VII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

VII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XIII
Lui cresceva, io diminuivo

Giovanni il Battista li aspetta in piedi vicino a un albero. Il viso è segnato ma sembra contento di vederli.
Il sentiero che arriva fino alle rive del Giordano è disseminato di pietre e polvere. I cinque discepoli si lavano i piedi e le mani prima di avvicinarsi alla tenda.
Fuori il cielo è azzurro, teso da far male.
Con Andrea e Giovanni, il giovane sacerdote di Gerusalemme, ci sono alcuni discepoli di Gesù che prima seguivano il Battista. Sono impazienti di raccontargli molte cose.
«Siamo stati al Tempio» dice Andrea sedendo davanti a lui, «s’è messo a gridare».
«A gridare?» chiede il Battista, mentre un suo aiutante offre acqua da bere ai nuovi arrivati.
«Sì, maestro. Eravamo appena entrati nel Tempio. Abbiamo visto cose che non immaginavamo. Nei giorni scorsi ha compiuto miracoli. Ha risanato ammalati, ha rialzato un paralitico.»
«Ne ho sentito parlare» mormora il Battista.
La sua magrezza vicino ai corpi giovani dei suoi amici come un insetto.
«E nel Tempio si è messo a gridare contro i cambiavalute tra i loro banchi. Sembrava preso da una furia.
Molti sono venuti a guardare, anche tra i sacerdoti e gli anziani. Gridava che era uno scempio aver trasformato la casa di Dio in un mercato per le offerte per le bestie dei sacrifici. Diceva: lo zelo per la casa di Dio...»
«Mi divorerà...» conclude il Battista. E dopo aver abbassato il volto chiuso come pugno contro la notte, sorride. I ragazzi si guardano. Hanno visto raramente quel taglio di luce, quella bocca ferita aprirsi in un sorriso. Si sente solo il rumore dell’acqua versata nei bicchieri di coccio.
«Davvero sembrava divorato da qualcosa...» riprende Andrea. «Ha fatto persino una frusta di corda per
cacciare via quella gente. E...»
Il Battista socchiude gli occhi di bosco e di buia giada. Sul suo volto scarno il sorriso appena accennato non scompare. Sembra quasi che, appoggiato a una pietra, immagini la scena che gli stanno raccontando. Solo quel lieve sorriso. E bisbiglia: «Come Geremia...».
«Si è messo poi a insegnare. La gente lo ascolta. Si fermano in tanti. La sua fama sta crescendo. Ma a un certo punto...»
Andrea tace, e così gli altri. Forse aspettano che il Battista dica qualcosa.
«A un certo punto?» chiede l’uomo magro con gli occhi socchiusi.
Andrea guarda i suoi compagni. Cerca l’approvazione a quanto sta per dire. Interviene Giovanni, il ragazzo, deciso: «A un certo punto si è messo a dire che distruggerà il Tempio e che lo ricostruirà in soli tre giorni. Il grande Tempio di Erode...»
Il battito di un drappo della tenda di stoffa grezza rompe il silenzio. Una illusione di brezza nell’ora che spacca il cielo.
Intorno, lungo le sponde del Giordano, vengono erette le tende di quelli che sono scesi a battezzarsi, piccoli gruppi di persone. Qualche belato di agnello, voci di piccoli che forse giocano o sgridano.
«Molti lo prendono per pazzo!» interviene uno dei discepoli, seduto dietro ad Andrea. Si vedono gli occhi accesi, una luce fiera sul viso.
Andrea lo guarda. Ma il Battista non ha alcuna reazione. Solo dopo pochi secondi dice lentamente: «Gli avete chiesto chi è?»
Non fiatano per un poco, esitanti. Si sentono dei belati, colpi di ala, versi e voci in lontananza confusi.
«Sì, maestro. Ci ha detto di salutarti di cuore e di dirti quello che vediamo: gli storpi camminano, i ciechi vedono...»
Gli occhi socchiusi del Battista.
Li apre e sono fuoco luminoso. «State con lui, state con lui. Il mio tempo è venuto. Nubi nere si addensano su di me. Ma lui vi battezzerà non più con l’acqua ma con lo Spirito di Dio. E io, io non sono degno di sciogliere nemmeno i legacci dei suoi sandali».
Poi muovendo un sasso nella sabbia dice: «È lui che deve crescere e io diminuire».
Si è alzato in piedi. Non lascia tempo di replicare. I discepoli lo guardano silenziosi. Li abbraccia uno a uno. Esce, e la luce del sole lo sbrana al loro sguardo.

XIV
La passione, l’esecuzione

Qui ora è tutto buio.
Giovanni il Battista prega a labbra quasi ferme. La prigione dove lo hanno gettato a Macheronte è senz’aria. Ci sono i respiri morti di tanti condannati. Gente che ha lasciato qui sputi, pozze di vomito, escrementi. Mentre lo portavano nella sua cella, ha visto nelle altre mucchi d’ombra addossati alle pareti. Il viso di uno si è sollevato sulla spalla come un ratto bianco mentre era accasciato, ha ringhiato una bestemmia.
Ora il profeta mormora con le labbra secche.
Il tetrarca ieri è sceso a vederlo. Giovanni ha visto la sua faccia appoggiarsi alle grate mentre un soldato alzava una fiaccola. Gli era sembrato un grande frutto morto, gonfio. Aveva gettato un ghigno: «Giovanni...
Giovanni... Dicevi tante cose giuste per il tuo popolo... Hai voluto esagerare... Un po’ di riposo qui ti farà bene...». Ed era svanito nel volgersi della fiamma e nel risuonare di passi in quei cunicoli. Dopo il viso di Erode ne appare tra le sbarre un altro. È di un uomo anziano, una cicatrice gli traversa l’occhio sinistro. Si sofferma un istante. È Cuza, il vecchio amministratore. Sua moglie gli ha parlato spesso di Giovanni e di Gesù.
Lo guarda. E senza che il tetrarca possa più sentire bisbiglia: «Giovanni, mia moglie prega per te». Sorride, incerto. Poi svanisce.
Il Battista sente i topi camminargli tra le gambe. La tenebra è di nuovo compatta, solo le fiaccole accese nel corridoio danno aloni vaghi come sogni.
Nel salone di sopra i flauti suonano pazzi e lamentosi.
I fianchi di Salomè, oro nel buio. «I tuoi seni sono due cerbiatti...»
Erode ricorda a lampi le parole del Cantico.
La veste trasparente ornata di piccole medaglie dorate trema come una fiamma sorridente davanti agli occhi annebbiati dei commensali.
Sono una ventina, piegati sul fianco sui tappeti. Erode al centro guarda la ragazzina figlia della moglie. Sa muoversi, eh, sa muoversi...
«I tuoi denti bianchi come pecore appena tosate che escono dal fiume... Le labbra nastro di porpora...»
La luce che viene dai pesanti candelabri spezza in mille ombre i suoi gesti. È stata fatta entrare da un servitore alla fine della cena. Gli ospiti del tetrarca vengono da Cipro e dall’Egitto. Sono importanti soci negli affari delle miniere, degli unguenti e delle sete.
Si mescola il fumo delle loro pipe agli incensi. La ragazzetta balla con gli occhi chiusi. Sa che lo deve fare. E sa come farlo. La madre è stata inflessibile. «Vai, balla». Lei l’ha guardata con il viso indurito per l’emozione e la superbia di chi non vuole fare brutta figura.
«Le labbra nastro di porpora...»
Nel buio Giovanni ha le labbra crepate, sta boccheggiando per la sete. Le preghiere gli stanno sfuggendo di mente. Da ieri non gli danno acqua. Ormai due giorni interi. Gli sembra di sentire il rumore delle acque del Giordano. Il suo petto magro è traversato da colpi di tosse. Il fruscio delle onde nel suo delirio aumenta. O forse è una voce, ma di chi?
«Come sei stato cattivo con me, profeta...» Tra le sbarre della cella il volto affilato di Erodiade si affaccia. Bianca di ciprie, con la fronte orlata di perle e ciondoli che tintinnano lievemente sulle sbarre. Un pupazzo. La sua voce è un fruscio. «Peccato, potevi essere più furbo.» La lunga linea di henné che insegue i suoi occhi è una ferita di nero sul nero. «Non eri nemmeno un brutto uomo. Peccato.» Giovanni cerca l’aria, respira più forte per trovare la forza di sollevarsi a guardare, ma l’aria si frantuma tra i denti. Gengive secche...
Sparisce anche quel fantasma. Ora più niente. Buio.
Qualche notte precedente, all’incirca alla stessa ora, due uomini si erano abbassati per entrare nella casa che in un villaggio in Giudea stava ospitando Gesù. Era notte fonda, non c’era anima viva in giro. Quando i due hanno bussato, il primo a levarsi è stato Simon Pietro. Ha messo mano alla spada. Poi lo ha raggiunto il padrone di casa, il vinaio del villaggio, un uomo basso e rotondetto, che sembra ridere sempre. Aveva dato un’occhiata dallo spioncino che era serrato: «Tranquillo, li conosco, sono dei vostri».
Appena l’uscio si è aperto di fronte a loro, i due han fatto un inchino verso Simone. E senza indugiare: «Hanno arrestato Giovanni il Battista».
C’è stato subito subbuglio. Andrea e Giacomo sono andati dai due messaggeri e hanno cominciato a fare domande. Ma quelli avevano la faccia da capretti impauriti e sapevano poco o niente. Erano arrivate le guardie di Erode, di notte, qualche tumulto. Nient’altro.
Pietro è andato a dirlo a Gesù. E lui ha guardato il suo discepolo per un istante nella penombra della stanza.
Qualcosa ha fatto brillare i loro sguardi. Cosa succederà ora, un nuovo inizio? Si ruppe la quiete. In pochi attimi furono tutti in piedi, rivestiti, e già fuori dalla casa del vinaio che non rideva più e aveva il viso tirato. In cammino spediti verso Cafarnao, un luogo più sicuro.
Giovani il Battista in carcere vede pulsare il buio. Resta immobile come un animale. Respira. Non ha più parole. La sua bocca è ora un nido disabitato. Ha portato a termine il suo compito. Tutto inutile? Vorrebbe gridarlo al Dio che apre i cieli bianchi e abita le notti in galera. Ma anche se la apre non viene nulla. Dio gli brucia dentro e allora impercettibilmente, in questa galera umida, perduta e buia dell’universo lui sorride.
La luce dei candelabri rotea sulle spalle di Salomè. I suoi capelli sono seta e riflessi. I volti di dignitari ospiti maschere di noia eccitata. Ammirano le movenze e le linee della ragazzina che balla. Hanno il niente negli occhi. La ragazzina si vergogna e però balla nel modo più sensuale che può. Sa come fare. Esibirsi così per quei venti dignitari attempati, dal cervello opaco di vino e di brame scadenti le ripugna. Però va in fondo, avanti ancora con la sua danza, mosse sempre più ardite, seducenti, è un gioco amaro a cui lei già sa come prestarsi con infinito disgusto. E intanto gira occhiate scheggianti di supremazia. Sa come fare, le ragazze sanno quasi sempre come fare.
Il patrigno e i suoi ospiti sono stupiti dalla danza disinibita di lei. Erode pensa: brava, brava...
Negli occhi di Erode da qualche mese le forme della bellezza della ragazzina stanno oscurando quelle mature della madre. Ne è segretamente eccitato. Sta diventando l’avvoltoio di quel seno pieno, dei fianchi splendenti, delle gambe che fanno tremare a toccarle. Forse mordendo il suo seno giovane potrà risentire il sapore dei giorni di Roma, dei giorni della sua vendetta.
«L’amore è forte come la morte» dice il Cantico che sa tutto. Le tirerà fuori i respiri più violenti, i gemiti che lei non pensava di avere, saprà scuotere il suo corpo di ragazzina. Ne sarà estasiata anche lei. Lui affogando nei suoi capelli e nell’ipsilon dolce del suo ventre si prenderà gioco dei secoli che gli si stanno avventando addosso con i loro fiati morti. E decide con quelle risoluzioni rapide e incisive che gli uomini prendono quando sono preda della passione di stupire lei e i presenti. Sono decisioni confuse ma non per questo meno dure. Perché la passione, si sa, oscura la mente e sono da compatire gli uomini quando ne sono preda. Ma è una oscurità che copre l’orizzonte, che restringe la vista, non annulla i procedimenti della mente e della volontà. Le scelte che gli uomini assumono in tali momenti sono decisioni vere e proprie, spesso giunti al termine di argomentazioni interiori sottili e deviazioni tortuose.
«Ragazza!» la chiama con voce impastata, appena si spegne l’applauso lento e greve dei suoi ospiti. Lei freme al centro della stanza, un cerbiatto nero. L’oro dei monili trema sui fianchi snelli per il suo respiro eccitato.
Tiene gli occhi sul tetrarca. Sa di vincere. Lui cerca le parole.
«In premio alla tua danza di grande bellezza, ho deciso che potrai chiedere quello che vuoi.» Poi dopo un attimo tenuto in sospeso per fare effetto sui suoi ospiti e su di lei, prosegue: «Fosse pure la metà del regno».
Pronuncia queste parole fissando le pupille nerissime di lei, ardenti sotto la fronte dove tremano i riccioli scuri.
I commensali alzano grida e bicchieri. Si complimentano con Erode, signore magnanimo. E ridono. Sanno tutti bene cosa significa quella promessa. Lei fissa un istante lo sguardo liquido e luminoso di Erode. Si stanno intendendo. Ma lei vuole vincere fino in fondo. Fa un segno, gentile, quasi un inchino, chiede di attendere un istante.
E svanisce nella stanza di là dove la madre è con le ospiti, le consorti dei commensali e altre donne della corte.
Erode capisce, si irrigidisce. Il suo sorriso ebbro si spegne. Nulla è più temibile che l’alleanza di due donne contro un uomo.
Ma quando Salomè torna nella sala del banchetto, il tetrarca ha ripreso la maschera del sovrano bonario.
«Dunque, mia giovane danzante?»
I commensali tacciono. Guardano il profilo di Erode acuminarsi teso verso il visetto meraviglioso e ottuso della ragazzina. Lei sostiene quegli occhi velati. E dice con voce chiara senza timore: «Voglio la testa del profeta su un vassoio d’argento».
I commensali alzano i bicchieri, vociano, qualcuno dice: «Però, la ragazza!». Altri non hanno capito bene di che si tratta.
Erode posa lentamente la schiena sui cuscini alle sue spalle. Vinto. Per qualche istante sembra non vedere più nulla e nessuno davanti a sé. Poi fa un cenno alla guardia che gli resta sempre di fianco, un nero alto e armato. Come dire vai, adempi a quello che lei ha detto.
Erodiade nell’altra stanza sta godendo e soffrendo la sua vittoria e la sua sconfitta nello stesso momento.
La ragazza le porterà via la bramosia del suo uomo e padrone ma intanto le porterà la testa del profeta. E nessuno oserà più contestare il suo posto.
Nel buio con l’ultimo fiato Giovanni ha mormorato: «Mio Dio» poi la spada, affilata, pesante si è ficcata nella pelle dura e bruna del collo, aprendo una ferita vivo rosso sangue. Come nella gola di un toro o di un capro. Il suono sordo e breve dell’osso schiantato e il gorgoglio violento sono stati gli unici rumori nella cella, con la sua minima invocazione fiatata. Il colore di sole riflesso nella resina delle sue pupille è rientrato nello sguardo. Le orbite hanno perso il loro centro. La testa è caduta nella cesta già pronta. Il corpo ha tremato per qualche secondo, dibattendosi. Il petto ha strascicato per terra, e le gambe, mentre le braccia erano legate dietro la schiena, hanno scalciato a vuoto. L’odore del sangue colato dal cippo è intenso. I servi del boia buttano stracci e sabbia. Il boia dice: «Portala su».
Quando il vassoio d’argento con la testa del profeta dagli occhi mezzo aperti, la bocca serrata e i capelli impiastrati entra nella sala del banchetto, per un istante si fa silenzio. Il servo lo porta alla ragazza che è seduta ai piedi dei cuscini su cui è steso Erode. Glielo lascia davanti alle gambe. E subito lei le ritira abbracciandosele.
Il tetrarca le sfiora i capelli. Poi dice duro: «Portala a far vedere a tua madre». Ma quella che appare di nuovo solo come una ragazzina smarrita si volta e fa no, no con il capo.
Allora Erode le stringe i capelli nel pugno e sibila al suo orecchio fine e ingioiellato: «Non ti piace il mio regalo? Alzati e portalo. Mi è costato parecchio, ora devi essere gentile con me. Dillo a quella cagna di là. O farete la stessa fine. Va’!»

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