Categoria: Saggi e interventi

As minhas Leituras de Luigi Giussani

As minhas Leituras de Luigi Giussani

Apri il documento Apresentação do Livro do Mês As Minhas Leituras de Luigi Giussani 16 de abril 2020 Com Davide Rondoni, poeta, escritor e dramaturgo italiano, autor de vários prefácios de livros de don Giussani Mª Rosário Lupi Bello (MRLB) O que nos traz a todos aqui hoje é a vontade de sermos ajudados à leitura do livro do mês As Minhas Leituras, que é um livro muito particular sobre o valor da leitura, no qual encontramos o elenco dos autores preferidos por don Luigi Giussani. Aprender a compreendê-los, a lê-los melhor, é uma forma de nos identificarmos com o olhar, com a sensibilidade e com o coração de don Giussani. Convidámos o nosso amigo Davide Rondoni, que é poeta, escritor, dramaturgo, tradutor, e que prefaciou alguns livros de Giussani e de outros grandes autores; conheceu pessoalmente don Giussani e conversou com ele sobre literatura, a vida, a arte. Sendo poeta, Davide Rondoni é um homem que trabalha com as palavras, e que pode, por isso, ajudar-nos a penetrar no valor que as palavras tinham para don Giussani, um valor que, mais do que literário em sentido estrito, era poético – como ele nos irá explicar. Agradecemos-lhe muito a sua presença, que é um gesto de amizade para connosco. A educação que recebemos do carisma de don Giussani está cheia de referências a autores literários e a outros artistas. De onde vinha, para Giussani, este interesse “estético” pela literatura, a arte, a poesia? Trata-se de um método educativo, ou de algo mais profundo? Davide Rondoni Da parte de Giussani não é tanto o interesse estético nem o amor à literatura. Ou melhor, o interesse estético e o amor à literatura vêm porque ele encontrou estas vozes destes autores. Ou seja, encontrou a voz de homens que fizeram crescer a sua humanidade. A vida é um risco, e quando se arrisca é preciso confiar-se aos autores. Giussani fala muitas vezes também de Dante. A Divina Comédia começa com um homem que está perdido na selva. Porque a vida é uma selva, não é um lugar claro. Dante conta que enquanto está na selva vê uma figura não muito clara, não muito precisa, mas em que ele acaba por reconhecer Virgílio, um grande autor. E então, para a sua viagem na selva, confia-se a Virgílio. Na vida, podemos errar em muitas coisas. Podemos errar no nosso dinheiro, às vezes até podemos perder o rosto, mas não podemos enganar-nos nos autores, até porque os autores ou os escolhes ou são-te impostos pelo poder. E don Giussani fez um gesto de generosidade, disse: “estes são os autores que me fizeram crescer. Desafio a vossa humanidade a confrontar-se com eles”. Neste sentido, é uma partilha de don Giussani que faz parte de um método educativo, porque sem autores não há educação.

Trionfo dell’amore di Petrarca

Trionfo dell’amore di Petrarca

Una bella comitiva I Per anni si è affaticato, ha provato a contorcere la sua ispirazione, quasi a tirarle il collo perché divenisse più alta, più cantante. E a vestir la sua poesia come una donna diversa da quella che è, incantevole e raffinata. Come certe ragazzine che a quindici anni ne voglian mostrare ventitre. Ha provato a renderla di più forte corporatura, di presenza più incisiva truccandola pesantemente, mettendole addosso taffetani e foulard vistosi. Ma quella ragazza delicata e elegante così mascherata e imbellettata è risultata grottesca. Se la osservi, in queste pagine che accompagnarono per anni senza mai terminare la vita del suo inventore, vedi balenare a tratti il suo sguardo, riconosci sotto i velluti e le pieghe di versi spesso troppo gravi il passo elegantissimo, prodigioso. Ora che ci sta dinanzi, diciamo “no, non è lei”. Sta dunque quasi simpatico questo Petrarca che sotto il titolo di “Trionfi” iscrive la sua più violenta e rovinosa caduta. Lui che difficilmente sta “simpatico” – con quel che di professore, di impiegato, di erudito di corte, che lo oppone all’erratico Dante, poeta infernale e mistico, secondo poeta on the road dopo Omero – ecco, in questa opera dal titolo tecnico e però altisonante trova il suo quasi “simpatico” fallimento. E non si tratta solo di una sconfitta nel campo della poesia e della opera nel suo insieme. Questo tipo di “fallimento” già l’han notato molti seri studiosi e lettori, non senza una certa cupidigia in taluni casi. Come di chi vede la star fallire il colpo, il campione subire il knock-out. No, qui il fallimento è più radicale. Il crollo riguarda i moti primari che precedono il tentativo di questa opera, e da lì investe, come un incendio che si propaga dal centro chiuso di una foresta, i rami alti, i fusti, il fogliame, tutto insieme il tentativo di canto. L’errore magnifico che infatti ci consegna questa opera non sta nella carenza di struttura, di forza creatrice e motrice di terzine, di tessitura tra metafore e narrazione. Tali difetti sono conseguenti a un fallimento, a un trionfale smacco, un buco, che si trova là profondissimo nella stessa concezione e, se così si può dire, in una visione che precede l’opera. Il fallimento del pur moralissimo Trionfo si deve, paradossalmente, a un problema morale fondamentale, un problema di umiltà. Il poeta che volle trionfare sulla propria poesia invece che obbedirle, franò proprio sui Trionfi che scriveva. II Nel Trionfo dell’amore la visione manca, si sfarina, si smonta. Per deficit di umiltà. Per letterale poetica deficienza. E in questo fallimento sta, lo dico chiaro, per noi che osiamo criticarlo, un grande monito: quella deficienza, quella mancanza di umiltà colpì un grandissimo, un eccelso come Petrarca, figuriamoci allora quanto sono più ridicole e continuate le mancanze nostre. Ma di che “s-trionfo” sto parlando dunque? Non si tratta nel suo caso solo di quella mancanza di umiltà artistica – ovvero cercare il pareggio con Dante se non il sorpasso – che è tra i motivi dell’opera. È una umiltà più profonda che qui Petrarca tradisce, e lo fa con il tipico orgoglio del letterato. Infatti un poeta, in ogni epoca si trovi, è chiamato a un gesto che lo rende differente dal letterato, un gesto supremo e libero di umiltà: riconoscere la propria voce. Che è quella e non un’altra. Può darsi addirittura che tale voce nemmeno gli piaccia troppo. O che, come in questo caso, non sia adatta per imitare ed eguagliare la voce d’un altro poeta che sembra più rappresentativo o importante. Inchiodato alla propria voce, un poeta può inventare di tutto, ma non la voce medesima. In molti, anche in anni recenti, non hanno accettato l’umiliazione di non avere la voce che volevano e perciò si sono persi dietro al poeta o alla poetessa che desideravano essere. Ma il poeta deve accettare la propria voce con una umiltà spesso mortificante. E lavorarla perché emerga nella sua natura unica. Occorre una umiltà fertile. La voce che si ha in dote è il primo segno di una “vocazione”. Senza l’umiltà di accettarla ci si avventura in opere stridule, in costruzioni artificiose. III Va in scena il Trionfo dell’Amore dinanzi al viaggiatore: dev’essere un gran corteo, si pensa se non si tiene a mente il significato storico del termine. La storia ci racconta i trionfi di re e imperatori, di sanguinari condottieri vittoriosi che portavano schiavi e tesori in città. Noi, invece, quasi ci si aspetta una festa. Una squadra che alza una coppa. Una bella comitiva. Per ritrarre il Trionfo d’Amore, Petrarca oltre a spudorate risonanze dantesche, pesca da Ovidio, da Omero, dalla Bibbia. Nell’intenzione del poeta la comitiva è una fila di dominati da Amor, che per i latini era la passione. Lui, Amore, si erge come loro condanna, nel senso che afferra e priva di dignità e di vera gloria agli occhi dello scriba una schiera di uomini e donne, più o meno noti. Da Giove a oscuri poeti come Onesto di Bologna: il catalogo è infinito. Ci sono pure Dante e Beatrice, non solo Paolo e Francesca, nonché Virgilio, rovinato dall’amore per qualche giovinetto. Ma il trionfo dell’amore su tutti questi diviene agli occhi del lettore contemporaneo uno strano trionfo rovesciato. Più che al compatimento del poeta verso questi, secondo lui, disgraziati, il lettore si trova legato a una curiosità rianimata verso ciascuno di costoro, verso la loro storia d’amore bizzarra o dolente, misteriosa o famosa. Così che ognuno dei catalogati e nominati, portato in rilievo dalle parole del poeta, più che lontano e “perduto”, diviene più vicino e compagno. Il poeta si sa, vorrebbe qui mettere in fila e svergognare tutta la comitiva di dei, semidei, eroi, personaggi biblici, omerici, latini, barbari etc, raccontandoci o meglio accennando i fatti e fattacci loro – come uno che parla a chi sa e dunque intende. Il lettore contemporaneo, invece, che poco intende di quelle storie di dei, semidei, letterati e personaggi biblici, imperatori romani e barbari, corre dunque alle note …

Quattro idee non babbee per votare alle Europee

Quattro idee non babbee per votare alle Europee

Documento dell’associazione Amici di Marzo Il popolo non è solo un “No” Da molti anni, in Italia e in altri grandi paesi del mondo, è in atto un processo contrastante. Da un lato le élite che vogliono comandare senza la faticosa mediazione delle politiche nazionali e dei corpi intermedi hanno ovunque intentato grazie a media e magistratura processi alla classe politica. L’hanno screditata, spesso ma non sempre con buone ragioni, e additata agli occhi dei popoli come causa di ogni corruzione e male. Da noi nel 1992 pochissimi, tra cui don Giussani, dicevano che non sarebbe venuto del buono da tutto questo. Il termine “casta” coniato in Italia dal giornale delle élite economiche e culturali è stato usato per colpire una gran parte della classe politica. Quel malcontento popolare è montato ed espresso in vario modo. Ma le sue radici vengono da lontano, da certe false promesse non mantenibili, come vide già De Toqueville nel 1840, su cui si fonda la democrazia liberale, e la sua nuova versione chiamata globalizzazione. La promessa della “felice autonomia dell’individuo” si è rivelata in molti casi crisi e schiavitù economica di persone e popoli, creando una specie di cittadino “fanciullo” in balia a scontento e idee confuse. Molto tempo s’è perso, energie smarrite, occasioni sprecate, mezza Italia svenduta. Ma ora, insorgendo nuovi leader, nuovi problemi e nuovi media, quel malcontento si è coalizzato a volte in modo brusco contro le stesse élite che pensavano – dopo averlo aizzato – di guidarlo e che ora lo bollano come “populismo”. Il problema riguarda tutte le istituzioni, Chiesa compresa. Il termine populismo è ambiguo. Ogni leader, politico o religioso, ha un lato “populista”, cioè rischia di dare messaggi semplificati e indirizzati dal consenso. Continuare a dare del popolo una idea solo protestataria, è una menzogna comoda per le élite che vogliono in pochi governare molto e campare su falsi miti. Ridurre il popolo a sudditi che protestano o si intrattengono e campicchiano sotto il balcone del re è un sogno delle oligarchie di sempre. Invece sappiamo (perché lo vediamo) che nel nostro popolo ci sono forze costruttrici, creatrici di legami e che affrontano problemi piccoli ed enormi. A questa risorsa la politica deve dare più spazio, voce e strumenti. Passare da una politica screditata a una politica di stampo veterostatalista che vuole occuparsi di tutto sarebbe un disastro. Non di sola economia… Agitata come la questione più rilevante per cui restare entro la UE, l’economia si rivelerebbe, dinanzi alla alleanza Russia-Cina, alla Brexit, alla forza Usa, forse il primo buon motivo per allontanarsene. L’Europa deve andare oltre l’attuale UE, diventare come già indicava Giovanni Paolo II una terra di forti identità “dall’Atlantico agli Urali”, se no è un debole fantoccio bancario. Se il problema è attaccarsi a un carro che tira, visto depressione demografica, sperequazioni nord sud etc, forse meglio attaccarsi ad altri. Il modello di welfare protettivo ha valori e vantaggi, ma non ha impedito l’invecchiamento del continente. L’economia italiana ha crepe, specie in alcuni territori, ma è tutt’altro che morente. I modi per farla camminare ci sono. Possiamo dare un contributo, se non è troppo tardi, a una economia europea ispirata a una libertà temperata. Più possibilità di iniziativa, fuori da troppi vincoli fiscali e burocratici, e attenzione ai più deboli. Ma non si deve dimenticare che la perdita di vitalità economica non è mai dipendente da cause interne all’economia. E che separare l’economia e usarla come unico metro per valutare una società è fuorviante. Identità, il “problemone” tra gender e sagre di paese La risposta più adeguata al problema dell’identità è la partita aperta nella cultura e nella società europea da oltre quattrocento anni: dal Cogito ergo sum (penso e perciò io sono) di Cartesio alla domanda suprema di Leopardi alla luna “e io che sono?” e via via fino alle disperate visioni dell’ “oltreuomo” di Nietzsche e alle presunzioni di “autodeterminarsi” a seconda di desideri che divengono diritti, persino a costo di manipolazione genetiche e di pratiche di affitto di corpi altrui. Tanto più in Europa di fatto si nega – negli statuti e nella cultura dominante – la dimensione religiosa della identità umana, secondo cui il mio io e il suo valore intangibile sono fondati nel rapporto con l’infinito di un Dio creatore, tanto più va in scena la triste fiera delle mille identità possibili. Dove tutto può essere chiamato identità (dalle tendenze sessuali, al nazionalismo, ai gusti musicali) si fa largo l’ipocrisia del politically correct, e si prepara lo scontro. Non importa se per affermare mille identità occorre da un lato violentare dati di realtà, diritti di più deboli, censurare evidenti contraddizioni, o dall’altro risultare anacronisti e rifugiarsi nel passato. Si grida ovunque “identità!” e intanto non a caso si assiste a una crescita di fenomeni di ansia, con riflessi sociali evidenti. Nessuna identità parziale è adeguata all’io, che soffre in vario modo sotto maschere soffocanti. L’Europa esiste in quanto culla e difesa del valore infinito della persona umana, centro del messaggio cristiano, contro ogni tipo di fondamentalismo politico, economico, teologico o tecnocratico. Senza rinnovata identità religiosa laicamente espressa L’Europa diviene solo una locanda secondaria, peraltro incapace di evitare guerre entro i suoi territori o ai confini (dalla ex-Jugoslavia alla ex-Libia). UE ovvero Urgenza Educativa In questi anni, abbiamo avuto ingenti interventi in campo educativo della Unione Europea, orientati a favorire equiparazioni di standard e scambi internazionali. Dal punto di vista del metodo e dei contenuti educativi, non si sono avuti passi in avanti verso una maggiore libertà di educazione o alla educazione del gusto dei giovani, ma si è assistito al dominio espansivo dell’abilitazione tecnologica e del relativismo antropologico. Le scuole italiane ad esempio, sempre in debito, hanno investito milioni di euro in lavagne tecnologiche inutili specie alle Medie e Superiori. La conseguenza è una crescita della omologazione culturale, favorita dal pensiero unico politically correct vigente nei colossi dell’intrattenimento e che detengono i social. Occorre cambiare passo. Che i popoli europei ritrovino, in un grande sforzo educativo di nuove …

Lo sbarco di Pasolini negli Usa

Lo sbarco di Pasolini negli Usa

Chi sa se lo sbarco di Pasolini negli Usa – e il nuovo film in uscita in Italia – permetteranno di cogliere e scoprire il nocciolo duraturo del suo immenso lavoro e della sua defatigante, devastata arte? Di certo Pasolini seppe e volle essere anche un clichè, e lo è ridiventato mille e mille volte. Una studiosa di Pasolini ora all’Università di Calgary, Francesca Cadel, mi portò un interessante libro su Pasolini e la moda. L’artista è stato trasformato in icona per idee spesso opposte e confuse che non hanno però nulla a che fare con la sua radicale e rivendicata capacità di contraddirsi, confessata davanti alle “Ceneri di Gramsci”. La sua umana e intellettuale contraddizione si nutriva di una tragedia interamente patita, non in una mancanza di lucidità. Quella che, ad esempio, ha spinto qualcuno ad affiancarlo alla Beat Generation in campo poetico o addirittura a usarlo come “sfondo” in prima serata Rai durante un minuetto patetico tra Celentano e Patty Smith. È un grande poeta ed è perciò un antropologo tragico come può esserlo un poeta, cioè per un motivo personale, non per “cultura”. Amava nell’umano ciò che era irraggiungibile o quel che finiva per deluderlo – come racconta a proposito dei suoi primordi poetici e come accade nelle sue prove finali. Amò con “disperata vitalità” finchè – come scrive lucido Gianni Scalia – con il tempo e l’età venne meno la vitalità e rimase solo la disperazione. Arbasino durante un festival letterario la scorsa estate affermava tranquillamente: sapevamo tutti che la notte mentre si era a cena spariva dietro ai ragazzini. La Morante gli faceva le battutine: vai presto che se no vanno a letto… Un pedofilo? Cosa facciamo dunque, aggiungo io, smettiamo di leggerlo e insegnarlo per questo? Oppure censuriamo? Una tragedia personale. E per tutti. Accusa la nostra epoca di diventare il regno della “astrazione” e della “omologazione”. Le sue parole oggi risultano profetiche in anni di perdita di senso del reale (la realtà è il mio idolo, diceva) in favore di astrazioni, virtualità, e soprattutto nichilismo che riduce ogni frammento di realtà a frammento di discorso. Il suo pensiero fu tragico anche perché sapeva che alla omologazione e alla astrazione che aveva visto avanzare avrebbe contribuito proprio la parte politica e culturale a cui sentiva di appartenere. Il suo intervento mai pronunciato al congresso radicale, il giorno dopo la sua morte, diceva: «Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo e i suoi chierici saranno chierici di sinistra». Una profezia lucidissima, azzeccata. In questa epoca di “totalitarismo” dei valori libertari, cosa griderebbe lui che considerò la vittoria del referendum sul divorzio una conquista borghese e non del popolo, e si schierò contro l’aborto. Nessuno più di me è avvisato dallo stesso Pasolini a non cercare la citazione giusta per tirarlo da qualche parte, e infatti lo lascio lì, crocefisso, come uno scandalo che non ci lascia tranquilli, nessuno escluso. Fu un antropologo-artista che radicava in un senso “sacro” del vivente la sua ricerca di realismo, in arte e in politica, l’amore per la gente, lo sguardo dolcissimo e duro, debitore dei maestri di pittura, la lingua dantesca struggente e febbrile. Pensava – confessa – di aver inventato la parola “ierofania”, manifestarsi del sacro, accorgendosi poi di averla trovata in Eliade, quell’autore che le direttrici culturali della Einaudi ispirate da Calvino e De Martino escludevano dai cataloghi. Pasolini andrebbe letto e riletto accanto a coloro che hanno visto l’eclissi e il manifestarsi del sacro come la scena drammatica profonda della nostra epoca. Su tale scena profonda seppe leggere le scene della diatriba culturale sessantottina nella impressionante durissima “Poesia della tradizione”: “oh sfortunata generazione / piangerai, ma di lacrime senza vita /perché forse / non saprai neanche riandare / a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto: /povera generazione calvinista come alle origini della borghesia / fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva / tu hai cercato salvezza nell’organizzazione / (che non può altro produrre che altra organizzazione) / e hai passato i giorni della gioventù / parlando il linguaggio della democrazia burocratica / non uscendo mai della ripetizione delle formule” o in quella celebre sui disordini di Valle Giulia. Non si trattava di dichiarazioni di schieramento politico, ma di visioni. Prevedeva un mondo che si affida all’organizzazione (si pensi alle nostre scuole…) facendo crescere solo altra abnorme organizzazione. E chi pensa che Pasolini possa aver dato fastidio politicamente, dovrà piegarsi all’evidenza che difficilmente in anni duri come i ’70 in Italia avrebbe ottenuto la tribuna del Corriere della Sera – come oggi, del resto – se fosse stato veramente scomodo all’establishment del potere reale in Italia. Un fustigatore dei partiti, allora come oggi può avere quelle tribune. Ma non è questa la partita che Pasolini stava giocando, non la principale. Va ricordato che per i democristiani di allora, come disse Andreotti rivelando da un lato l’inconsistenza culturale di una parte di storia democristiana ma svelando anche la vacuità di certe mitografie, Pasolini era solo un eccentrico scrittore che reclutava ragazzini (accusa per cui fu “processato” dal Pci) che ogni tanto scriveva sul Corsera. Come dire: non ci curavamo di lui. E fu un errore, impegnati come erano a tirare su una Italia in cui si doveva avere in ogni casa un frigorifero mentre cresceva il deserto nei cuori.

D’Annunzio illusionista dell’io

D’Annunzio illusionista dell’io

Tra seduzione e orrore, D’Annunzio è stato uno dei grandi tragici del Novecento. Ora che ci si appresta a ricordarne opere e figura – imprendibile figura – ci toccherà calare nuovamente nella sua gran fornace. Perché il modesto avvocaticchio abruzzese è tra coloro che espanse all’inverosimile il gusto un po’ retrò e collezionista, il tipico stile che troviamo in ogni studiolo avvocatesco che espone con qualche sussiego targhe e diplomi. Come dire: «Vede, io sono qualcuno, qualcosa». E lui espanse prodigiosamente questa necessità di dire: ecco, sono qualcosa. Con scrupolo e coraggio. Diventando – insieme e apparentemente all’opposto di Pascoli – l’interprete italiano di valore mondiale di quel movimento che si chiama decadentismo, una sigla sotto cui possiamo mettere da Rilke a Kafka, a Wilde. Si dovrà infine mettere Gabriel Musico al pari di quei geni. Non fu da meno. Solo una pigrizia malevola impedisce in Italia di riconoscerne la bruciante grandezza. E dunque occorre chiedersi: cosa decade in quel che chiamiamo “decadentismo”? Che cosa cede? Cosa si fa febbrile e debole? E si sfarina in noi, negli uomini e donne di quell’inizio di secolo che sono ancora sagoma su cui distende i suoi sterili miasmi molta della nostra cultura? Che cosa si fa fosforescente, decadendo da uno stato di sostanza a puro alone, riverbero? Ciò che decade come se si trovasse dopo una grande fatica o esaurimento è: il nucleo della persona. Quel che chiamiamo “io”. Che non a caso diventa negli stessi anni oggetto di studio, in un gioco di specchi che ancora ci turba. Ma appunto, lo si studia perché non lo si “capisce” più, non se ne è capaci. Svuotati. L’io, il punto di attracco della ragione e del cuore. Il fiato primario, la cosa assoluta. La Bibbia racconta la creazione dell’io come un passaggio di fiato dalla bocca di Dio a quella dell’uomo. Quasi un bacio. D’Annunzio è stato uno dei grandi interpreti del decadimento, del perdere il fiato. Lui non ha più bisogno, come Mallarmé, di tentare una specie di annullamento eroico e stilistico dell’io in un poema dove domini il caso. È già annullato. Chi non conosce D’Annunzio e si ferma alle sue doti di incantatore e di metteur en scene pensa che a decadere sia la “sensibilità”, insomma il “gusto”. Come se si trattasse di una specie di messa in scena, di cambiamento dell’arredo. Mentre invece – basta leggere davvero le poesie e seguendo Ezio Raimondi certe pagine del “Libro Segreto” – va in scena con tutte le maschere il grande cadere, il cedimento. Dal cocainomane rotto a tutti i vizi al devoto di san Francesco, dal politico d’azione al creatore di mitologici ritiri nella natura, dallo scopritore del capolavoro del “Compianto” di Niccolò dell’Arca all’amore per il kitsch, fino alle maschere più cangianti dell’ammiratore di Wagner, suo imitatore e infine – come mostra uno studio di Piero Buscaroli – critico come amante tradito, che non potendo eguagliare la vetta di quella germanica si butta sulla costa francese; in tutto questo e nel tanto altro che è D’Annunzio, c’è lo spasmo perpetuo di una affermazione tanto magniloquente quanto il vuoto che deve coprire. «Vede? Sono qualcuno, qualcosa». Fu un vortice in cui venivano inghiottite tutte le maschere, tutte le ultime “buone regole”, come in Pirandello, altro genio dell’epoca. La inconsistenza dell’io diventa l’imbuto in cui ogni cosa precipita – in modo soave, grazie alla mediazione dell’artista, meraviglioso becchino, incantevole sacerdote. Epoca che consacra una nuova maiuscola per l’Artista, dopo le variazioni sul tema del Divo rinascimentale e dell’Io Totale romantico. La maiuscola del Re del decadere, dello specialista dell’estenuazione. L’artista assicura che il vuoto lasciato dall’io sia avvertito in modo “patetico” (Pascoli) o in modo “teatrale” (D’Annunzio). Così che il decadimento, il farsi vuoto, la perdita dell’io sia sopportabile e come ogni autentica tragedia possa ottenere dai grandi artisti un risarcimento in preziosità. L’artisticità, dunque, proprio nell’epoca di cui D’Annunzio è Vate e sacerdote, arriva alla sua consacrazione massima. Si badi: l’artisticità, non l’arte, ovvero, se così si può dire, non l’opera in sé, ma il suo alone di “estraneità”, di tecnica misterica, di eccezione, di verità differente da quanto appare. E tanto più viene rivendicata la coincidenza tra arte e vita nell’artista tanto più egli si separa dalla società. D’Annunzio porta a compimento il tragico tragitto del decadimento dell’io che si esprime nel paradosso di una sua gloria museificata, teatro di un alone, degli apparati, delle protesi. Perché al centro è il vuoto, non c’è fiato. Per questo, in un crescendo fantastico e tremendo, è necessaria la trasformazione dell’artista in personaggio – il quale usa di tutte le opportunità mediatiche, fino alla politica come gesto estetico. Il dannunzianesimo dei fascisti (e dello stesso Mussolini) era basato sul medesimo entusiasmo: d’un io-patria decaduto fare un impero. Basta leggere Nietzsche o anche Papini o quel che aveva previsto come motivo di decadenza della civiltà («L’avvilimento del cuore»), il grande genio di Baudelaire, per comprendere cosa assediava la cultura e la mentalità di quel momento: l’io aveva perso il grande legame fondante, la bocca che lo aveva generato con il fiato. Quasi come un palloncino soffiato e poi staccato e lasciato a se stesso si alleggerisce in piroette, in disegni fantastici, patendo il suo fato di caduta. D’Annunzio l’illusionista fu il più sincero, il più bravo a restare senza fiato.

Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Sempre più magnetico. Più vorticoso. E sfuggente. Così ci appare, e si impone, sempre più grande, la figura di Giovanni Pascoli a cent’anni dalla morte. Poeta che glorifica e annulla la lingua nel momento in cui la resuscita continuamente – la sua “lingua morta” di poesia, così postuma e fervida. Ha anticipato e reso vacue tante sperimentazioni successive. Come l’altro suo avverso sodale, vicinissimo e lontanissimo D’Annunzio. Si oppongono, ma sono su due versanti della stessa discesa tragica. La tragedia dell’io decadente, dell’io che cede, non ha appigli, non ha “tu” a cui veramente affidarsi. Né in cielo né in terra. Uomo nomade, come stavano predicando negli stessi anni Nietzsche e altri. L’io pieno di affetti e di nessun legame si riempie di tutti i suoni, di sensazioni, si fa l’anima “mostruosa” come aveva indicato Rimbaud, ragazzo padre della poesia contemporanea. Pascoli e D’Annunzio sono due grandi tragici alle porte del Novecento italiano. Poeti preziosi e meravigliosi dell’io che decade, che perde ogni energia mentre pur si fa circondare e traversare d’ogni sonora gloria, d’ogni finezza, acceso di febbre percettiva e risonante di prodigi verbali. Se il Vate bruciò fino alla fosforescenza la lingua e se stesso usando i materiali e le occasioni dell’esistenza e del gusto dell’alta borghesia (gusto spesso pure mediocre – ma che importa, quegli smalti, le decorazioni erano roba che ardeva bene…), l’altro, non meno tragico maestro di preziosità, usò per la sua partitura e la sua pira i materiali bucolici e minimi della ferialità, saperi antichi e nuovi e le campiture infinite del latino. Con puntiglio da professore di liceo o di erudito di campagna, Pascoli colleziona nel nido vuoto della sua poesia un mondo che va da nomi dimenticati d’ornitologo agli scontri tra le galassie studiate e copiate dal Flammarion, dai proverbi romagnoli alle incursioni dell’inglese, nuova lingua d’impero nel tessuto italico. Poeta di passaggio come archi possenti sotto cui abbassarsi. E da lasciarsi alle spalle, qualora se ne abbia la forza che proviene solo da una altrettanto violenta combustione. Pascoli ormai è finalmente uscito dalle cantine del patetico in cui una critica scolastica voleva relegarlo per paura delle ombre che nell’opera si agitano. Poeta del dettaglio e di cosmogonie, curvo sulle myricae e attonito spettatore d’un misterioso nulla universale, Pascoli racconta di aver assunto la sua attitudine poetica in certe sere in cui la madre, vedova per l’omicidio del marito, stava davanti a casa a fissare chissà cosa all’orizzonte. Uno sguardo vedovo, dunque. E cosa è uno sguardo del genere? È pieno di una presenza e di una assenza contemporaneamente. Sguardo che vede l’assente. Fissa chissà cosa. Avverte la presenza piangendone l’assenza. Uno sguardo “doppio” diceva Leopardi, supremo fanciullino, secondo il poeta romagnolo. Ma in Pascoli “doppio” per una divorante compresenza, o co-assenza. Lo sguardo delirante non è uno stato eccezionale, ma normale. L’orfanità è diventata poesia. L’aveva anticipato il ragazzo padre che diceva di non aver «precedenti in nessun punto della storia di Francia». Al massimo grado lo sguardo vedovo, la sperdutezza dell’orfano entrano nella nostra poesia con Myricae, i Canti di Castelvecchio e i Primi e i Nuovi poemetti. Non si tratta naturalmente di leggere l’opera con chiavi biografiche. Tale metodo pieno di guasti lo lasciamo a maestrini che di fronte alla forza e allo sgomento di certi versi non sanno cosa dire e si rifugiano nelle pagine di orrendi sussidiari, pur di non dover aprire l’anima e le loro ferite di fronte ai ragazzi. Come se quei ragazzi stessero nei banchi aspettando un sapere da sussidiario… No. È che in Pascoli la corrispondenza tra quanto avviene nella vita e quanto accade nella poesia è evidente. È l’opera – basta leggere – a suggerirci come nella infinita vastità dei mondi, colti in scala minima o in vasti abissi dal poeta, la voce dell’uomo è solitaria, smarrita. Pochi sanno come Pascoli darci la misura della nostra sperduta piccolezza. Della vastità della vita che ci sovrasta. L’uomo sulla scena che Pascoli ritrae tra cardellini, rondini, forasiepe e tra galassie, bufere e collassi del sole, è un uomo solo. Non ha un “tu” a cui rivolgersi mai, se non fragile, passeggero, e si tratta d’una compagnia malinconica e paurosa tra orfani. Ebbe un senso del mistero violentissimo. Per questo Pascoli amò Dante che dalla morte trasse vita, come dice nei suoi saggi. In quel mistero Pascoli non alza mai una domanda, una preghiera. O s’accenna confusa in un ricadere di commiserazione, di compatimento. A cent’anni dalla morte si stanno aprendo convegni, letture, iniziative meno barbose (tra cui un omaggio a Bologna di poeti contemporanei, e una cena in suo onore a Bertinoro a pochi passi da dove nacque). E certo Pascoli merita che accanto ai doverosi nuovi sondaggi specialisti ovunque in Italia ci si alzi in piedi per onorarlo, ascoltandone la voce, la meraviglia, la così vitale ferita. Leggi anche: Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio

Per Giovanni Testori

Per Giovanni Testori

Un Petrarca devastato. O un barocco riscoperto in nuovi scenari e temperature. O cosa è l’essere di Testori altro da ogni sua coeva possibilità di poesia? E poi, è davvero altro? Certo lo è, se si guarda alla cospicua tradizione che va da Montale a Sereni e ai seguenti, lombardi o no che siano. E lo è rispetto al magistero inquieto della pensosità di Luzi o del francescanesimo di Betocchi. Di Ungaretti condivise solo la dura figliolanza da Jacopone. Ma non quella da Petrarca (ripeto, fu da lui devastato – nel midollo del canzoniere amoroso e nei suoi Trionfi) tantomeno da Leopardi. Altro fu Testori pure dalla geniale e torbida lucente eredità di Pasolini. Distante anni luce dallo sperimentalismo sociologico-letterario delle neoavanguardie, libero da troppi discorsi sterili. Ha sfondato, lacerato, o compresso fino a espanderli in altre direzioni molti dei nuclei e degli elementi presenti nella poesia intorno a lui. Ha guardato a Caproni, lo dice ripetutamente. Lo diceva a me ventenne che lo andavo a trovare in via Brera inquietando definitivamente quel che in me era già inquieto rispetto ai maestri che vedevo. Sentiva che il poeta de “Il franco cacciatore” stava camminando su bordi simili, votato a uguali precipizi. In quel sodalizio a distanza si gioca (lo vide Raboni) una possibilità di altra direzione della poesia del secondo Novecento italiano. E guardò a Rebora, non potendo però nemmeno stare nella sua pietra, nella cava bianca di travertino e aria in cui il grande dei Frammenti e poi del silenzio compose e ricompose. Aveva intuito però, che le poesie rinate dal silenzio, fino a quelle più umili, occasionali, quasi minutaglia di voce e aria, ecco, erano le poesie che lui avrebbe voluto scrivere. Si mosse con libertà, con “protervia” secondo alcuni critici che diventavano matti dietro alla sua struggente non-metrica (come Aldo Rossi in un intervento su l’Approdo), mentre per altri fu la possibilità di risentire la voce poesia (Frasnedi). Agglomerò nei suoi testi le parole antiche che venivano dal sacro Monte di Varallo (quel “strangosciàs” della Mater) e accenti postfuturisti (legni esterrefatti / stazione missilistica sventrata / leucociti…). Fu uno che – come di sé diceva l’amato Cezanne a cui Testori dedicò uno dei suoi più intensi scritti – sentiva sanguinare gli occhi nel fissare le cose, il reale… Quello sguardo intenso e capace di realismo non naturalista che Testori lesse come un evangelico bussare perché sia aperto… Nel panorama della poesia – lo sentirono i suoi più acuti lettori, da Bo a Vigorelli – Testori fece qualcosa che obbligava chi non lo escludesse a priori a considerare un’altra strada rispetto alle conosciute, che poi strada non era, ma suo precipizio o gorgo. Un autore finale, si direbbe, eppure capace come pochi altri di ridare avvio. Di mettere in movimento. Ma è davvero altro ? mi chiedo. Il lettore, è stato scritto, con Testori è costretto a stare sempre “allerta”. E allora al di là della prima inevitabile costatazione di alterità, non è forse il caso di guardare ancora, di guadare bene dentro? Perché se qui c’è Petrarca, e prima l’ombra di Jacopone, se qui c’è Rimbaud, se qui c’è la simpatia per Rebora e Caproni, forse ci troviamo non di fronte a una sdegnosa riluttanza, a una devianza della tradizione maggiore della nostra poesia; non siamo di fronte a una via solitaria, eroica e come ogni solitudine sempre un po’ patetica. Piuttosto siamo in una gloria in fiamma di esaurimento, siamo nella conclusione tutta affranta e quasi poltiglia di una materia letteraria che in tutti gli altri grandi già bruciava, disseminando una epoca di poesia libera e alta, come fu il secondo Novecento italiano. Siamo davanti a una fornace. Ci capita quel che dovette significare per molti trovarsi davanti a D’Annunzio. So che può esser considerato blasfemo quasi l’accostamento tra il tutto sanguinoso e sacro Testori e il tragico appariscente Gabriel – ma già Pampaloni vide l’accostamento a proposito di “Ossa mea”. E il mio paragone indica piuttosto la quantità di materia che qui – come nel poeta dell’Alcyone – trova combustione e incenerimento, e forse, ma a che prezzo per chi si trova o accetta di passare questo fuoco, possibilità di nuovo impiego. Una simile intensità, una simile violenza. Come accade ad alcuni classici, Testori si trova e accetta di stare alla fine di una tradizione. Al suo compimento. La vogliamo chiamare tradizione fino al Novecento? Quella faccenda che comportava statuti, autocoscienza, pratiche, riferimenti obbligati, tipologia di dibattiti, amori vincolanti e che chiamiamo o chiamavamo letteratura,  era arrivata a un capolinea. In molti lo presentivano. E in molti hanno provato a dare voce e forma a questa crisi. Chi interpretandola politicamente, chi stilisticamente, chi culturalmente. Ma pochi in Italia – e Testori, come pochi altri, Pasolini e Pavese forse – hanno interpretato quella crisi nell’unico modo adeguato: personalmente. Perché non poteva che essere così. E si tratta in tutti e tre i casi di tre uomini-libro, uomini per i quali la scrittura, il respiro, il giorno, la notte, l’amore, la carne, l’angoscia, il cielo erano una unica azione e un unico fiato. E forse non è un caso che nel ’79 usciva sullo Almanacco dello Specchio Mondadori con alcune poesie nuove accanto a Anne Sexton o che si possa vedere ancora su You Tube un video in cui Leo Ferrè canta una poesia d’amore di Testori (che lì presente si commuove), Ferrè che poi si scaglia contro i poeti che “prendono le parole con le pinzette”.  C’è una violenza, abbiamo già detto, in Testori. E si tratta di una violenza – come suggerisce un suo recente lettore, Andrea Di Consoli – che non ha pari in altra poesia contemporanea. Una violenza che annida le radici dei suoi impeti certo in una difficoltà di accettazione di se stesso, in una crocifissione dell’io. E una forza di rottura, rivolta innanzitutto contro le proprie possibili maschere, contro ogni riparo. E poi contro ogni cancrena di stile o istituzione di ogni presunto stato dell’arte o della letteratura. Nell’esserne crisi irrimediabile, contestazione anche diretta, e insomma, nell’essere così sfasciante …

With Rimbaud in my heart

With Rimbaud in my heart

At the heart of our time, there’s a night, a vertigo. As there was Dante’s journey, so now there is the journey of Rimbaud. There is, in the heart of our time an “insignificant” (“adolescent” say those who, protected by an assumed maturity, want to dodge its blows) night or season in Hell. In the heart of modernity (and of what it brings into question) there’s a poet in hell. There already was one, of course. In fact, there was a poet in hell-purgatory-paradise. But now that we are distanced from the fear and trembling in front of Mystery that the Christian era recognized in all circumstances, now that the heart marvels at the smoky streets of the city, marvels at absinthe and at the metaphysical revolution (and since the refuge of an education by now respected only formally has been destroyed), now the heart suffers from boredom with itself and when it reaches the threshold of the unknown it “collapses” and loses the sense of “visions” that open up to it there as he says in the famous “letter of the seer.” It is not by chance, as we are taught by the greatest living Italian poet, that the young poet of Charleville is the only one who can draw near to the Florentine exile with a special kind of proximity-distance relationship. They are two poets, two journeys where the author and the character coincide, where, that is to say, experience counts. And in this place all presumed truths are put to the test of experience. Because of this they are closer to the reader. It should not be forgotten that A Season in Hell (“relation d’un combat spirituel”) is the only book that Rimbaud expressly wanted published. A vertigo in the heart of Europe, a coming and going that is always seeking, a continual leaning towards the possible. There’s a man “mystique à l’état sauvage” who, the day before his death asks the Messaggeries Marittimes what time he should be carried on board to set off again. If it’s true that intellectual pride was the poison that closed the human heart and reason to a sense of mystery, if it’s true that Baudelaire marks the beginning of modernity because he sings of Ennui and a tragically “dual” life with the splendid dirge that many will join (but with less sorrow and more philosophy), it is undeniable that the most moving poetic renderings of those same bored, drugged hearts are to be found in Rimbaud’s Season in Hell. There everything “surrenders.” In that “pagan book” an infirm and perverse gesture sets before us every kind of crisis — that of religion, of love, of science, of memory, of dream, of art – and subjects them to his methodical, yet split-second, test. None of these elements of human experience seem to be capable of helping Rimbaud approach his “destiny of happiness,” to that “salut” which is as desired and imagined as it is mysterious. Clearly the boy is inside a catastrophe, like Hamlet, notes Bonnefoy. “The angels” wrote a young and acute reader of Rimbaud, “know immediately and since always.” Everything surrenders because nothing is enough for the man in search of himself. “I want liberty in salvation. How am I to pursue it?” Exactly in the place where it seems the most dense obscurity of signs and words is felt, the sense of them makes itself clear and self-evident. Rimbaud is anything but obscure. He declares immediately the “key” with which to recapture lost innocence: “charity is this key.” Immediate, precise, almost Paul-like, that is, exactly like St. Paul in his “hymn” (a scandalous climax for another of the poètes maudits, for George Trakl, and for our own Pasolini; it would be interesting to study the strange attraction between Saint Paul and the extremities of literature). A heartbreaking affirmation because of the impossibility that such a key might actually be able to be used and is not simply a dream. In the verses of Rimbaud there’s a “method to nail down our words and our experience of the world to colors.” He does not confront any new themes. He speaks about what everyone speaks about. He turns out to be more useful than Socrates in terms of understanding, today, something of ourselves. Rimbaud who believed everything around him to be of himself, tends toward the motion of leaving. His journey will be neither one of descent, nor an itinerarium mentis, nor a journey around his room. As if to pin down a great and simple allegory, his visionary wandering will end in a journey that is wrapped in mystery. The journey to Africa, more than a post-literary act or a definite rebellion, is none other than the mirror of poetry in its descent into hells, in the groping for things and people in the constant search for “salut” in liberty. “Mon sort dépende de ce livre” he apparently said. He’s a typical rebel, they say, exactly because he didn’t deal with new themes. It’s true. But like Van Gogh, he put – or better, he surprised – things in a light from which they’ll escape only with difficulty. An extreme light that we perceive only in glimpses, confusedly. The light of “faiblesse.” “European culture” wrote Mario Luzi in a good essay on Rimbaud “to which moreover we send the reader who wishes to follow in lapidary detail the kinships and correspondences between the poet of A Season in Hell and the situation of poetry in Italy and Europe, to be quite frank, feels the lack of heresy.” Already Baudelaire had demonstrated an “enormous capacity for suffering” (Eliot). He had restored citizenship to the profound sense of original sin, to that entropy or “fall” that concerns every “élan” and every “beauté.” Most of all in Rimbaud it is not a question of a morbid complacency towards “the limit.” In fact the more acute the perception of a “salut” promised by life (the festival of youth), the more the lack …