Poesia e arte. La misura e il parto, e questi due al bar

Poesia e arte. La misura e il parto, e questi due al bar

da Rilke feat Michelangelo, a cura di Massimo Morasso, CartaCanta edizioni

I

È come se avessero addosso il dolore di esistere. Come se li vedessi, loro due, Michelangelo e Rilke, ingobbiti e taciturni, un bicchiere davanti, seduti a un motel o un bar di stazione.
È come se, nella creazione dei loro capolavori di volumi e pesi e grazie esterrefatte, il poeta e l'artista da lui inseguito avessero per vene diverse ma simili assunto una assoluta disposizione al dolore di esistere. La avessero ereditata da qualcosa che sta prima dell'arte, prima dei bar, e prima della vita se si potesse dire.
Che sia una diretta esperienza di orfanità nel caso di Michelangelo o, nell'altro, una orfanità esistenziale per freddissima madre, a segnare tale violentissima dote di dolore con cui investire la vita e la materia artistica, no, non si potrà mai decifrare. Né del tutto si potrà dirimere del tutto se sia stato qualcosa respirato dall'uno nelle arie d'un secolo di duri e inquieti passaggi come il 1500, o respirato dall'altro in quell'inizio altrettanto travagliato di quasi quattrocento anni dopo. Di certo le maggiori esperienze artistiche che li avevano preceduti e loro contemporanee cercavano ancora la perfezione di un sogno antropocentrico, equilibrato sulla umana misura, o sulla sua ultra-dilatazione, umanistica o romantica o avanguardistica che si voglia chiamare. E loro due, invece, portano il vero squilibrio. Stanno seduti in quel bar. Rilke guarda il gigante, Michelangelo è un uomo alto, uno spilungone scontroso al tavolo. Al poeta sembra di riconoscere qualcosa negli occhi dell'artista.

L'essere gigante di Michelangelo sta nell'aver dato figura al dolente mistero d'esser creatura.
Ha dato figura e anche figura incompiuta, perciò opera eloquente per ogni presenza che in qualche misura offesa vi si ponga innanzi e prosegua, sentendolo, in sé medesima il senso di tale incompiutezza. Artista di incompiutezze per uomini che si sentono incompiuti. Li vedi, di fronte alle sue opere, gli uomini incompiuti. Si riconoscono.

Perché il poeta dolente e magnifico lo ha cercato?
Che materia o che limite della materia gli serviva trarre dalle parole delle Rime?

In questo libretto fiammante che avete tra le mani e che ho chiesto all'editore di fare (e lui, pazzo romagnolo, ha detto sì) Massimo Morasso ci offre una indagine preziosa e puntuale.

Michelangelo e Rilke sotto le insegne del bar ci vengono incontro in una doppia mandorla di luce partoriente.

II

Non hanno madre, non hanno abbraccio della nascita, e non hanno soddisfazione nell'arte. La misura, cosa che abita ovunque il mondo e che ha la prima radice nell'atto della creazione e nel gesto della levatrice, li attrae e respinge. Ne sono sulla soglia.
L'attica precisione del gesto, la misura petrarchesca e neo-umanistica diventano in loro ombra ardente, la combustione le divora. La misura da "sicurezza", da regolamento dell'esistenza nel mondo, diviene soglia, come titolerà Paul Celan. E Ungaretti: "il mistero e di pari passo la misura"
In Michelangelo - e nel suo traduttore inseguitore Rilke- sentiamo quel passo, il battito inquietante, ne proviamo lo sgomento. Mario Luzi, altro poeta che svela la soglia, disse che in Michelangelo sentiamo sempre un corpo a corpo ma non solo e non tanto con la materia della lingua e del poetare petrarcheschi, ma con la materia e la possibilità stessa della visione. Con la vita e sua conoscenza, o chiamatela: umanizzazione.

Rilke sapeva che la lirica doveva nutrirsi di mito - e ricrearne- ma un mito tutto reinventato nell'io, il grande enigma del suo tempo, come seppero i nostri Pascoli e D'Annunzio. Doveva esser così la poesia, cent'anni dopo il grido del Pastore di Leopardi ("e io che sono?") per non essere pura vanvera delle sensibilità o non venire del tutto assunta dalla filosofia. Lo sapeva Rimbaud, il giovane che cercava la forza. Lo seppe pochi anni dopo anche Ungaretti, che con gesto assoluto titolò la sua opera con il non-titolo, facendo uscire la poesia dalla letteratura e dalle sue sole misure: "Vita di un uomo".

Michelangelo portò il sogno umanistico e rinascimentale fino alla incandescenza, alla sfarinatura. Drogò di dolore e di grido il Petrarca che s'avviava a divenire padre "dispotico e mite" della letteratura europea. Michelangelo lo scultore fu come un ragazzaccio scontroso che portò Petrarca a fare un giro fuori la sera. E il "fuori" era il fuori di sé in quanto visitato dalla dismisura.

Come può esser ch'io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio!
Chi [m'ha tolto]1 a me stesso,
c'a me fusse più presso,
O più di [me potessi che poss'io?]
o Dio, o Dio, o Dio!
Come mi passa el core,
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo Amore,
[c'al core entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca?
E s'avvien che trabocchi?]

III

"E se avvien che trabocchi..."

Il genio è densità. È lucente ma non per sottrazione.
La sottrazione è l'arte, dice Michelangelo, il levare. Ma il genio diviene tale per aumento, per incorporamento. Per conquiste - come scrisse Von Hofmannsthal a Rilke- di territori dell'indicibile al dicibile. O del non figurabile al figurabile. Il genio è storico, l'umiliazione intima.
Da dove trasse mai quelle sue mani che quasi si toccano Michelangelo, così da fissare nei nostri occhi il momento della Genesi, misura, sì, e dismisura, come in ogni paternità che è quasi toccarsi di padre e figlio? Cosa aveva veduto per strada o chissà dove in quale suo sonno smanioso, lui che il padre quasi vendette ai signori fiorentini in cambio di favori e che del Padre si sentiva continuamente indegno...
Per diventare luminoso il genio deve accumulare molte oscurità. In tale accumulo Michelangelo e Rilke comprendono che l'io, la genialità, e l'arte sono tre livelli diversi della medesima drammatica esperienza. L'uno, l'io, si spoglia mentre il secondo, il genio, si ammanta, si carica, si ispessisce, mentre la terza, l'arte può infine fare luce e oscurità allo stesso momento. Il fallimento personale, ovvero la caduta, la limitatezza, la insoddisfazione, e -diciamolo- la dolorosa esperienza d'esser nati creatura, distinti, non creatori ma solo compositori, convive con il farsi più ricco e quasi esagerato, proteso del genio. Almeno quanto si fa amara l'umiliazione dell'io dell'artista, così tanto può salire la cattedrale del suo genio. Michelangelo lo sapeva, Rilke non di meno.
Il secondo cercò il primo. L'immaginazione del Novecento cercava l'umanesimo nel suo punto di crisi. La misura cerca se stessa in territori "non giurisdizionali" avrebbe detto Giorgio Caproni. O meglio ancora "nel corpo oscuro della metamorfosi" avrebbe detto Mario Luzi.

Quel corpo oscuro da cui i nati provengono, e non possono censurare - come avrebbe voluto Nietzsche - la loro nascita e dunque il "dolore" dell'essere nati.
A volte gli uomini quando non pensano a niente, come al bar, in silenzio, stanno pensando allo strano dolore di esser nati. La caduta nella misura. Nell'essere uno e pur diviso e incompleto, e non invece meravigliosa unione e fusione di due (un solo uomo, un solo, sesso, un solo Dio - ho scritto in un poema riprendendo anche il Testori lettore di Michelangelo).
Stanno forse pensando il dolore di non potere fare riaccadere il parto. Di sè, e di tutti. Come ci fissa negli occhi, ammirando la Pietà di Michelangelo, un vertiginoso testo di Rilke

Ora la mia miseria si fa colma
e tutta mi riempie di uno strazio implacabile
che non ha volto e nome.
Irrigidisco come irrigidisce la pietra,
in ogni vena è fatta pietra dura
questo soltanto io so, tu sei cresciuto, sei cresciuto, figlio,
dismisuratamente, per superare l’angoscia senza limiti,
l’ambito smisurato del mio cuore.
Ora sul grembo tu mi giaci tutto sghembo e riverso
e non ti posso, non ti posso, figlio, più partorire”.

I due stanno in questo grido o gémito che si portano addosso e che tanto è potente che Rilke lo fa valere anche per le supreme creature, Maria e Gesù: "e non ti posso, non ti posso, figlio, più partorire".
Sapevano entrambi oscuramente e luminosamente che una volta nati, avvertendo la seduzione del superomismo in arte, avevano solo due possibilità. Una stava nel censurare la nascita, fingere di diventare altro dall'uomo che nasce ("io che mi son detto mago o angelo..." mormorò Rimbaud alla fine della sua Saison). Oppure, accettando la dura umiliazione più che la seduzione della vita d'artista, cercare di vivere nella nascita, tornare bambini, cercare - dando loro vita a forme - d'esser continuamente partoriti. E di questa possibilità, abbracciata con ogni loro limite e sincerità, Michelangelo e il suo inseguitore Rilke, ora seduto al motel di questo libro, ci restituiscono l'oscuro e luminoso travaglio.

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