso, energie smarrite, occasioni sprecate, mezza Italia svenduta. Ma ora, insorgendo nuovi leader, nuovi problemi e nuovi media, quel malcontento si è coalizzato a volte in modo brusco contro le stesse élite che pensavano – dopo averlo aizzato – di guidarlo e che ora lo bollano come “populismo”. Il problema riguarda tutte le istituzioni, Chiesa compresa. Il termine populismo è ambiguo. Ogni leader, politico o religioso, ha un lato “populista”, cioè rischia di dare messaggi semplificati e indirizzati dal consenso. Continuare a dare del popolo una idea solo protestataria, è una menzogna comoda per le élite che vogliono in pochi governare molto e campare su falsi miti. Ridurre il popolo a sudditi che protestano o si intrattengono e campicchiano sotto il balcone del re è un sogno delle oligarchie di sempre. Invece sappiamo (perché lo vediamo) che nel nostro popolo ci sono forze costruttrici, creatrici di legami e che affrontano problemi piccoli ed enormi. A questa risorsa la politica deve dare più spazio, voce e strumenti. Passare da una politica screditata a una politica di stampo veterostatalista che vuole occuparsi di tutto sarebbe un disastro. Non di sola economia… Agitata come la questione più rilevante per cui restare entro la UE, l’economia si rivelerebbe, dinanzi alla alleanza Russia-Cina, alla Brexit, alla forza Usa, forse il primo buon motivo per allontanarsene. L’Europa deve andare oltre l’attuale UE, diventare come già indicava Giovanni Paolo II una terra di forti identità “dall’Atlantico agli Urali”, se no è un debole fantoccio bancario. Se il problema è attaccarsi a un carro che tira, visto depressione demografica, sperequazioni nord sud etc, forse meglio attaccarsi ad altri. Il modello di welfare protettivo ha valori e vantaggi, ma non ha impedito l’invecchiamento del continente. L’economia italiana ha crepe, specie in alcuni territori, ma è tutt’altro che morente. I modi per farla camminare ci sono. Possiamo dare un contributo, se non è troppo tardi, a una economia europea ispirata a una libertà temperata. Più possibilità di iniziativa, fuori da troppi vincoli fiscali e burocratici, e attenzione ai più deboli. Ma non si deve dimenticare che la perdita di vitalità economica non è mai dipendente da cause interne all’economia. E che separare l’economia e usarla come unico metro per valutare una società è fuorviante. Identità, il “problemone” tra gender e sagre di paese La risposta più adeguata al problema dell’identità è la partita aperta nella cultura e nella società europea da oltre quattrocento anni: dal Cogito ergo sum (penso e perciò io sono) di Cartesio alla domanda suprema di Leopardi alla luna “e io che sono?” e via via fino alle disperate visioni dell’ “oltreuomo” di Nietzsche e alle presunzioni di “autodeterminarsi” a seconda di desideri che divengono diritti, persino a costo di manipolazione genetiche e di pratiche di affitto di corpi altrui. Tanto più in Europa di fatto si nega – negli statuti e nella cultura dominante – la dimensione religiosa della identità umana, secondo cui il mio io e il suo valore intangibile sono fondati nel rapporto con l’infinito di un Dio creatore, tanto più va in scena la triste fiera delle mille identità possibili. Dove tutto può essere chiamato identità (dalle tendenze sessuali, al nazionalismo, ai gusti musicali) si fa largo l’ipocrisia del politically correct, e si prepara lo scontro. Non importa se per affermare mille identità occorre da un lato violentare dati di realtà, diritti di più deboli, censurare evidenti contraddizioni, o dall’altro risultare anacronisti e rifugiarsi nel passato. Si grida ovunque “identità!” e intanto non a caso si assiste a una crescita di fenomeni di ansia, con riflessi sociali evidenti. Nessuna identità parziale è adeguata all’io, che soffre in vario modo sotto maschere soffocanti. L’Europa esiste in quanto culla e difesa del valore infinito della persona umana, centro del messaggio cristiano, contro ogni tipo di fondamentalismo politico, economico, teologico o tecnocratico. Senza rinnovata identità religiosa laicamente espressa L’Europa diviene solo una locanda secondaria, peraltro incapace di evitare guerre entro i suoi territori o ai confini (dalla ex-Jugoslavia alla ex-Libia). UE ovvero Urgenza Educativa In questi anni, abbiamo avuto ingenti interventi in campo educativo della Unione Europea, orientati a favorire equiparazioni di standard e scambi internazionali. Dal punto di vista del metodo e dei contenuti educativi, non si sono avuti passi in avanti verso una maggiore libertà di educazione o alla educazione del gusto dei giovani, ma si è assistito al dominio espansivo dell’abilitazione tecnologica e del relativismo antropologico. Le scuole italiane ad esempio, sempre in debito, hanno investito milioni di euro in lavagne tecnologiche inutili specie alle Medie e Superiori. La conseguenza è una crescita della omologazione culturale, favorita dal pensiero unico politically correct vigente nei colossi dell’intrattenimento e che detengono i social. Occorre cambiare passo. Che i popoli europei ritrovino, in un grande sforzo educativo di nuove …