A cosa serve la poesia?

A cosa serve la poesia?

Dalla Introduzione a “L'allodola e il fuoco”
(La nave di Teseo, 2019)

Un’allodola. Di fuoco. La poesia è quasi niente nell’aria del mondo. Aria che a volte ci pare gremita di parole che dominano, parole che corrono, di lamenti, di grida, di sospiri. Di trasmissioni vocali e di ogni altro genere. E poi di rumori, e di musica, troppe volte lei pure ridotta a rumore di fondo. A volte non hai l’impressione che l’aria sia troppo piena? Che sia esaurita, intendo. Che in questo posto si soffochi. Aria piena di spari, di gas di scarico, riflessi cangianti dai video, tagliata da vetrate di grattacieli e da propulsioni di motori a reazione. Aria piena di proteste o esultanze, a volte, o più spesso di imprecazioni. L’allodola di fuoco va, quasi invisibile, nell’aria. E certe volte accende le persone, passando sugli occhi e sulle labbra, sfiorando il cuore. Bucando la lingua, un piercing divino. Mi chiedono a cosa serva la poesia. E come tutti quelli che l’hanno conosciuta non so bene cosa dire. Fate un gioco: guardate la faccia di quelli a cui chiedete “ehi, scusa, cosa è la poesia? A cosa serve?” A meno che non si tratti di idioti tromboni, diventano come quelli che forse hanno visto un fantasma, o si stanno svegliando da un sogno. L’hanno vista in volto? Era lei? “Sì, devo averla vista, ma non sono sicuro...” Diventano come quelli che devono parlare della persona più importante della loro vita. Non trovano le parole. Anche a me capita così. È più di trent’anni che ne parlo. E non so cosa dire. Eppure le ho dedicato la vita, me l’ha presa. Allora dico piano: “Niente”. Niente. Splendore di questa parola. Suona vertiginosa quando indica il punto in cui manca ogni convenienza. Ogni economia. Niente scambio, niente in cambio di niente. Non si tratta di quel “niente” che pensano i filosofi nichilisti e saccenti, i quali immaginano con la loro piccola testa di sapere che tutto esiste per nessun motivo e nessun destino. E che pensano che di tutto la consistenza è nulla. Venivano derisi da Montale: “Con quale voluttà/ hanno smascherato il Nulla./ C’è stata un’eccezione però:/ le loro cattedre”. No, no, il niente che è la poesia non è di quel genere. I bambini e i mistici (e i poeti) sanno cosa è questo “niente” – quello dei pomeriggi dove non si fa nulla di importante ma si cresce, o che si sente dentro finché la mamma non ti abbraccia, quello che acceca per un istante la vista che ha visto tutto. Dante tace quando deve dire cosa ha veduto in fondo al suo viaggio nei regni della morte e della vita. Nientissimo “nada”. Quel che si fa largo nelle emozioni fragili. Lo conoscono, a volte, anche coloro che chiamiamo “i pazzi”. Il tutto visto di spalle.
Stiamo parlando del punto della perfetta letizia, come diceva san Francesco? Dove non hai niente, niente, sei povero, niente a cui attaccarti, e potresti morire – se non la presenza che davvero ti allieta. La poesia riguarda tale “presentarsi”. Non il “presente!” gridato all’appello dal soldato o risposto di malavoglia dallo scolaro. È il “che bello che sei qui...” dell’innamorato. Sono pochi i punti dove si tocca lo splendore di questo genere di “niente” in una esistenza: alcuni amori veri, lo sguardo verso i propri figli, certi momenti in cui non si bara con Dio, e molto spesso – non sempre, purtroppo – il rapporto con il padre e con la madre. La poesia, allodola di fuoco, tiene vivo il “niente” nelle nostre vite troppo economiche, commerciali, fatte di scambi. Ci accende di quel niente. Ma la poesia è niente anche perché tutta l’Iliade non vale la vita di un bambino malato. Chi pensa che l’arte sia un idolo, una cosa di grande valore, che vada onorata più della esistenza sfortunata di un piccolo malnutrito in Ruanda, non ha capito nulla dell’arte. Rispetto alla vita – come diceva Rimbaud – la poesia è “merda”. “Merde pour la poesie!” – la frase esplode così, nella meravigliosa, tremenda sua forza e verità dentro “Una stagione all’inferno”. La poesia viene sempre “dopo” la vita. Chi invece la parifica, chi la antepone o chi, addirittura, crede che la poesia sia una specie di salvezza della vita e pensa così facendo di onorarla, in realtà la sfigura. Nientissimo niente, spiraglio. Ispirazione.
Io negli scambi non sono capace.
Li ho sempre persi, e anche con lei ho perso tutto. È un po’ truffatrice la poesia. Ma la guardi negli occhi e dici: per fortuna ti ho incontrato... Sono contento che sia andata così e comunque non poteva andare diversamente. L’allodola di fuoco a volte si ferma al centro degli occhi di un ragazzino. Potevo voltare la testa, certo. Non l’ho fatto. Questo libro non è una antologia. Non è nemmeno un vero e proprio libro di poesie. La poesia, del resto, non è mai stata una faccenda di libri. L’hanno fatta passare per una cosa di libri solo di recente, e hanno sbagliato. Lei infatti non ci sta. Con grave scorno di editori, professori e letterati, gente coi cuori poco accesi. I libri stanno cambiando, in buona parte svanendo, e sta cambiando il supporto con cui si passano le parole tra gli uomini. Ma la poesia no, non sta svanendo. I suoi libri si stanno trasformando in una specie di preziosi talismani, e intanto la sua voce corre per nuovi canali, e sempre per aria. Né Dante né Omero e nessun poeta fino a secoli recentissimi si è mai posto il problema dei libri di poesia. Esisteva la poesia, come esiste ancora, spesso recitata, mormorata, detta ad alta voce, e oggi replicata con mille tipi di diffusione, dalla radio a Internet. Parole e voci umane che nascono da momenti di esperienze personalissime, parole accese che sono in grado, a differenza di tantissimi altri tipi di parole, di essere significative per persone lontane nel tempo e nello spazio. L’allodola vola dove vuole. E come vuole.

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