Trionfo dell’amore di Petrarca

Trionfo dell’amore di Petrarca

Una bella comitiva

I

Per anni si è affaticato, ha provato a contorcere la sua ispirazione, quasi a tirarle il collo perché divenisse più alta, più cantante. E a vestir la sua poesia come una donna diversa da quella che è, incantevole e raffinata. Come certe ragazzine che a quindici anni ne voglian mostrare ventitre. Ha provato a renderla di più forte corporatura, di presenza più incisiva truccandola pesantemente, mettendole addosso taffetani e foulard vistosi. Ma quella ragazza delicata e elegante così mascherata e imbellettata è risultata grottesca. Se la osservi, in queste pagine che accompagnarono per anni senza mai terminare la vita del suo inventore, vedi balenare a tratti il suo sguardo, riconosci sotto i velluti e le pieghe di versi spesso troppo gravi il passo elegantissimo, prodigioso. Ora che ci sta dinanzi, diciamo "no, non è lei".

Sta dunque quasi simpatico questo Petrarca che sotto il titolo di "Trionfi" iscrive la sua più violenta e rovinosa caduta. Lui che difficilmente sta "simpatico" – con quel che di professore, di impiegato, di erudito di corte, che lo oppone all'erratico Dante, poeta infernale e mistico, secondo poeta on the road dopo Omero – ecco, in questa opera dal titolo tecnico e però altisonante trova il suo quasi "simpatico" fallimento. E non si tratta solo di una sconfitta nel campo della poesia e della opera nel suo insieme. Questo tipo di "fallimento" già l'han notato molti seri studiosi e lettori, non senza una certa cupidigia in taluni casi. Come di chi vede la star fallire il colpo, il campione subire il knock-out. No, qui il fallimento è più radicale. Il crollo riguarda i moti primari che precedono il tentativo di questa opera, e da lì investe, come un incendio che si propaga dal centro chiuso di una foresta, i rami alti, i fusti, il fogliame, tutto insieme il tentativo di canto. L'errore magnifico che infatti ci consegna questa opera non sta nella carenza di struttura, di forza creatrice e motrice di terzine, di tessitura tra metafore e narrazione. Tali difetti sono conseguenti a un fallimento, a un trionfale smacco, un buco, che si trova là profondissimo nella stessa concezione e, se così si può dire, in una visione che precede l'opera.

Il fallimento del pur moralissimo Trionfo si deve, paradossalmente, a un problema morale fondamentale, un problema di umiltà. Il poeta che volle trionfare sulla propria poesia invece che obbedirle, franò proprio sui Trionfi che scriveva.

II

Nel Trionfo dell'amore la visione manca, si sfarina, si smonta. Per deficit di umiltà. Per letterale poetica deficienza. E in questo fallimento sta, lo dico chiaro, per noi che osiamo criticarlo, un grande monito: quella deficienza, quella mancanza di umiltà colpì un grandissimo, un eccelso come Petrarca, figuriamoci allora quanto sono più ridicole e continuate le mancanze nostre. Ma di che "s-trionfo" sto parlando dunque?

Non si tratta nel suo caso solo di quella mancanza di umiltà artistica – ovvero cercare il pareggio con Dante se non il sorpasso – che è tra i motivi dell'opera. È una umiltà più profonda che qui Petrarca tradisce, e lo fa con il tipico orgoglio del letterato. Infatti un poeta, in ogni epoca si trovi, è chiamato a un gesto che lo rende differente dal letterato, un gesto supremo e libero di umiltà: riconoscere la propria voce. Che è quella e non un'altra. Può darsi addirittura che tale voce nemmeno gli piaccia troppo. O che, come in questo caso, non sia adatta per imitare ed eguagliare la voce d'un altro poeta che sembra più rappresentativo o importante. Inchiodato alla propria voce, un poeta può inventare di tutto, ma non la voce medesima. In molti, anche in anni recenti, non hanno accettato l'umiliazione di non avere la voce che volevano e perciò si sono persi dietro al poeta o alla poetessa che desideravano essere. Ma il poeta deve accettare la propria voce con una umiltà spesso mortificante. E lavorarla perché emerga nella sua natura unica. Occorre una umiltà fertile. La voce che si ha in dote è il primo segno di una "vocazione". Senza l'umiltà di accettarla ci si avventura in opere stridule, in costruzioni artificiose.

III

Va in scena il Trionfo dell'Amore dinanzi al viaggiatore: dev'essere un gran corteo, si pensa se non si tiene a mente il significato storico del termine. La storia ci racconta i trionfi di re e imperatori, di sanguinari condottieri vittoriosi che portavano schiavi e tesori in città. Noi, invece, quasi ci si aspetta una festa. Una squadra che alza una coppa. Una bella comitiva. Per ritrarre il Trionfo d'Amore, Petrarca oltre a spudorate risonanze dantesche, pesca da Ovidio, da Omero, dalla Bibbia. Nell'intenzione del poeta la comitiva è una fila di dominati da Amor, che per i latini era la passione. Lui, Amore, si erge come loro condanna, nel senso che afferra e priva di dignità e di vera gloria agli occhi dello scriba una schiera di uomini e donne, più o meno noti. Da Giove a oscuri poeti come Onesto di Bologna: il catalogo è infinito. Ci sono pure Dante e Beatrice, non solo Paolo e Francesca, nonché Virgilio, rovinato dall'amore per qualche giovinetto. Ma il trionfo dell'amore su tutti questi diviene agli occhi del lettore contemporaneo uno strano trionfo rovesciato. Più che al compatimento del poeta verso questi, secondo lui, disgraziati, il lettore si trova legato a una curiosità rianimata verso ciascuno di costoro, verso la loro storia d'amore bizzarra o dolente, misteriosa o famosa. Così che ognuno dei catalogati e nominati, portato in rilievo dalle parole del poeta, più che lontano e "perduto", diviene più vicino e compagno. Il poeta si sa, vorrebbe qui mettere in fila e svergognare tutta la comitiva di dei, semidei, eroi, personaggi biblici, omerici, latini, barbari etc, raccontandoci o meglio accennando i fatti e fattacci loro – come uno che parla a chi sa e dunque intende. Il lettore contemporaneo, invece, che poco intende di quelle storie di dei, semidei, letterati e personaggi biblici, imperatori romani e barbari, corre dunque alle note e scopre un sacco di storie d'amore incredibili. Così facendo, il censore innamorato e poi pentito, obbedendo alla furia di tutti i censori pentiti (come accade a certi recensori ex poeti falliti) finisce per catalogare una così larga comitiva che al lettore sorge una domanda: possibile starne fuori? Possibile siano tutti, tutti così deplorevoli? In questo catalogo di vinti d'Amore è possibile forse districarsi e dire “no, non sono io? Non c'è posto per me?” Tipico dei moralisti, catalogare. Ma se tutti costoro sono preda del tremendissimo e primissimo difetto, d'aver ceduto a passione amorosa, non viene propriamente desiderio di restar fuori di questa comitiva! Una bella comitiva di re, regine, santi, conquistatori, eroi, grandi poeti, belle dame... Un posto, nel carro di cartapesta  non ci sarà negato no? Ci toccherà stare da soli, in disparte, con Laura e altre poche esangui creature? La visione petrarchesca dunque quasi implode e cade su se stessa per eccesso. Si sgonfia il gran soufflé del moralismo del poeta. Che nel fare questo pasticcio, nel morirci dentro, come si accennava innanzi, mostra finalmente il suo volto simpatico, non dico umano perché umano e vasto Petrarca è sempre. Ma è come se ora un bambino un po' supponente ci fosse davanti con il giocattolo che ha provato a costruire che si è smontato – e lui è tra il riso e il pianto. Ecco, lo abbracceremmo. Perché non sa come fare. Ha provato a inventare questi faticosissimi trionfi, e il più lungo e uno dei meno riusciti è proprio questo dell'amore, gran catalogo o carro che si sfascia. Eppure lui ha provato a tenerlo su persino ricorrendo come nei versi 150-188 ad accenti di alto melodramma e toccante sincerità. Ma non sa come fare, e anche se prova a svenare il bianco braccio della sua ragazza lirica ne esce poco sangue epico, bianchissimo. I versi migliori anche qui, dove vorrebbe voce piena di canto, di rovina e invettiva restano invece certi accenni di mezzo sospiro, come quando si sofferma su Alcione e Ceice, mutati nei grandi uccelli che fanno "i lor nidi a' più soavi verni" o le sfumature di sconforto come quando ricorda Tommaso Caloria, amico di studi. Proprio allora, in quel punto, conclude che il "viver mortal" che così ci "aggrada" è solo "sogno di infermi e fola di romanzi". Qui troviamo non solo anticipata una formula tornerà spesso in varie opere, ad esempio in Shakespeare, ma una visione dell'esistenza che salirà più in alto di molta letteratura moderna e contemporanea. La letteratura svelerebbe il fatto che la vita in fondo è una sorta di creazione letteraria, un libro inventato a caso, favola senza senso. E qui, a mio avviso, sta la chiave di volta del più grande anti-trionfo di questo grande letterato che volle essere il poeta che non era.

Non paia strano quel che pronuncio. Ma qui – e non a caso in uno scritto sull'amore – si annida il motivo per cui la letteratura che discende dal Petrarca (padre mite e dispotico della letteratura europea, come lo chiama Mario Luzi) ha decretato la propria inessenzialità nel mondo.

IV

Ad altri testi e studiosi rimando per provare a districarsi nel grande nodo che la questione d'amore pone al mondo antico, medievale e poi al moderno e al nostro. Dico solo con sintesi quasi sprezzante che l'amore privato del suo fuoco di conoscenza si riduce a cenere e a nevrosi. Il legame tra amore e conoscenza non è un'invenzione della retorica o della religione o della filosofia. È nella natura dell'esperienza d'amore, in ogni sua versione da Eros ad Agape. Lo ha capito anche Bauman. La poesia, ha scritto O. Milosz, citato dal pronipote – Nobel per la letteratura –  Czeslaw Milosz, è "inseguimento appassionato del reale". Nella letteratura c'è un tentativo di conoscenza affettiva del mondo. La conoscenza come inseguimento affettivo è figura tra Eros/Agape e linguaggio che attraversa la sapienza antica dal Cantico dei cantici ad Agostino e Dante. È un problema che oggi – in molte forme e in una epoca di esplosione dei linguaggi e di possibilità espressive dei medium – torna a dominare la scena, che linguistica ed erotica è mai stata in questa misura, seppure in modo schizofrenico. Deprimere tale avventura, sentenziando per motivi di ordine morale (uno sconforto, un peccato o una mancanza, o una crisi d'epoca) che il vivere mortale è "un sogno di infermi" o una crescente pietrificazione (Calvino, nelle "Lezioni americane", petrarchissime) significa svuotare di reale tensione il gesto poetico (dell'autore e del lettore). E distinguere definitivamente l'avventura dell'arte dall'avventura del vero. Significa ridurre l'eros da tensione costituiva di ricerca  a "tema" di intrattenimento mediante il linguaggio. Lo specifico proprio della letteratura, ovvero la voce di una conoscenza affettiva del mondo, in tale visione pregiudizialmente "negativa" diviene una corsa a cui vengono tagliati i tendini, di cui viene derisa la scommessa,  depotenziata a priori. Se è già deciso (da parte di chi?) che la vita mortale è un sogno di follia, o una favola da romanzi, perché affannarsi con parole per mettere a fuoco la vita? Perché cercare nel verso una conoscenza che non può esser in altro modo espressa? Chi si impegnerebbe a giocare una partita di cui si presume di conoscere già il (negativo) risultato finale? Per curiosità di intellettuali? Per intrattenimento di intorpiditi? Per fare una predica? O gingillo da signore? Se non c'è traguardo da scorprire, perché correre? E infatti la letteratura sotto il segno di Petrarca non corre, non si tende. Piuttosto si inabissa, ma spesso si perde in un arzigògolo e provvede a intorbidire le acque della pozzanghera in cui tramesta per farla sembrar profonda...

Eppure la bella comitiva messa in scena nel Trionfo petrarchesco sembra convocata, al di là delle intenzioni dell'autore, per mostrare come la vita invece sia un'avventura – complicata e sorprendente, certo – ma perciò stesso da affrontare con una passione aperta e un cuore acceso. La benzina di tale accensione sta proprio nell'amore, e specie in quella sua caratteristica che Pascal indicava: nell'esser "sempre nascente". O se vogliamo usare la parola petrarchesca rivoltata "contro" il suo autore, sempre trionfante, capace di radunare una bella comitiva.

Tratto dal volume "Sei poeti per i Trionfi" a cura della Biblioteca cantonale di Lugano e Mauro Valsangiacomo di "Allachiarafonte edizioni", in occasione della ristampa anastatica di un incunabolo petrarchesco.

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