Passione per la realtà e senso religioso in Pier Paolo Pasolini
Non è pensabile che si possa stendere una relazione su Pasolini rimanendo all’interno di quell’atteggiamento che troppo spesso ricorre, non solo in ambito accademico, e che potremmo definire, mutuando un termine dal ciclismo su pista, surplace. Vale a dire quella disposizione che facilmente s’insinua nell’animus del critico per cui l’osservazione che compie sul suo oggetto (il quale sempre somiglia a un avversario che può sfuggire da un momento all’altro) diviene come un atto immobile, una sospensione, una luce ferma, quasi da tavolo chirurgico. Da Rivista Testo XXIII 1997
Edimár, dagli occhi di cielo
A vent’anni dalla morte, ripubblichiamo la storia del ragazzo cresciuto tra le bande di Brasilia, dove la vita non valeva niente. E della sua scoperta, nell’incontro con la novità promessa dai cristiani (da Tracce, settembre 1994). Articolo di Davide Rondoni del 22 luglio 2014 su Comunione e liberazione. LEGGILO QUI.
El poeta traductor: Davide Rondoni
El presente trabajo de Alessandra Pelizzaro se propone examinar el pensamiento sobre la traducción poética de Davide Rondoni, uno de los mayores poetas italianos contemporáneos, también autor de teatro y traductor. El artículo toma en consideración y compara los estudios específicos sobre el tema de Benjamin, Derrida y Ricoeur empezando desde el análisis del texto traducible por excelencia, es decir, la Sagrada Escritura, llegando a la conclusión que el acto de traducir se hace cargo de dar voz a las huellas ancestrales perdidas de los tiempos de Babel para llevar a cabo la exigencia de la traducción como supervivencia. En conclusión, a través de algunos escritos del poeta, la traducción se manifiesta, para Rondoni, como un encuentro, una relación que surge por la misma tensión que anima la poesía y que prevé el riesgo pero también la humildad de saber percibir la voz del poeta, una obediencia que a lo largo permite al traductor convertirse en verdadero autor y superar el límite concreto y el misterio de las palabras para acoger y acercarse al otro en todo su ser y en primer lugar a través del lenguaje. Palabras-clave: Traducción. Poesía. Identidad. Supervivencia. Babel.
Viandanti sperduti. La preghiera alla Vergine
Matera, 10 settembre Introduzione: Buonasera a tutti, grazie per l’invito e grazie per quello che state facendo come segno positivo per la cultura italiana; perché il fatto che si sia riunita molta gente in un posto bello come Matera per leggere insieme Dante è un segno positivo per tutti! Avete voluto scrivere “lectio magistralis di Davide Rondoni” ma, evidentemente, io sono un poeta. Scrivo poesie, non ho lo standing – come direbbero gli inglesi – per questa lectio. I miei saranno appunti, da scrittore, da poeta, se volete. Avevo intenzione di fare alcune premesse poi leggere il testo di Dante. Perché questo bisogna fare, stare sul testo. La prima cosa: Dante è visionario: Uno dei motivi dell’attrazione che Dante continua ancora ad esercitare a dispetto di tutto – perché tanti sono gli elementi della sensibilità contemporanea che effettivamente ci allontano da Dante, dal suo tempo, dalla sua cultura – a tutti i livelli, anche i più giovani ne sono attratti, è il fatto che la sua voce abbia dentro una cosa che chi è vivo, chi non si è ancora addormentato, avverte. E cioè il senso del rischio. Dante è un uomo che inizia un viaggio perché percepisce dentro di sé un grande rischio, perché si accorge di aver sperimentato la vita come rischio, come cosa non scontata, come cosa in cui c’è l’eventualità di rischiare e di perdere. Qualsiasi uomo vivo avverte questa cosa perché la vita è un rischio e la materia di questo rischio è il senso stesso dell’esistenza. Dante inizia questo viaggio, dalla selva, perché riconosce di essere in una situazione di sperdutezza, di rischio; perché ha vissuto un’esperienza che noi tutti un po’ conosciamo, per questo parla un po’ a tutti, nonostante la distanza, perché lui ha vissuto l’esperienza di aver visto un miracolo, Beatrice: “cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare.” Una cosa meravigliosa, una cosa bellissima, ha visto questa cosa e poi l’ha persa. Poi lei è morta. E quindi Dante si trova nella situazione di uno che dice: “Beh, cos’è la vita, cos’è questa cosa, questo viaggio in cui mi è data una cosa, un miracolo, e poi mi viene tolto? Che cos’è?” Dante è mosso da questa domanda, domanda rischiosa. Vuole conoscere che cos’è questa esistenza in cui ha incontrato un miracolo, che per lui è Beatrice ma può essere tutto. Un bene grande, una madre, un figlio, un padre, che all’improvviso viene meno, va via. Dante è sperduto nella selva perché sta cercando una risposta a questa domanda. La selva è un grande topos dell’iniziazione, come sapete. Dante si trova in questa condizione perché ha vissuto questa grande esperienza di perdita. Tant’è vero che scrive quella frase che a me fa tremare i polsi ogni volta che ne parlo, la scrive al termine della Vita Nova – dove racconta questo fatto di aver incontrato e perso B.: “Io spero che Dio mi dia abbastanza giorni per scrivere di lei quello che nessuno ha mai scritto per nessuna”. Questo lo scrive perché capisce che tutta la sua vita sarà un grande tentativo di mettere a fuoco cosa è successo nell’incontro con B.; perché, scusate, cos’è la Divina Commedia? È un viaggio. Un viaggio che un uomo fa per arrivare fino in faccia a Dio, in fondo all’essere, alla vita, per vedere cosa c’è. Lo fa rivedendo tutto, rigiudicando tutto, la sua vita e la storia. Lo riguarda e lo rigiudica. Perché la vita se non la giudichi non diventa esperienza. Dante riguarda tutta la sua esistenza e la rigiudica. Perché attraverso questo viaggio fa diventare esperienza significativa la sua vita. Come fai ad andare fino in fondo alla vita? Puoi soltanto vivere intensamente il reale, per cercare di arrivare a capire cosa c’è in fondo. E questo Dante lo fa muovendosi lui, ma ce lo mostra. Sente di fare parte di un tutto e mentre si muove lui, a differenza di quello che sentiamo noi di questa epoca, sa che si muove tutto. Le costellazioni, le stelle, le stagioni, perché è un uomo che sente che tutto è in moto. Dante si sentiva parte di una grande scena, in cui c’è il sole, le stelle, i pianeti. E tutto si muove. Perché dico questo? Perché Dante è un poeta visionario, e cosa vuol dire, relativamente a Dante, avere una visione? Dante ha una strana elezione sicuramente, è un poeta, uno sciamano, un beato, un po’ tutto… Per avere una visione o hai fatto uso di sostanze allucinatorie – e sono visioni a vanvera – o, ed è il caso di Dante, guardi il mondo, vivi il mondo, come una scena. E sono visioni che introducono al vero, al livello più profondo del reale. E cosa vuol dire vivere il mondo come una scena? La parola scena la usa anche San Paolo, non a caso. Guardare il mondo come una scena è chiedersi cosa abbia a che fare una cosa con l’altra, come gli eventi siano collegati. Come quando sei a teatro e guardando quanto accade ti domandi, per quanto in segreto o implicitamente, come le cose che vedi siano misteriosamente legate. A volte – e sono i film più avvincenti – il senso della scena in cui si sono succedute cose, colpi di scena, cose tremende e cose meravigliose, si comprende all’ultimo momento, pur se intravisto per un attimo. Se non guardi il mondo come una scena non puoi avere la visione. Avere la visione non vuol dire spiegare il mondo con una formula. Vuol dire avere colto il senso, direzione, destino. Senso vuol dire anche qualcosa che riguarda il sentire… In Dante questo problema della visione è importantissimo. E la condizione della visione è guardare il mondo come una scena, anche misteriosa. Il punto dove volevo arrivare è questo: il viaggio di Dante è visionario. I critici ancora si accapigliano per definire se avviene in sogno, se è una visione, o solo una finzione, un racconto di visione. Noi non siamo più tanto abituati a vedere la vita …
A cosa serve la poesia?
Dalla Introduzione a “L’allodola e il fuoco” (La nave di Teseo, 2019) Un’allodola. Di fuoco. La poesia è quasi niente nell’aria del mondo. Aria che a volte ci pare gremita di parole che dominano, parole che corrono, di lamenti, di grida, di sospiri. Di trasmissioni vocali e di ogni altro genere. E poi di rumori, e di musica, troppe volte lei pure ridotta a rumore di fondo. A volte non hai l’impressione che l’aria sia troppo piena? Che sia esaurita, intendo. Che in questo posto si soffochi. Aria piena di spari, di gas di scarico, riflessi cangianti dai video, tagliata da vetrate di grattacieli e da propulsioni di motori a reazione. Aria piena di proteste o esultanze, a volte, o più spesso di imprecazioni. L’allodola di fuoco va, quasi invisibile, nell’aria. E certe volte accende le persone, passando sugli occhi e sulle labbra, sfiorando il cuore. Bucando la lingua, un piercing divino. Mi chiedono a cosa serva la poesia. E come tutti quelli che l’hanno conosciuta non so bene cosa dire. Fate un gioco: guardate la faccia di quelli a cui chiedete “ehi, scusa, cosa è la poesia? A cosa serve?” A meno che non si tratti di idioti tromboni, diventano come quelli che forse hanno visto un fantasma, o si stanno svegliando da un sogno. L’hanno vista in volto? Era lei? “Sì, devo averla vista, ma non sono sicuro…” Diventano come quelli che devono parlare della persona più importante della loro vita. Non trovano le parole. Anche a me capita così. È più di trent’anni che ne parlo. E non so cosa dire. Eppure le ho dedicato la vita, me l’ha presa. Allora dico piano: “Niente”. Niente. Splendore di questa parola. Suona vertiginosa quando indica il punto in cui manca ogni convenienza. Ogni economia. Niente scambio, niente in cambio di niente. Non si tratta di quel “niente” che pensano i filosofi nichilisti e saccenti, i quali immaginano con la loro piccola testa di sapere che tutto esiste per nessun motivo e nessun destino. E che pensano che di tutto la consistenza è nulla. Venivano derisi da Montale: “Con quale voluttà/ hanno smascherato il Nulla./ C’è stata un’eccezione però:/ le loro cattedre”. No, no, il niente che è la poesia non è di quel genere. I bambini e i mistici (e i poeti) sanno cosa è questo “niente” – quello dei pomeriggi dove non si fa nulla di importante ma si cresce, o che si sente dentro finché la mamma non ti abbraccia, quello che acceca per un istante la vista che ha visto tutto. Dante tace quando deve dire cosa ha veduto in fondo al suo viaggio nei regni della morte e della vita. Nientissimo “nada”. Quel che si fa largo nelle emozioni fragili. Lo conoscono, a volte, anche coloro che chiamiamo “i pazzi”. Il tutto visto di spalle. Stiamo parlando del punto della perfetta letizia, come diceva san Francesco? Dove non hai niente, niente, sei povero, niente a cui attaccarti, e potresti morire – se non la presenza che davvero ti allieta. La poesia riguarda tale “presentarsi”. Non il “presente!” gridato all’appello dal soldato o risposto di malavoglia dallo scolaro. È il “che bello che sei qui…” dell’innamorato. Sono pochi i punti dove si tocca lo splendore di questo genere di “niente” in una esistenza: alcuni amori veri, lo sguardo verso i propri figli, certi momenti in cui non si bara con Dio, e molto spesso – non sempre, purtroppo – il rapporto con il padre e con la madre. La poesia, allodola di fuoco, tiene vivo il “niente” nelle nostre vite troppo economiche, commerciali, fatte di scambi. Ci accende di quel niente. Ma la poesia è niente anche perché tutta l’Iliade non vale la vita di un bambino malato. Chi pensa che l’arte sia un idolo, una cosa di grande valore, che vada onorata più della esistenza sfortunata di un piccolo malnutrito in Ruanda, non ha capito nulla dell’arte. Rispetto alla vita – come diceva Rimbaud – la poesia è “merda”. “Merde pour la poesie!” – la frase esplode così, nella meravigliosa, tremenda sua forza e verità dentro “Una stagione all’inferno”. La poesia viene sempre “dopo” la vita. Chi invece la parifica, chi la antepone o chi, addirittura, crede che la poesia sia una specie di salvezza della vita e pensa così facendo di onorarla, in realtà la sfigura. Nientissimo niente, spiraglio. Ispirazione. Io negli scambi non sono capace. Li ho sempre persi, e anche con lei ho perso tutto. È un po’ truffatrice la poesia. Ma la guardi negli occhi e dici: per fortuna ti ho incontrato… Sono contento che sia andata così e comunque non poteva andare diversamente. L’allodola di fuoco a volte si ferma al centro degli occhi di un ragazzino. Potevo voltare la testa, certo. Non l’ho fatto. Questo libro non è una antologia. Non è nemmeno un vero e proprio libro di poesie. La poesia, del resto, non è mai stata una faccenda di libri. L’hanno fatta passare per una cosa di libri solo di recente, e hanno sbagliato. Lei infatti non ci sta. Con grave scorno di editori, professori e letterati, gente coi cuori poco accesi. I libri stanno cambiando, in buona parte svanendo, e sta cambiando il supporto con cui si passano le parole tra gli uomini. Ma la poesia no, non sta svanendo. I suoi libri si stanno trasformando in una specie di preziosi talismani, e intanto la sua voce corre per nuovi canali, e sempre per aria. Né Dante né Omero e nessun poeta fino a secoli recentissimi si è mai posto il problema dei libri di poesia. Esisteva la poesia, come esiste ancora, spesso recitata, mormorata, detta ad alta voce, e oggi replicata con mille tipi di diffusione, dalla radio a Internet. Parole e voci umane che nascono da momenti di esperienze personalissime, parole accese che sono in grado, a differenza di tantissimi altri tipi di parole, di essere significative per persone lontane nel tempo e nello spazio. L’allodola vola dove vuole. E come vuole.
La movimentata letizia di un poeta
Un padre e un maestro Mario Luzi è stato per me non un oggetto di studio, ma anzitutto un padre e un maestro nella poesia. E il mio punto di vista nel parlarne è segnato da un rapporto di più di vent’anni con una persona con la quale mi trovavo ogni settimana a discutere e a far leggere le mie poesie. Così, la prima fatica che devo fare – ma non voglio farla – è quella di sopprimere una sorta di groppo di gratitudine che viene prima di ogni altra considerazione. Perché a quest’uomo io sono grato: prima ancora di averlo letto e studiato, prima di tutto Mario Luzi è una persona alla quale sono grato. E credo che la gratitudine dovrebbe essere una spezia non assente anche nello studio della letteratura. Un critico che nessuno studia più, Pietro Mignosi, e che fu particolarmente polemico con «Il Frontespizio», sosteneva una visione molto bella: la critica letteraria o è come l’amicizia o è poco interessante. E davvero la critica letteraria, se non ha dentro un po’ di amicizia, si riduce a una chiacchera sterile. Vorrei concentrarmi su due delle tante cose che si potrebbero dire di Luzi. Prima di tutto, occorre smettere di parlare di Luzi come se parlassimo di un autore ermetico. Anche perché molti di coloro che hanno avuto dei rapporti diretti con Mario ricordano bene come Luzi, ogni volta che si parlava di ermetismo, chiedeva: «che cos’è?», come accade, per altro, a tutti coloro che vengono collocati dentro una definizione o una casella che riconoscono limitativa della propria opera. Vorrei riflettere su due aspetti che cercano di guardare alla presenza attuale e alla futura presenza di Mario Luzi. Il 2014 è stato un anno luziano, contrassegnato da tanti incontri a lui dedicati che era necessario e molto opportuno promuovere. E se ci sono moltissime persone legate alla sua opera, non è tanto per un passato, ma piuttosto è proprio per quanto di futuro quest’opera ci sta indicando. Il ruolo dell’uomo nella natura La prima cosa che voglio dirvi mi è venuta in mente qualche settimana fa, in un luogo che sembra non aver niente a che fare con la nostra riflessione. È il Cern di Ginevra, dove fisici di tutto il mondo studiano l’universo. Ero lì perché ero stato invitato, insieme ad altri poeti europei, per discutere con i fisici sul reale e sulla natura. E proprio in quel luogo, discutendo con i fisici, mi sono tornate in mente molte delle intuizioni di Luzi. Il quale è stato uno degli uomini più impegnati a riflettere adeguatamente, cioè poeticamente – ogni riflessione, per essere adeguata, deve essere poetica –, sul posto dell’uomo nella natura. E credo che forse nessun altro poeta, almeno della seconda metà del Novecento, abbia con altrettanta acribia guardato a questa questione. Perché se parliamo di umanesimo e di nuovo umanesimo, non dobbiamo parlare dell’uomo separato dal resto, ma andare a vedere qual è la sua posizione rispetto alla natura. Di fatto, Luzi ha riflettuto su questo per tanti anni, soprattutto negli ultimi anni, con un’insistenza che è risultata incomprensibile a molti tanto che una parte della critica italiana, militante e accademica, a un certo punto, ha perso il contatto con Luzi pensando che egli fosse andato troppo in là, mentre in realtà egli era precisamente dentro la nostra epoca, mentre i critici erano finiti da un’altra parte. Luzi stava riflettendo su un tema cruciale, che ci tocca a tutti i livelli della riflessione politica, morale, anche economica, per i risvolti che ha. Appunto: qual è il rapporto tra l’uomo e la natura? Ovvero, detto in maniera più semplice, ma non per questo banale: cos’è naturale, oggi, che cosa significa naturale? Forse non ci troviamo tutti di fronte e perfino dentro questo problema, a riguardo della nascita dell’uomo, la vita e la morte dell’uomo, le leggi in materia? Luzi era, prima di altri, intento a riflettere su queste cose: ho in mente, fra gli altri, il bellissimo testo sul seme e sul tema, in lui ricorrente, del germinare del vivente[1]. Di fatto, non siamo tutti qui oggi a chiederci che cos’è il vero germinare del vivente, quando inizia il vivente, a che punto possiamo sorprenderlo, dove lo possiamo manipolare, dove la nostra azione diventa naturale o innaturale? Ecco, Luzi era già lì prima di noi, era già lì addirittura prima di quest’epoca. Un andamento ossimorico In quel punto della riflessione, Luzi faceva fondamentalmente due cose. Prima di tutto, rifletteva poeticamente, vale a dire rifletteva con un’ampiezza di sguardo che riusciva a mettere insieme le cose. Al Cern di Ginevra è stato interessante discutere con gli scienziati che – per riassumere una realtà di fatto assai complessa –, avendo infine scoperto il bosone di Higgs, non sanno più cosa pensare. Avendo, infatti, terminato di trovare conferme per il modello teorico dell’universo standard, come lo chiamano, ora si stanno chiedendo verso dove dirigersi nell’indagare la realtà, dal momento che le ultime scoperte fatte non hanno diminuito il mistero, ma l’hanno aumentato. Da poco, in particolare, si è scoperto che il big bang che ha dato origine all’universo – e che Dante aveva, in qualche modo intuito, secoli prima, quando descriveva «legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna»[2] – non è un’esplosione come le altre, che ha un inizio e poi rallenta. Si è scoperto che l’esplosione generata dal big bang accelera. E ora ci si chiede: qual è la forza che spinge e produce l’accelerazione dell’universo? Forse l’antimateria, la dinamica generata dalla ipotetica super-simmetria? Gli scienziati, dunque, sono lì senza sapere che cosa fare, nel senso bello della parola. Mario Luzi è un poeta che ha colto esattamente il senso di questa posizione dell’uomo contemporaneo, il quale ha esperito fino in fondo certe strade della conoscenza e oggi deve come reinterrogarsi di nuovo. È una poesia piena di domande, quella di Luzi. Perché la domanda non è solamente un vezzo della mente aperta o una caratteristica dell’anima religiosa, se vogliamo dire …
“per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” del Novecento
“Poi nella cassa ti verranno a chiudere/ per sempre. No, per sempre/ sei animo della mia anima e la liberi./ Ora meglio la liberi/ che non sapesse il tuo sorriso vivo”. Ritengo quel verso di Ungaretti “per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” della poesia del ‘900. Nei versi dedicati alla morte del figlio Ninetto di nove anni, si incastona questa violentissima, e però urlante d’amore, inversione. Un “per sempre” che diviene un altro “per sempre”. Lui poeta del “sentimento del tempo” traversa il fuoco del rapporto tra presente ed eterno. E non lo fa per via filosofica o speculativa, ma aggredito dal dolore più grande possibile, la morte del figlio piccolo. E così si inchiava, si incendia questo verso, asciutto e quasi frastornante, contenuto nella poesia “Gridasti, soffoco”, come un chiodo di diamante e di lacrime. Ungaretti, “belva d’amore”, poeta e uomo inciso nella poesia e nella immaginazione del nostro paese, e intellettuale di natura europea, ci ha lasciato questo verso in controtempo assoluto nel Novecento, secolo di ogni riflessione sul tempo e sulla storia. Lui sapeva bene cosa fosse il dolore. Ci ha scritto un libro intero sopra, piangendo, per la morte del figlio Ninetto e del fratello. E però l’apice lo raggiunge in quella poesia che non volle nemmeno pubblicare in quel libro perché gli pareva esagerata. Ed esagerata è, quella poesia che finisce in un piovere attonito di stelle, per la realissima descrizione dello strazio, e per quel verso nodo, verso chiodo, quel verso dove si ricapitola la vita intera e l’intero universo che da imbuto dove pare doversi perdere persino il volto più caro diviene luogo di tracce luminose. Un “per sempre” che cambia direzione, che non imbocca il tunnel che pare obbligato della disperazione e dell’annientamento, ma quella della tremante e tesa visione di segni e frammenti di luci. Tutto questo, ripeto, mentre si contempla il dolore più inspiegabile e grande. E mi chiedo sempre, stupefatto e grato, da quale energia, da quale sterminato serbatoio di nostalgia del bene, da quale provatissima ed essenziale fede il poeta trae la invenzione di quel verso? Da quale segreto attaccamento alla vita, testimoniato fin dalle poesie di guerra e lungo tutto una vita appassionata di esistenza e famelica di bellezza e di conoscenza? Come se quel verso, quasi inumano nella forza che esprime, fosse la verifica più alta di una esistenza, del senso della “vita di un uomo” che mai cede, nutrito dalle linfe della letteratura più grande e della fede più semplice ritrovata nel tempo. Qui si esprime il big bang della forza poetica di Ungaretti, in questo rovesciamento del senso del destino comunemente inteso come dissipazione e perdita. Dissipazione a cui non si oppone, per virtù propria, la letteratura, nemmeno in quei tentativi di fermare in lettere d’oro il tempo del suo amato Petrarca. No, in questo verso grido e rovesciamento, agisce una energia che non viene dalle pur sublimi e incantate sapienze della letteratura e della poesia che Ungaretti frequentò e creò ai massimi livelli. Qui agisce una dismisura, una potenza di mistero. Come se quel “segreto” che lui stesso diceva esser la preda inseguita e mai raggiunta della poesia fosse emerso lì, in un punto, in un verso micidiale e memorabile. Un maestoso capodoglio tra le onde, o un riflesso negli occhi. Una doglia di parto dell’eterno. (Avvenire, 31 maggio 2020)
Ungaretti, scrittore scandaloso
Ungaretti è il vero scrittore scandaloso italiano. Non solo perché la sua vita, e secondo voci che si rincorrono negli ambienti letterari, anche la sua morte, è stata piena di veri scandali, ma perché scandaloso è il nucleo della sua forza artistica rispetto al tempo in cui si è espressa e ancora oggi. Scandalosa è la sua bellezza. Scandalosa è la esclusione dal Premio Nobel, dato ai suoi due “colleghi” Quasimodo e Montale, i quali furono giustamente riempiti di onori dalla cultura dominante, mentre Ungaretti brindava, si dice, con “Montale senatore, ma Ungaretti fa l’amore”. Scandaloso il suo leggere e interpretare fisicamente la poesia mentre i due “colleghi” la offrivano con stile da borbottio ministeriale o sussiego da avvocaticchio di provincia. Scandalosa la sua quasi petulante ammirazione per Mussolini, appassionata per l’uomo e invece confusa, abborraciata sul piano politico – e soprattutto utile per uscire dalla fame o a cercar di campare facendo pigramente lavori burocratici. Scandalosa al punto di negargli quel Nobel che meritava e che attese fino alla fine, e che, secondo le dichiarazioni recenti della Accademia di Svezia, travolta infine da scandali e attribuzioni dubbie, fu negato per motivi politici (la prefazione di Mussolini del ’22) mentre ad altri scrittori fiancheggiatori di regimi totalitari comunisti non mancò. Scandalosa la sua visione cosmopolita, scandalosa la sua fame d’amore e di corteggiatore, scandalosa la sua posizione sul ’68, forse più estrema di quella di Pasolini. Scandalosa la sua adesione alla fede quando la cultura à la page se ne allontanava. E scandaloso quel suo modo di vivere, presentare, studiare la poesia come una montagna di senso, un viaggio nel deserto e nella foresta, una passione senza fondo, una nostalgia accesa, non una faccenduola da filologi e professorini. E pur che professore è stato Ungaretti! In Italia e in Brasile, quel suo affascinante perdersi e ritrovarsi in letture e divagazioni che i suoi allievi han fatto in tempo a raccontarmi. Una mole impressionante di studi, di letture, di attività letteraria in tutto il mondo, una lucidità feroce nell’investigare Leopardi, Petrarca, il suo preferito Jacopone. E poi scandaloso nell’aver della poesia una concezione così vasta, religiosa e non stilistica, così libera e profonda da poterla ribadire senza infingimenti dinanzi agli scrittori sovietici del realismo materialista e da riuscire ad accogliere e accompagnarsi alle diverse correnti, dalla Beat Generation ai poeti cantanti brasiliani, dal dialogo con Pasolini, fino al fiuto di intuire in Zanzotto un poeta di vaglia e di reale avanguardia rispetto ad altri che si proponevano come tali. E libero nell’aver dell’arte – indagata e amata nei rapporti con Fazzini e Scipione e altri – una visione attenta alle forze innovatrici, come vide in Burri. Ungaretti porta lo scandalo di un uomo antico e fanciullo nella contemporaneità. Nel ’69 guarda la luna conquistata e pur affascinato da quel prodigio lo legge all’interno del perpetuo desiderio umano. Scandaloso infine nel leggere il dolore che lo investe dai tempi della Guerra fino alla terribile morte del figlioletto di nove anni, come condizione ma non prigione dell’essere umano, nomade e in viaggio verso una “terra promessa”. Scandaloso, cioè vivo. (Quotidiano Nazionale, 1 giugno 2020)