II puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”
Capitolo III
L'ordine
Erode non ha avuto pace nemmeno stanotte.
La coppa è vuota, ai piedi del trono.
L’alba sembrava non venire mai.
Non è servito spostarsi a Gerusalemme, nel grande palazzo fatto costruire per essere il nuovo Davide. Più grande di Davide.
Le notti sono insonni, lunghe, maledettamente lunghe, come in tutte le residenze. Anche a Gerico, la preferita.
Davanti a lui nella sala sono comparsi quattro dignitari in silenzio. Non fiatano. Vedono che è stravolto dall’insonnia. La cagna che abbaia solo nella testa. La cagna da guardia del niente. Il suo corpo possente e alto si è gonfiato e curvato in questi mesi. La pancia spinge dolorosamente contro le vesti preziose che un tempo gli stavano a pennello. I problemi della successione, e altre oscure forze si agitano nel re. Non sa decidere quale dei suoi tre figli, Archelao, Filippo e Antipa, sia degno della carica.
A volte pensa che il più giovane, Antipa, sia il più dotato di tempra, quello che gli somiglia di più. Poi si ricrede: troppo giovane. Meglio Archelao, o Filippo, meno impulsivo, più freddo. La carica di re spetta a uno solo, gli altri dovranno accontentarsi del titolo di tetrarca. La decisione resta sospesa. Non c’è fretta, la vita del Grande non vuole appassire... Lui farà la sua proposta, poi a Roma, come sempre e come tutto, decideranno.
I Romani non vogliono caos nella zona. Ma devono stare attenti: i capi religiosi giudei non sopportano nessuna provocazione dai dominatori. Erode si trova tra l’incudine e il martello: sa di essere odiato dai capi religiosi.
“Ma in questo palazzo non tengono più fiaccole?” pensa d’improvviso. “C’è poca luce...” poi si tocca gli occhi con un lontano terrore.
Aveva accarezzato l’idea di farsi nominare da loro “Messia”. La loro religione attende un misterioso salvatore, un condottiero benedetto da Dio e pensava che a lui, come avviene ad altri re e imperatori, potesse spettare il titolo di divinità o almeno di figlio di Dio. Quei rognosi di gran capi dei sacerdoti si erano opposti. «Erode il Messia? Via, non siate ridicoli!» aveva detto, scomparendo sotto un’arcata del Tempio in costruzione, uno dei sacerdoti a un suo emissario mandato a sondare il terreno.
Fece soffocare nel sangue da sicari segreti alcuni di quei corvi, così che la piantassero almeno con l’irrisione. La sua grandezza risplenderà nei secoli. Questi sciocchi Giudei non capiscono.
Anche se ha evitato alla Galilea di pagare tasse gravi a Cesare e anche se garantisce con il pugno duro la pace, e se pure evita che i Romani calpestino il suolo di Israele con legioni in assetto di guerra, i sacerdoti e gli scribi lo odiano. È un Idumeo, mantiene nei suoi comportamenti qualcosa di una terra pagana. Sua madre era araba, Kypros. Si racconta che a Roma è salito al Tempio e ha fatto sacrifici a Giove con Ottaviano e Antonio, e ha costruito tempietti pagani in diversi luoghi della sua giurisdizione. I Giudei sono contrariati. Mah! Un dio vale l’altro... Ma un re, dev’essere uno. Un re. Per questo ha cacciato quei cenciosi di Nabatei dai confini, anche senza il permesso di Augusto. Beduini maledetti! Là a Roma non avevano dato il loro permesso. E allora? Un re è un re. Anche Augusto deve capirlo. Che si fotta.
I quattro uomini che ora ha di fronte sono stati chiamati mentre la notte cedeva al primo languido chiarore e le stelle si stavano facendo inghiottire.
Il palazzo domina Gerusalemme. Per arrivare dalle stanze destinate dalla corte alla sala del regno occorrono alcuni minuti.
Uno dei quattro si è fermato a guardare il cielo. Una cicatrice gli traversa l’occhio sinistro in diagonale. La pupilla è più scura dell’altra. Il suo nome è Cuza. Ha sputato per terra. Dalle strade già si sentono abbaiare i cani. La sua giovanissima sposa, Giovanna, dorme in una casupola lontano, in un’altra città. Spera di tornare presto da lei.
Ora i quattro stanno lì, e lui non si decide a parlare. Poi come se non si rivolgesse a loro: «Ammazzatelo» dice a denti stretti.
Sollevano lo sguardo, sanno di chi parla. Ogni sera prima di licenziarli chiede se quei maledetti saggi sono tornati con qualche notizia. Se qualcuno sa finalmente qualcosa sul misterioso re bambino.
Ma nessuno ha saputo più nulla di loro. E non si sa nient’altro. È nato. Solo questo.
Il re non sembra pensare più ad altro. Sì, sì, la successione... Ma quella lo angustia solo talvolta - c’è tempo, dice tra sé scacciando quel rovello. Ha interrogato altri maghi, fatto venire visionari e presunti profeti a colloquio.
Ha chiesto anche al sommo sacerdote. Da qualche tempo la carica non è più ereditaria, non passa per la stirpe. È lui a nominarli. Ma deve incaricare quelli che il popolo e i sacerdoti vogliono. Non può andar contro la casta religiosa.
Quel vecchio con le fiaccole vicino al volto scarno l’ha guardato un istante con gli occhi neri come la notte, poi ha detto solo: «Sorgerà un re, uno più potente di tutti i re». E nient’altro. Possibile che nessuno riesca a dargli rassicurazioni o notizie? Eppure ovunque circolano racconti sul Messia che deve venire. Il popolo è agitato da storie di ogni genere. Scribi e dottori della Legge si snervano sulle profezie. Nelle sinagoghe si mormora di un Messia alle porte, puntando le dita magre e adunche su alcuni punti dei rotoli. Animi esagitati hanno iniziato a nascondere le armi. Nascono e scompaiono correnti sotterranee.
«Ammazzatelo», ripete piano, incolore Erode come se avesse ripetuto quella parola tutta la notte e ormai gli uscisse come un respiro stanco.
I quattro lo guardano nella penombra delle fiaccole e della prima fioca luce dell’alba.
Non c’è nemmeno bisogno che chiedano come fare a trovarlo. Lo presentono, terribilmente.
«Fateli fuori tutti. Tutti i maschi della zona nati entro un anno, anzi no, due anni da oggi. Tutti...»
I quattro non dicono nulla. Cavalli nervosi.
“Ma sono bambini” passa nella testa di uno dei dignitari. Ma è un pensiero nuvola, lieve, perso. Serra la mascella. Si gira con gli altri, filano fuori.
Il cielo è una immobile cascata grigia.
La distesa di sassi e pietre che va da Gerusalemme a Bethlehem è coperta dalle nubi.
Il sole non riesce a farsi largo. Il vento muove sterpaglie, tra i sassi si insinuano scorpioni e serpi. Le greggi si svegliano inquiete nei serragli.
Dal primo pugno di stracci infilzato dalla spada esce un sangue rosso.
Il soldato ritrae l’arma e non guarda il volto impietrito della donna che regge il piccolo, morto senza piangere. Gira la testa verso il niente.
I soldati di Erode il Grande corrono come demoni.
La voce ha impiegato un po’ di tempo a spargersi. Il timore del re, la difficoltà a spiegare che cosa assurda sta accadendo...
Non si sono fermati. Battono la zona.
«Tutti i bambini» gridano alcuni. Altri uomini correndo di casa in casa: «Solo i neonati». Qualcuno fermo sulla porta ha chiesto senza più luce negli occhi: «Ma per una epidemia?».
Scappano le donne, ma in quale direzione? Dov’è il luogo dove si sfugge al re? Hanno gridato due donne scappando: «Non sono malati!». In un altro villaggio vicino a Bethlehem qualcuno prova a spiegare: «Le bambine no, son al sicuro».
I soldati lupi. Grida di pietra si incastrano per sempre nel silenzio.
Alcuni uomini che hanno opposto resistenza sono stati feriti. Altri trascinati in strada e picchiati. Un sacerdote della sinagoga va incontro agli armati senza paura: «Fermatevi, per la misericordia dell’Altissimo...
cosa state facendo!?». Ma viene gettato a terra, e colpito, colpito, colpito fino allo stordimento da un soldato.
Non si fermerebbe se uno dei suoi capi non gli trattenesse il braccio. «Non perdere tempo» gli urla con la faccia di polvere e sudore.
Alcune donne hanno aperto l’uscio di casa con timore e riverenza ai soldati che si sono presentati all’alba.
Ora stanno pazze, sedute come bambole rotte sui gradini di terra. Hanno aperto la porta alla sventura. E i soldati senza parlare si sono diretti alle culle. Come addosso alla preda. «Non guardare, non guardare!» grida un soldato al compagno più giovane mentre colpiscono come forsennati dentro una misera culla di legno. Piccoli corpi senza resistenza, neanche il tempo di piangere. Di accorgersi. Solo morire, solo morire.
Si vedono donne senza più voce che girano con il piccolo ucciso in braccio. Altre svenute a terra.
I quattro dignitari che hanno portato l’ordine dalla stanza del trono fino ai cortili delle guardie avevano chiesto che fosse preparata la bevanda delle grandi battaglie. Il vino più speziato. Brucia i polmoni e subito dopo i pensieri. Poi i soldati si sono sparsi verso tutte le direzioni. Li ha inghiottiti l’alba grigia.
Si sono infilati per le vie strette dei villaggi della zona indicata. Come se stessero portando un grande annuncio. Alcuni di loro saranno trovati a vagare dopo ore con il niente negli occhi. Saranno puniti.
Erode guarda alla finestra la luce fredda dell’alba.
È lui l’unico che può dare dignità e forza alla stipe di Davide. Che diventerà la stirpe di Erode. Sta costruendo il Tempio. Nessuno lo può fermare. Questo popolo dalla testa dura deve capirlo.
Capitolo IV
Joseph lo guarda
Joseph guarda il sole abbassarsi sulle poche case di Natzareth. I suoi occhi bruni hanno tagli di fuoco. Ogni tanto contro questo sole calante rivede il delirio tra paludi e sabbie durante il viaggio verso Rhinocolura, al confine d’Egitto. Era stato necessario. Il sogno lo aveva avvertito. Prendili, scappa. Erano scesi verso Bersabea, per poi addentrarsi nella steppa vuota e squallida che più avanti diventa deserto di sabbia e ancora sabbia.
Alla stazione di confine erano arrivati distrutti. Per fortuna aveva con sé l’oro avuto in dono da strani uomini venuti a portare omaggi al piccolo neonato. Vede ancora i riflessi mentre ne passa alcuni pezzi nelle mani sudice di un carovaniere, in cambio di un po’ d’acqua e un sacco di erbe, là sul confine del niente. Erano tornati, più lucidi e segnati da mesi di solitudini e silenzio.
Il nome della piccola città di Natzareth significa «risveglio». Ma sono pochi qui i segni di vita. Le carovane passano più su, a nord-est, sulla riva del lago, a Cafarnao.
I veri traffici sono là, o a Tiberiade.
Qui si campa con poco.
Seduto davanti alla porta di casa il carpentiere Joseph aspetta. Anche questa giornata deve finire.
È il momento che ama di più. Lascia che il sole gli carezzi il viso e la barba.
Si dice che sia discendente diretto del re Davide. Una discendenza lontana, persa per generazioni e generazioni e secoli dei secoli. Dei Nazareni si parla in giro come di gente strana. Non ben visti a Gerusalemme, antichi racconti riportano che dalla loro stirpe potrebbe venire un re, un Messia a ristabilire la grandezza di Israele. Gli antichi membri del clan dei Nazareni, che avevano fondato Natzareth e Kokchaba, la città della stella, si ritenevano discendenti di Jesse. Questi caprai credevano d’essere una stirpe regale e che al loro seno sarebbe uscita la stella, il re atteso dal popolo di Dio. Ma questo villaggio di centocinquanta abitanti, sulle colline della vecchia tribù di Zebulon, presso la piana di Yizreel, Dio semina, non pare destinato a grande sorte.
Joseph no, non ha mai pensato di essere un nobile. Eppure questo momento alla fine del lavoro passato a guardare il sole che muore gli sembra un privilegio da re. Ha sempre fatto questo mestiere. E ora gli è capitata la storia davvero strana. Strana... Sorride, quando ci pensa. A dire il vero all’inizio non sorrideva granché.
Ma ormai da un po’ di anni... Non lo sa quasi nessuno: lui è un uomo dei sogni.
È sempre stato un uomo posato, ma non un uomo normale. Non ha nulla dei re e dei profeti, né sapienza né lingua accesa. Ma come i più nobili della sua stirpe riceve dei sogni speciali. No, non è per nulla quel che si direbbe un sognatore. Anzi. È un uomo piantato per terra, sa levigare il legno, torcere il metallo. Nessuno si era mai lamentato di lui per idee strane o comportamenti bizzarri. Un uomo della casa di Davide, un buon Giudeo. Fino a quando è arrivato il bambino. Che fa discutere e mormorare il paese. Che fa stringere gli occhi alle donne. E fa abbassare la voce ai suoi amici.
La gente nei piccoli paesi non comprende bene le novità, le cose strane. E questa certo non è facile da accettare...
Ma lui è uomo di sogni. Li aspetta ogni sera sulla porta di casa. Come un re i messaggeri dai territori lontani.
Grazie a tre sogni aveva deciso di tenere Mariah, di accogliere questo figlio inaspettato e di partire con lei.
E poi di tornare per altre strade, prendere vie larghe, andare in Egitto a lavorare là per un paio di anni.
Un uomo posato, che però ha iniziato a fare cose strane. Così dicevano e dicono ancora in paese. I sogni.
Loro non lo sanno. Qualcosa che di notte germina segretamente in cuore dopo che ha riposto via gli attrezzi e pulito la bottega, mentre aspetta il sonno.
Un buon uomo, dicono, o meglio dicevano. Un uomo di fede, affermavano scuotendo il capo con approvazione. Ma ora non sanno bene cosa dire di lui. Vanno ancora alla sua bottega, chiedono i lavori come prima.
Chi una porta, chi una ruota per il carro. Ci sa fare. Ma chiacchierano di meno. Sono più restii. Gentili, ma più asciutti. Stanno nella sua bottega accanto alla casa il meno possibile. Danno occhiate verso la porta se per caso appare la moglie o lui, sì, il bambino... Hanno sempre un altro giro da fare, qualcuno che li aspetta.
Joseph tocca con un piccolo bastone la sabbia davanti alla soglia, traccia disegni strambi. È un buon falegname, gli piace disegnare delle figure anche senza motivo. A volte su una porta o su un asse per un letto disegna un ghirigoro, un fiore, chissà. Forse sono tracce dei suoi sogni...
Il sole infiamma i tetti delle case basse.
Gliene sono successe di cose strane, in poco tempo.
Ricorda quando ha portato Gesù al Tempio per l’offerta. La faccia del vecchio Simeone, uomo pio addetto al Tempio, si è sollevata. Teneva sempre il capo basso e gli occhi socchiusi mentre praticava le funzioni. Invece
era apparsa la fessura dei suoi occhi chiari, luminosissimi, un incendio. E lo aveva guardato. Poi aveva preso il bambino per offrirlo a Dio.
Avevano portato due tortore per il sacrificio. Non si potevano permettere di più. L’offerta della gente semplice.
Mentre il piccolo piangeva, si era avvicinata anche Anna, la vecchia di ottantaquattro anni che vive nel Tempio. Ha affiancato a loro il suo volto rugoso, ormai senza più età. La profetessa, la chiamano. In realtà non parla quasi mai. Non si muove. Un fagotto nero.
Sta sempre nell’angolo vicino all’entrata. All’alba la trovi già lì, chiusa e raccolta nella sua veste nera e lisa.
Il viso sempre basso, sfuggente alla luce. Se ne sta acciambellata per terra, come una cagna di Dio. Ha perso i denti. Si nutre di qualcosa che le viene portato da un’altra donna quasi vecchia come lei: in silenzio, gliela mette innanzi. Non si dicono niente, continuano a dire le preghiere guardandosi un istante, poi la donna esce.
Anna si è mossa dall’angolo dove se ne sta di solito a biascicare salmi e preghiere. Ha voluto vedere anche lei il bambino. Ha sentito Simeone che diceva cose strane. Poi l’anziana ha sollevato la mano scheletrica per toccargli il viso mentre il piccolo piangeva. Un gesto lentissimo. E ha alzato gli occhi, pezzi di cielo notturno. Non ha detto niente, ma le tremava il labbro inferiore. Una specie di sorriso è passato sul suo volto grigio.
Joseph ha stretto il suo bambino al petto. E lui e Mariah se ne sono usciti dal Tempio sotto il cielo vasto, in mezzo all’altra gente.
Il sole ormai è sceso sotto la linea della collina su cui salgono le poche case di Natzareth.
I disegni davanti ai suoi sandali si sono confusi.
Anche la cugina di Mariah, Elisabetta, ha partorito in mezzo a strani prodigi sei mesi prima della nascita di Gesù. È una donna già avanti negli anni, sembrava indurita su di lei la maledizione della sterilità. Il marito Zaccaria, devotissimo sacerdote del Tempio, era triste. Una tristezza sorda, cattiva. Un uomo serve Dio tutta la vita e poi vede la sua esistenza seccarsi, senza fecondità... E può giungere a mormorare contro il cielo. Ma lui tratteneva il lamento nei sotterranei del cuore, un animale cieco il cui verso non arrivava all’aperto.
Joseph rivede contro il tramonto il giorno in cui Mariah tornò da Ein Kerem, dalla casa di Elisabetta. Era turbata. E più grossa! Ma non era solo stanca per il viaggio lungo tre giorni e l’assenza di tre mesi. La cugina, dove era andata per aiutarla un po’ e anche per togliersi da dosso gli occhi obliqui degli abitanti
di Natzareth, le aveva raccontato di Zaccaria che era ammutolito per alcune settimane, prima della nascita di Giovanni. E di visite dell’angelo del Signore, dritto tra l’altare e il tavolo delle offerte.
Ma la cosa più strana, aveva detto Mariah seduta sulla panca di legno che Joseph aveva fatto mettere in cucina, era accaduta subito, all’arrivo. Elisabetta le aveva rivolto un saluto enigmatico, come se sapesse qualcosa che riguardava i due bambini. I due piccoli che stavano per nascere.
«Abbiamo passato molto tempo insieme» gli aveva raccontato Mariah «e ho visto nascere il piccolo Giovanni... Lo hanno chiamato così. Sono state profetizzate grandi cose per lui.» Poi aveva socchiuso gli occhi e proseguito: «Anche per lui...».
Joseph non ha voluto sapere cosa si erano dette le due donne. Lui è dell’idea che se Dio deve farti sapere qualcosa di importante te lo fa conoscere senza bisogno di chiacchierare tanto.
Ormai la sera sta arrivando. Mariah deve aver finito di preparare la cena. Natzareth aspetta un’altra notte fredda. I piccoli dovrebbero rientrare a momenti dai loro giochi. Di solito si dirigono in gruppi al fiume, o dove gli adulti vanno a pascolare le pecore.
Ecco, vede arrivare un gruppetto di bambini. Hanno tutti l’età più o meno del suo Gesù, sette, otto anni.
Quando vedono che è sulla soglia, smettono di parlare tra loro ad alta voce. Gesù si stacca dal gruppetto e devia verso la casa, li saluta, è sudato, ha i capelli spettinati, devono aver corso e saltato. Gli altri proseguono sullo stradino. Si voltano a salutarlo rapidi, con un cenno della mano o del capo. Ridono tra loro, come se avessero un segreto. Lui è un po’ un capobanda. Chissà cosa combinano...
Gesù arriva davanti a suo padre seduto sulla soglia di casa e guarda i segni per terra. Poi un istante posa gli occhi sul viso dell’uomo seduto e ancora verso i suoi amici che si allontanano. Sguardo serio di bambino.
Joseph lo afferra piano per le piccole braccia, lo fissa al centro della pupilla, come se volesse dirgli qualcosa.
Ma dice solo: «Sei sudato, andiamo dentro».