I puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

I puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

Capitolo I
Il re

Gli alberi sono fermi nel buio. Cosa sono le ombre che sta vedendo? Il sudore gli scende fino alle palpebre. Lui, il re, non dovrebbe essere ridotto così. Le sue tempie sono toccate da un alito gelato. Ora è davvero solo. Deve sopportare la prova tremenda.
Lo hanno spogliato. Le sue braccia, le gambe sono apparse bianche, stracci abbandonati nel buio. Quelli con le vesti sono scivolati nell’ombra sotto di lui. Il posto dove sta è sopraelevato. Come per vedere meglio
e più vicina la morte o come si vuol chiamare questa grandiosa, accecante oscurità. Gli occhi bruciano. E per
tutto il corpo sente una trafittura. Al ventre, ai polsi, alle reni. Non doveva capitare a lui una cosa del genere.
Non immaginava che le cose sarebbero andate a finire così.
La bocca gli si è seccata. La apre ma non riesce a uscire un suono. Fissa lo sguardo, quel poco che riesce, davanti a lui, non vede nulla, solo tenebre avanzano. I suoi più fedeli vicini se ne sono andati. Proprio quelli che lo festeggiavano come re...
Non pensava di doverci arrivare. Sapeva che sarebbe successo ma non immaginava in questo modo oscuro, dolorosissimo.
Cerca qualcosa, aria o luce, davanti a sé, come un pazzo. Gli spasmi lo stanno torturando. Spera finisca presto.
Non è decoroso che finisca tutto così. Sta sospeso, una specie di paralisi lo sta mangiando.
Erode, è questo il suo nome, ed è il re... Erode detto il Grande.
Le fiaccole della grande buia sala del trono deserta illuminano a malapena il suo viso. Le vede? Anche la
mano alla fine del braccio destro che ha disteso abbandonato al lato del trono, con la coppa di ferro vuota
stretta tra le dita, gli sembra di un altro, chissà di chi...
Quando un uomo fissa una fiamma sente la propria solitudine. La scomparsa, o la fosforescenza.
Ha saputo da qualche settimana, da un sussurro dei suoi sapienti e indovini, che è sorto un nuovo re nella
regione, un bambino che qualcuno vuole sia il re.
E il suo incubo stanotte si è presentato di nuovo. Perdere tutto, non esser più re, non esser più niente. Le fitte al ventre si sono intensificate nelle ultime settimane.
Un bambino? Un re bambino? Che invenzione di demoni è questa...
“Chi osa sfidarmi ancora?” pensa o forse nemmeno riesce a formulare questo pensiero. Per mantenere in suo pugno il potere su questo schifo di regno non ha esitato qualche anno fa a uccidere due dei suoi figli.
Alessandro e Aristobulo. Soffiavano parole lungo i muri contro di lui. I suoi figli... «Crudele» gli ha detto serrando le labbra la donna che li partorì... «E allora?» le aveva risposto con gli occhi liquidi. Anche il re Davide mosse contro il suo prediletto, Assalonne. I figli diventano infidi, a volte odiano più di qualsiasi altro... bisogna fermarli... La donna a quelle parole si era ritirata, abbassando lo sguardo nero e brillante. Lei sa che quando Erode parla del re Davide è morso da una serpe. Il re, il re... Il re è sempre Davide, quel bastardo figlio di caprai diventato amante della figlia di Saul per le poesie e la musica e poi sterminatore di Filistei e creatore dei Salmi. E fondatore di Gerusalemme capitale, padre di Salomone costruttore del Tempio... Davide, sempre il re Davide... sempre il suo nome sulla bocca di tutti, anche ora che marcisce da mille anni nella sua tomba mausoleo dove lui è pure entrato a rubare gli ori, gli argenti e dopo esser marcito da vecchio con la puttanella Abisaig nel letto per non sentire il freddo della morte... La morte che avanza, anche se sei il re Davide...
Sempre lui... Ma Erode, lui, d’ora in poi sarà ricordato come il re. Così ha deciso, così ha deciso. Ma l’incubo...
Ora gli restano tre figli, il regno sarà di qualcuno di loro. Ha già qualche idea per la successione.
Ma questo bambino re di cui si mormora, di chi sarà figlio?
Erode posa la coppa di metallo che tiene stretta con il braccio abbandonato. È vuota da alcuni minuti. Le
labbra, fredde e screpolate, sentono quasi dolore al contatto con il metallo dell’orlo. Il vino sapeva di niente. Glielo ha dato in omaggio uno di quei mercanti romani con cui si devono tenere buone relazioni, ma del
quale ha profondo disgusto.
Qui tutto sembra provocare disgusto.
I Giudei sono disgustati dai Romani. I Romani sono disgustati dai Giudei. Gli invasori venuti da Roma guardano con curioso senso di superiorità questi pastori e mercanti che credono in un Dio immenso e potente che però li fa passare di schiavitù in schiavitù. I Giudei guardano con disgusto i segni di prepotenza romana. E sono disgustati da lui e dai suoi erodiani, servi di Roma. Ma a lui le truppe romane fanno comodo. Quando i Giudei volevano impadronirsi del suo tesoro a Gerusalemme, sono state le truppe di Varo, il governatore romano di Siria, ad accorrere per proteggerlo. Ne hanno crocifissi duemila, durante la rivolta guidata da Giuda figlio di Ezechia. Figlio degno del padre... Le urla dei dannati hanno riempito la città per ore e ore.
Erode ricorda quando, da giovane servitore del re suo padre, Antipatro, dovette sedare alcune rivolte. Un capo di bande di Giudei rivoltosi, Ezechia, aveva occupato con le armi il suo palazzo a Seppori, in Galilea. Il sogno di questi esaltati di Giudei è di essere indipendenti da Roma... Stupidi! non capiscono che conviene
loro il dolce calcagno dell’Impero che controlla e sopisce invece di tornare preda delle divisioni feroci tra loro...
Allora fu lui a ordinare la esecuzione di Ezechia. Aveva lo sguardo fiero, quel disgraziato.
E ora anche il figlio...
Si sono animati spiriti ribelli. Gli zeloti, con le loro facce da capre ansiose, stanno facendo proseliti e la loro violenza provoca tensioni, specialmente tra i più miserabili e i facinorosi.
Lui si deve occupare di tutte queste rogne. Sa come fare. Per tutta la vita ha lottato. Ricorda ancora il duro
assedio per entrare in Gerusalemme e strapparla ad Antigono, venduto ai Parti. L’amicizia di Antonio a Roma era stato l’inizio della sua grandezza, Erode lo sa. Senza i Romani alle spalle non sarebbe nulla. Ma i prossimi anni potranno essere di quiete, o quasi.
I Romani sono benevoli con la sua gestione. Tutta la zona è sotto il loro dominio e i re locali come lui servono per dare al popolo l’illusione che Roma è abbastanza buona e lontana, Roma non vessa i suoi nuovi figli, Roma è grande e nessuno la vincerà...
Ma i duemila crocefissi hanno urlato per ore. E le esecuzioni di capi rivoltosi sono sentite come sfregio
dell’invasore.
Fissa ancora il buio, le labbra secche. Qualcosa di reale si affaccia come una bestia ogni tanto nella sua mente in pericolo. Un sospetto divorante. Forse la carica di re della Giudea non è risultata appetibile per nessuno dei nobili dell’impero o dei militari. Un posto di sassi e di deserti. Gente con una religione strana. Razza irascibile. Sono fissati con un sacco di leggi, di precetti. Così l’hanno lasciata volentieri a lui, Erode, un uomo mediocre, che viene dalla Idumea. Suda il suo volto dal pelo rossiccio e la barba non folta. A Roma sanno a malapena che in Giudea c’è un re. Sanno che c’è un fantoccio, un buon affarista, uno che commercia unguenti con Cleopatra, uno che risponde al soldo. Persino quando sarà il momento della successione, Erode dovrà chiedere permesso all’imperatore, che ratificherà o meno la nomina.
L’uomo forte della zona è invece il governatore. Lui è solo un re fantoccio di provincia. Questo pensano i
Romani. L’ombra della stanza è opprimente...
Ma lui si fa chiamare Erode il Grande. A dispetto dei Romani, dei Giudei e di tutta questa gente disgustosa.
Tutte le generazioni si ricorderanno di lui.
Sa benissimo che i capi religiosi ebrei e i Romani lo considerano un uomo spavaldo, grottesco nei suoi vizi
e nelle sue esibizioni di prepotenza.
Si fottano.
Lui ha fatto iniziare la costruzione del nuovo grande Tempio di Gerusalemme. Quelle mosche di sacerdoti e anziani dovranno essergli grati per sempre. Merdosi. Ha trovato il modo di fissare il suo nome nella storia del popolo di Dio. Una costruzione imponente. Le sue mura d’oro faranno splendere per sempre il suo nome
nella città di Dio. Mancava da secoli il grande, benedetto Tempio. E lui ha chiamato a Gerusalemme oltre diecimila operai e mille sacerdoti per costruire il Tempio di YHWH che era andato distrutto. Il Tempio di Salomone figlio di Davide, il re amato da Iddio, diventerà il tempio di Erode, di Erode il Grande...
Così ripete nella sua mente accesa. Talvolta passando tra i commensali con la coppa piena o tra gli architetti a Gerusalemme ha un sorriso dolce, compiaciuto.
Farà portare le sue insegne sulla porta del Tempio.
A differenza di altri re che vengono ricordati solo per battaglie e stragi, lui si fisserà nella memoria per una cosa duratura e meravigliosa. I Romani pensino quello che vogliono. E anche i capi religiosi di questo popolo di ossessi. Resterà il tempio di Erode il Grande.
Ma qualche giorno fa gli hanno sussurrato: è nato il nuovo re, e lui non sa nemmeno di chi stanno parlando.
Un bambino... Deve temere un bambino?
Riporta meccanicamente la coppa vuota alle labbra. Niente. Solo l’orlo di metallo freddo.
Un’assurdità. Eppure l’oscuro avviso ha lavorato in lui. E nel pieno della notte, al centro del suo basso palazzo di Giudea, resta a guardare il vuoto. Con l’incubo di morire.
La città è immobile sotto il primo sole dell’alba, già ingrigito da nuvole di sabbia e polvere.
I sapienti che sono arrivati nella zona e che ha fatto chiamare stanno seguendo certi segni del cielo. A lui non hanno dato notizie sicure.
Di loro si può fidare?
«Trovatelo!» ha detto ai loro visi enigmatici e silenziosi. Vediamo dove portano i segni.
Quelli sono partiti.
E da allora lui non dorme.

Capitolo II
La nascita

Mariah ha un brivido.
Fino alle ossa, come un uccello oscuro che si agita tra i rami.
“Nasce!” pensa.
Anzi, non è neanche un pensiero. È aria che cambia dentro il suo fiato, colore degli occhi che diviene più febbrile, intenso. Inizia a sentire forti in lei le discese, le spinte.
La ragazza ha meno di sedici anni, è la prima volta. Getta uno sguardo al suo uomo. Poi chiude gli occhi. Ora deve richiamare ogni energia. Joseph ha fatto appena in tempo a sistemarle dietro la schiena un sacco di paglia trovato nella stanza, per stare un po’ sollevata. Ora spingere. Aprirsi.
In tutti questi mesi ha custodito il segreto nel suo cuore. E l’uomo che ha sposato lo ha custodito con lei.
Un segreto tremendo.
Quando gli disse d’essere incinta del cielo, lui guardò per terra. Ormai i segni sul suo corpo erano evidenti. Mariah ci aveva messo un bel po’ per trovare le parole e ora lui invece non diceva un bel niente. Poi sollevò lo sguardo sul viso di lei. Luce netta lo tagliava, sembrava di sasso. Gli occhi però accesi.
Lui uscì.
Per Joseph vennero sogni, richieste bisbigliate, mezzi chiarimenti domandati in modo vago a vecchi rabbini. Lui era un giusto di Israele. Non ne parlò apertamente a nessuno. Vennero sere con la testa tra le mani. Un angelo le ha detto... un angelo le ha detto... Vennero tutti i giorni prima di dire «sì» come a un muro.
Al muro dei suoi occhi di ragazza inquieta. Ebbe un sogno Joseph, un angelo gli disse: lei ti ha detto il vero, Dio sta azzardando tanto. Aspettava il suo sì di ragazza libera, come per una storia d’amore - libero come dev’essere ogni amore - tra Lui e i suoi figli. Ci voleva un primo «sì». E doveva essere quello della ragazza che ti è stata affidata. Dio lo aspettava e la tua Mariah glielo ha dato. Dio non ha scelto una schiena curva, una sottomissione. Una obbligazione. Ma un «sì» libero, detto a viso aperto da tutta la giovinezza di una ragazza. Un «sì» fragile e potente. «Non avere paura», aveva detto a Joseph una creatura d’ombre e di luci nel sogno. Tutto può iniziare.
S’era svegliato ancora più confuso. Aveva inteso? O non aveva capito nulla? O in quel momento non c’era differenza tra capir tutto o capir nulla... Si trattava di dire sì, come lei. O dire no, e mettersi, per così dire, al contrario di lei. Perché non c’erano solo sogni strani e angeli e profezie bisbigliate con cui fare i conti. C’erano le maldicenze. Le viltà. Che iniziavano a girare come ragni. Topi lungo i muri secchi, nel sole di Natzareth.
C’era il «sì» della ragazza che gli era stata affidata. Come una deflagrazione nel suo cervello.
Lei era stata la prima. Lui doveva essere solo il secondo. Appoggiare il suo «sì» a quello che lei aveva già detto. E che già le lavorava il corpo.
Era ancora bambina e su Mariah era stato deciso: voto di verginità. Le era stato scritto nel destino qualcosa di chiaro e di oscuro. Il padre Gioacchino e la madre Anna erano orgogliosi della loro ragazzina offerta solo a Dio. I loro volti immobili nella casa l’avevano vista cento volte vestirsi per salire i gradini del Tempio. La grande ingiustizia e la grande giustizia: essere solo di Dio. Sua madre la guardava dall’ombra. E quando da piccola aveva salito i gradini del Tempio per la prima volta da sola non si era voltata, no, i due lessero in quel gesto una predilezione. Non li aveva cercati come avrebbe fatto una bambina qualsiasi. In quell’attimo Gioacchino e Anna erano stati orgogliosi ed erano invecchiati.
Secondo le usanze, la giovane diventando ragazza non poteva restare a vivere in solitudine. Avevano dunque trovato, con l’accordo dei capi della sinagoga, Joseph, un uomo poco più avanti negli anni e con lo stesso voto di verginità. Un uomo che veniva dalla radice di Jesse, come pensano di sé tutti i Nazareni. Il seme che viene dai fianchi di re Davide. Lui sarebbe stato lo sposo senza congiunzione carnale di Maria. Un buon compagno, un buon tutore. Joseph aveva accettato il matrimonio chiesto dai capi della sinagoga. Un uomo di fede. Un buon lavoratore, uno con la testa sulle spalle.
Fu lui a salvarla dalla più grande solitudine che possa toccare a un essere umano. Quando si tratta di dire «sì» o «no» a Dio. Solitudine tollerabile solo per pochi istanti. I pochi istanti dell’angelo. Ma tutti i giorni...
Il suo «sì» secondario, secondo, servitore, il suo «sì» d’amore, Joseph lo pronunciò piano, nel riquadro della porta di casa. E quando lei alzò gli occhi sembrò una che è stata recuperata dai precipizi di Sion. Gli occhi di una che non viene lasciata al vento terrificante del deserto.
«Joseph» disse solo, perché in certi momenti si dice solo il nome. E si riesce a dire solo il nome. Non sarebbe stato possibile sopportare quel «sì» senza di lui... Ora aveva gli occhi dove si allargavano di nuovo le nuvole del sorriso.
Joseph è un uomo pratico. Sempre un po’ pensieroso. In certi momenti non si capisce se pensa ai misteri della vita e della morte o solo a che tipo di pialla usare per un tòcco di legno. Forse è uno che pensa allo stesso modo questi concetti - Dio, la pialla. Con la stessa attenzione.
Mariah a volte lo aveva preso in giro: «Sei sempre silenzioso, cosa hai da pensare?».
Lui la guardava. Una bella ragazza, una strana ragazza. Poi le diceva: «A cosa penso lo sai». E lei abbassava lo sguardo, grigio come le pietre del deserto sotto cieli bianchi. Mariah sapeva che quell’uomo un po’ sempre straniero per lei sarebbe stato il taciturno alleato per tutta la vita. Lo vedeva ogni tanto stare con gli altri uomini, a Natzareth, a scambiare poche parole, bere qualcosa insieme, trafficare di arnesi o giocare. Lo guardava e pensava: “Joseph, stai con me...”.
Come se lui la sentisse, alzava la testa e si voltava dove lei se ne stava con le altre donne, coi grandi vasi e i setacci. Solo uno sguardo, un’ombra di sorriso. Era fatto così. «Sì», diceva lui senza dire niente. Il suo «sì» secondario, il suo «sì» che la strappava dalla solitudine, a tutti i posti della terra e dell’anima dove una ragazza non poteva restare da sola.
E poi vennero i nove mesi. Tutti i nove mesi.
E venne lo spostamento per rispondere al censimento dei Romani. La pratica burocratica dei padroni romani che volevano sapere quanti erano i pecorai e poveracci e i possidenti su cui regnavano. Il segno burocratico, il possesso dei numeri. Il gesto imperiale che dice: esisti perché sei segnato nei miei registri. Il viaggio della ragazza incinta e dell’uomo silenzioso fu fatto in mezzo a puzzo di pecore, grida di asini e gente sospettosa. A uomini che biascicavano: verrà l’ora...
Fino a che è venuta questa ora.
E l’occhiata sgomenta, impaurita di lei: Nasce!
Corrono le nubi in cielo, la sera divora tutta la luce del cielo, corrono le energie lungo la sua schiena di ragazza, lungo le sue gambe, nei polsi che diventano bianchi a forza di serrare il bordo ruvido della mangiatoia di legno sopra la testa. Corre in lei la paura e il brivido che solo le donne conoscono da sempre. In un angolo della caverna sotto legni e vecchi attrezzi si sente raspare qualcosa. Una lucertola, forse.
Il suo sposo le ha dato un pezzo di cuoio: «Stringi i denti». Lei lo ha guardato dritto negli occhi un istante. Bethlehem, la città del pane, detta anche città del dio Lahm, si è popolata di viaggiatori venuti per il censimento. Nella sera si placano le bestie, affievoliscono i belati, i ragli, i nitriti. E in parte si placano gli uomini, che possono usare violenza anche nei sussurri. Il caravanserraglio è lontano dalla caverna dove si sono rifugiati. Là non c’era posto. Si scorgono illuminati alcuni bivacchi di pastori sparsi.
Lui vede i tendini di lei in rilievo nei polsi per lo sforzo. Ora gli tocca davvero stare attento.
Non ha trovato donne nei dintorni. Solo pastori. Girando come un forsennato, chiedendo. Quelli scuotevano la testa. Capivano, ma cosa ci potevano fare. Non si avvicinano, sono uomini asciutti. Non si capisce a cosa pensano. Forse a come sarebbe meglio essere in qualsiasi altro posto, invece d’esser qui a badare a pecore o muli. In quei pensieri la loro vita si fa triste e profonda, oppure triste e cattiva. Hanno visi simili tra loro intorno ai fuochi, magri, barbe dure, nasi sottili e curvi. Mantelli tirati sulla testa per il freddo. Piatti di rame accanto ai piedi. Pipe, ciotole di spezie. Ma gli occhi brillano in modo diverso. Ad alcuni le fiamme danno un oro antico, altri sembrano ritirati dietro a un velo opaco, sonno o pigrizia. Altri ancora sono acqua buia o ambra dove rabbrividisce una luce strana.
A Joseph hanno dato del vino, dei datteri, alcune coperte di lana.
Lasciano che prima le grida, e poi il mugolio della bocca serrata della donna escano dalla stalla illuminata.
Se ne sono rimasti ai fuochi, un po’ distanti masticando carne di pecora, e bevendo dalle bisacce ormai sgonfie.
Le palpebre gialle e pesanti.
Il fiato e il corpo di alcune bestie presenti nella stalla dove i due si sono riparati emanano un po’ di calore contro il freddo che sta strisciando sulle pietre, sulla paglia.
Il piccolo villaggio di Bethlehem è ormai tutto silenzioso nella notte.
Qualche belato d’agnello.
Due forestieri accampati durante i giorni del censimento non sono motivo di particolare curiosità. Due come altri. Qualcuno avrà pensato: povera ragazza, doversi muovere così. O non avranno pensato niente. È gente che non si perde in troppe chiacchiere su cose del genere. Pecorai, artigiani, pensano al lavoro e han timor di Dio, come si dice. Un timore a volte duro, muto. A volte penoso, vasto, un lamento. Ormai guardano con diffidenza i presunti profeti che urlano per piazze e colline spelacchiate. Una sfilza di furbi, di tizi mezzi matti, di gente che s’alimenta in modo strano, e di urlatori visionari diffonde in mezzo alla gente la convinzione che sì, sta per succedere qualcosa. Ormai il popolo si attende qualcosa di eclatante. Azioni, finalmente.
E infatti brillano pugnali nel nome di Dio. Perché una cosa è certa: i Romani sono dei padroni insopportabili per un popolo orgoglioso. Hanno modi grevi e pesanti. Del Dio d’Israele non gliene frega niente. Soffrono le cose complicate e il grande caldo e la polvere. Sono sempre irritati. Diventano più violenti. Tengono le vesti di tela, le armature di cuoio e metalli e sudano. Quando si mettono vesti orientali o alla greca nelle cene e nelle feste che danno nei palazzi, diventano ridicoli. I Romani si annoiano quando gli Israeliti si mettono a parlare del re Davide, o del grande padre Abramo, e dell’alleanza invincibile con Dio.
In questi anni le discussioni dei dottori della Legge si sono fatte più sottili. Fumi trascoloranti. Hillel e Shammai stanno discutendo se è lecito mangiare un uovo di Sabato. I Romani non capiscono certe cose. Sbadigliano. Stanno chiusi nei loro palazzi o negli accampamenti. Fanno feste, si ubriacano. Di giorno curano le armi e i corpi per la guerra. Non vedono la necessità di tutto quel fervore e quei regolamenti. Hanno dèi più pratici.
Divinità per così dire più alla mano.
Tra gli Israeliti più religiosi sta serpeggiando un disagio: non si capisce che cosa Dio stia preparando per il suo popolo. Dove sono finiti i veri profeti? Tacciono da troppo tempo...
Il Messia deve arrivare. Ma da dove? dicono e non dicono fissando la facciata grandiosa del Tempio. «Nel caso che l’offerta sia un capo di bestiame grosso, dice il Signore, sarà un maschio o una femmina senza difetto; l’offrirà davanti al Signore, poserà la mano sulla testa della vittima e la immolerà all’ingresso della tenda...»
Mariah sente il ventre diventare di fiamma. Soffia stringendo il cuoio tra i denti.
L’enorme stella lentamente porta il suo globo di fuoco fuori dalle nubi, i pastori sollevano le teste senza parlare, e Mariah sente che qualcosa – qualcuno – sta uscendo. È girato bene, è la testa. Joseph si è allontanato di qualche passo, appoggiato con le spalle a una parete che lo divide dal luogo caldo delle bestie dove si è stesa la ragazza. La sua donna è giovane, forte. Ce la può fare. La ascolta. Soffia, trattiene il fiato e poi giù, ancora. Aprirsi, spingere la vita.
In alto la stella rompe la tenebra con un rosso denso, violento, come se in cielo si rompessero fuoco sangue e magma. Anche Mariah apre il suo corpo e spinge. Ora deve respirare forte. E gridare. Come tutte le ragazze del mondo quando viene l’ora. Diventa tutte le ragazze. Joseph mormora ora con le labbra contro il muro, quasi anticipando le preghiere che verranno nei secoli dei secoli: «Mariah del mio cuore, su, Mariah del mio cielo, Mariah del mattino, della sera, forza, Mariah vita mia, vita...». Lei riesce a mormorare solo a tratti le preghiere della devozione antica, passate tra le generazioni fino a lei. Ora sente quelle parole antiche di fuoco disciogliersi nel sangue che cola, nell’adempimento supremo che passa di femmina in femmina.
Ora lei deve spingere mentre la schiena si appiccica alla stoffa e il vestito sul petto è bagnato di lacrime, di saliva, di sudore.
Vede e non vede l’ombra del suo uomo. Per fortuna lui è lì con lei, soli, sperduti nell’universo. Le mani di lui si stanno macchiando di sangue graffiando il muro. Non ha trovato un riparo migliore... Cosa è l’impotenza di un uomo verso chi ama?
«Cosa ti ha detto l’angelo?» chiede d’improvviso Joseph a Mariah. Lei ora sta soffiando e non morde più il cuoio.
Ora deve spingere. Ispirare e respirare forte, largo. Lui le fa ricordare quel che non gli ha mai confidato. «Cosa ti ha detto?» In tutti quei mesi aveva fatto solo cenni vaghi. Quasi spauriti. Con un’occhiata soltanto diceva: era un messaggero, io non so niente, ti fidi di me?
«Mi ha salutato...»
Un’altra doglia lunga. Fiato, soffiare. Le tempie bianche. I tendini.
«Partorirai un figlio, si chiamerà...»
Si ferma, non ce la fa. Una spada da sotto il cuore al ventre. Joseph mormora l’unica cosa che ha saputo: «Si chiamerà Gesù».
«Piena di grazia, ha detto, e...»
Lui sta con la bocca contro il muro.
«Soffia Mariah, lascia stare, mi dirai...»
Joseph ricorda quando li chiamarono al Tempio a Natzareth. Su di lui pendeva un’accusa grave e lo assediavano i mormorii della gente e dei fedeli: la ragazza vergine che gli era stata affidata in moglie per accudirla pura era incinta. Aveva tradito la fiducia dei sacerdoti e degli anziani del Tempio. Per lui la punizione massima.
Per lei, se fosse stata trovata colpevole, non ci sarebbe stata che la via dell’esilio e della vergogna. La ragazzina che a tutti sembrava perfetta, custodita per Dio, così graziosa e diligente, quella che a tre anni mentre saliva le scale non si voltò verso i genitori, come segno divino di predilezione, ecco, proprio lei aveva subìto le chiacchiere più infami. Si preparava la vergogna amara. Gioacchino e Anna avrebbero voluto morire, anche se sapevano che lei...
«Mi dirai dopo, ora pensa a...», dice Joseph sentendo ora lei nel sussulto cercare il fiato.
Li chiamarono e diedero loro da bere «l’acqua della prova». Bevendo l’acqua e girando attorno all’altare del Tempio il mentitore si sarebbe coperto di macchie. Ma né su Joseph, né su Mariah comparvero segni. Furono osservati da decine di volti induriti dal sole, assiepati dentro e fuori il piccolo Tempio di Natzareth, mentre tra le gambe si infilavano pecore e galli. Attesero le parole del capo della sinagoga. Le attendevano anche le donne con Anna nell’ombra delle stanze di terra secca. Il paese intero attendeva la sentenza. E quando sentirono il sacerdote dire: «Non mentono», il volto dei più religiosi tra quegli uomini e donne furono traversati dalle nubi e da corse di cose strane.
Ma Joseph non aveva mai chiesto a Mariah quali fossero state le parole esatte dell’angelo. Ne aveva sempre avuto timore. Ma ora, aveva pensato con un pensiero semplice, forse a lei tra le doglie avrebbe giovato ricordare quella visita. La visione che aveva avviato tutto. Ora se ne è pentito, forse lei deve solo ispirare forte, e soffiare. E premere. Avessero trovato posto almeno nel caravanserraglio...
Ma lei nelle ultime spinte ha gli occhi ormai di acqua e pietra. E stringe il bordo della mangiatoia con la mano frenetica.
«No, ascolta... ha detto... è figlio dell’Altissimo, lo Spirito scenderà su di te e l’ombra della potenza...»
Un altro spasmo. I capelli le si sono appiccicati alle tempie.
«L’ombra dell’Altissimo si stenderà su di te... su di me»
«Ora respira, respira... piano... Non importa... Un’altra volta...»
Le doglie le stanno scuotendo il corpo. Joseph non sa bene come funzionano queste cose. Lui doveva solo lavorare il legno ed essere un buon lem. Come ha fatto a trovarsi così? In questa stalla con una ragazza che partorisce... La vita è una follia?
«E io... io ho detto: come è possibile? Lui, l’angelo, ha parlato di Elisabetta...»
«Sì, tua cugina, ha partorito anche lei, vedi... non sembrava possibile.»
Le ha lasciato uno straccio bagnato sulla fronte. Si sporge d’un niente dal suo riparo per guardare se ha ancora quel panno sulla testa.
«E io ho detto all’angelo...»
Un’onda lunga, dirompente.
«Soffia, soffia» dice Joseph che sa e non sa cosa fare. Prima di ritirarsi dietro alla parete ha avvicinato il catino con l’acqua. Cos’altro poteva?
Gli animali sparsi nelle stalle nei pressi danno muggiti, belati. Si sente lontano un abbaiare ossesso di cane.
L’aria della notte ferma. Lei soffia, lacrima, tiene rigida la testa come un vitello legato. Poi sente qualcosa di vivente arrivare, il minimo cranio, la fronte, uno scricciolo, il visino cianotico...
In lei si tuffa e si apre una colata di metallo fuso. Ora rompe il respiro: «E ho detto sì! Sia così!».
Lo grida. Tutto il fiato.
È il sussulto finale. «Poi se n’è andato» dice, girando la testa contro la parete un istante, tra le lacrime, «l’angelo se n’è andato...» E attira, stringe a sé il piccolo essere bagnato, sanguinoso.
Quando si gira nuovamente verso Joseph che esce dall’ombra, ha un volto sbigottito di ragazza, come la superficie del lago quando si fermano le onde, passano le nubi.
Joseph prende con cautela il piccolo con le due mani, con la bocca afferra il panno che aveva preparato per avvolgerlo. Gli strilli del piccolo sono brevi, insistiti. Cerca aria.
Le restituisce subito il bambino addosso. I due iniziano a esistere insieme. Mariah si avvolge intorno al suo piccolo. Joseph li osserva, avvicina alle braccia di lei il catino di legno. Un altro telo. Lei sta pulendo il piccolo che continua a strillare con la bocca che sembra d’uccellino. Le piccole mani tremano. Lei lo copre e se lo stringe. Joseph capisce che qualcosa si sta ricomponendo in lei. E che i due ora sono attaccati come nessuna delle cose che vivono attaccate al mondo, nessuna foglia al ramo, nessuna ala all’aria, nessun pianto alla notte. Sa che ora deve uscire fuori, qui c’è qualcosa di misterioso a cui nessuno può assistere.
Alcuni pastori sono in piedi. La stella sembra sospesa come un frutto cupo e colmo sopra il luogo dove la donna ha partorito in mezzo agli animali. Nei pensieri duri di quegli uomini si insinua una specie di meraviglia: non è nato un capretto o un mulo, ma un bambino. Che notte strana: vedono la stella, una insolita gloria per il cielo. Hanno sentito le grida della nascita, gli animali inquieti, una gloria per la terra... L’aria che trema per la luce della strana stella è come un mormorio terribile e grande: c’è gloria nel profondo dei cieli, un bambino nasce e dà pace a questa notte buia sulla terra.
Sono confusi, si avvicinano alla stalla.
Per la Legge un uomo non può accostarsi per quaranta giorni a una donna che ha partorito. Il tempo per purificarsi dalle cose di sangue. Ma lì non c’è nessuno, e il suo uomo si è avvicinato, non ci sono donne che possano portare il necessario per il piccolo. Notte strana: sembra che le leggi siano sospese, o finite dall’altra parte del cielo. Vedono che il padre è uscito sulla soglia della stalla. Ha la faccia stanca. «È nato», dice solo.
Gli uomini si sono assiepati vicino all’entrata. Non osano fare un passo avanti. Allungano il collo per guardare dentro e lanciano occhiate in alto. Allora anche Joseph alza lo sguardo verso la stella che pulsa come oro e sangue.
E prende quella luce negli occhi come uno felice, un pazzo, uno che ha sete. E che ora ha bisogno di forze.

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