Categoria: Saggi e interventi

“per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” del Novecento

“per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” del Novecento

“Poi nella cassa ti verranno a chiudere/ per sempre. No, per sempre/ sei animo della mia anima e la liberi./ Ora meglio la liberi/ che non sapesse il tuo sorriso vivo”. Ritengo quel verso di Ungaretti “per sempre. No, per sempre” il verso più “forte” della poesia del ‘900. Nei versi dedicati alla morte del figlio Ninetto di nove anni, si incastona questa violentissima, e però urlante d’amore, inversione. Un “per sempre” che diviene un altro “per sempre”. Lui poeta del “sentimento del tempo” traversa il fuoco del rapporto tra presente ed eterno. E non lo fa per via filosofica o speculativa, ma aggredito dal dolore più grande possibile, la morte del figlio piccolo. E così si inchiava, si incendia questo verso, asciutto e quasi frastornante, contenuto nella poesia “Gridasti, soffoco”, come un chiodo di diamante e di lacrime. Ungaretti, “belva d’amore”, poeta e uomo inciso nella poesia e nella immaginazione del nostro paese, e intellettuale di natura europea, ci ha lasciato questo verso in controtempo assoluto nel Novecento, secolo di ogni riflessione sul tempo e sulla storia. Lui sapeva bene cosa fosse il dolore. Ci ha scritto un libro intero sopra, piangendo, per la morte del figlio Ninetto e del fratello. E però l’apice lo raggiunge in quella poesia che non volle nemmeno pubblicare in quel libro perché gli pareva esagerata. Ed esagerata è, quella poesia che finisce in un piovere attonito di stelle, per la realissima descrizione dello strazio, e per quel verso nodo, verso chiodo, quel verso dove si ricapitola la vita intera e l’intero universo che da imbuto dove pare doversi perdere persino il volto più caro diviene luogo di tracce luminose. Un “per sempre” che cambia direzione, che non imbocca il tunnel che pare obbligato della disperazione e dell’annientamento, ma quella della tremante e tesa visione di segni e frammenti di luci. Tutto questo, ripeto, mentre si contempla il dolore più inspiegabile e grande. E mi chiedo sempre, stupefatto e grato, da quale energia, da quale sterminato serbatoio di nostalgia del bene, da quale provatissima ed essenziale fede il poeta trae la invenzione di quel verso? Da quale segreto attaccamento alla vita, testimoniato fin dalle poesie di guerra e lungo tutto una vita appassionata di esistenza e famelica di bellezza e di conoscenza? Come se quel verso, quasi inumano nella forza che esprime, fosse la verifica più alta di una esistenza, del senso della “vita di un uomo” che mai cede, nutrito dalle linfe della letteratura più grande e della fede più semplice ritrovata nel tempo. Qui si esprime il big bang della forza poetica di Ungaretti, in questo rovesciamento del senso del destino comunemente inteso come dissipazione e perdita. Dissipazione a cui non si oppone, per virtù propria, la letteratura, nemmeno in quei tentativi di fermare in lettere d’oro il tempo del suo amato Petrarca. No, in questo verso grido e rovesciamento, agisce una energia che non viene dalle pur sublimi e incantate sapienze della letteratura e della poesia che Ungaretti frequentò e creò ai massimi livelli. Qui agisce una dismisura, una potenza di mistero. Come se quel “segreto” che lui stesso diceva esser la preda inseguita e mai raggiunta della poesia fosse emerso lì, in un punto, in un verso micidiale e memorabile. Un maestoso capodoglio tra le onde, o un riflesso negli occhi. Una doglia di parto dell’eterno. (Avvenire, 31 maggio 2020)

Ungaretti, scrittore scandaloso

Ungaretti, scrittore scandaloso

Ungaretti è il vero scrittore scandaloso italiano. Non solo perché la sua vita, e secondo voci che si rincorrono negli ambienti letterari, anche la sua morte, è stata piena di veri scandali, ma perché scandaloso è il nucleo della sua forza artistica rispetto al tempo in cui si è espressa e ancora oggi. Scandalosa è la sua bellezza. Scandalosa è la esclusione dal Premio Nobel, dato ai suoi due “colleghi” Quasimodo e Montale, i quali furono giustamente riempiti di onori dalla cultura dominante, mentre Ungaretti brindava, si dice, con “Montale senatore, ma Ungaretti fa l’amore”. Scandaloso il suo leggere e interpretare fisicamente la poesia mentre i due “colleghi” la offrivano con stile da borbottio ministeriale o sussiego da avvocaticchio di provincia. Scandalosa la sua quasi petulante ammirazione per Mussolini, appassionata per l’uomo e invece confusa, abborraciata sul piano politico – e soprattutto utile per uscire dalla fame o a cercar di campare facendo pigramente lavori burocratici. Scandalosa al punto di negargli quel Nobel che meritava e che attese fino alla fine, e che, secondo le dichiarazioni recenti della Accademia di Svezia, travolta infine da scandali e attribuzioni dubbie, fu negato per motivi politici (la prefazione di Mussolini del ’22) mentre ad altri scrittori fiancheggiatori di regimi totalitari comunisti non mancò. Scandalosa la sua visione cosmopolita, scandalosa la sua fame d’amore e di corteggiatore, scandalosa la sua posizione sul ’68, forse più estrema di quella di Pasolini. Scandalosa la sua adesione alla fede quando la cultura à la page se ne allontanava. E scandaloso quel suo modo di vivere, presentare, studiare la poesia come una montagna di senso, un viaggio nel deserto e nella foresta, una passione senza fondo, una nostalgia accesa, non una faccenduola da filologi e professorini. E pur che professore è stato Ungaretti! In Italia e in Brasile, quel suo affascinante perdersi e ritrovarsi in letture e divagazioni che i suoi allievi han fatto in tempo a raccontarmi. Una mole impressionante di studi, di letture, di attività letteraria in tutto il mondo, una lucidità feroce nell’investigare Leopardi, Petrarca, il suo preferito Jacopone. E poi scandaloso nell’aver della poesia una concezione così vasta, religiosa e non stilistica, così libera e profonda da poterla ribadire senza infingimenti dinanzi agli scrittori sovietici del realismo materialista e da riuscire ad accogliere e accompagnarsi alle diverse correnti, dalla Beat Generation ai poeti cantanti brasiliani, dal dialogo con Pasolini, fino al fiuto di intuire in Zanzotto un poeta di vaglia e di reale avanguardia rispetto ad altri che si proponevano come tali. E libero nell’aver dell’arte – indagata e amata nei rapporti con Fazzini e Scipione e altri – una visione attenta alle forze innovatrici, come vide in Burri. Ungaretti porta lo scandalo di un uomo antico e fanciullo nella contemporaneità. Nel ’69 guarda la luna conquistata e pur affascinato da quel prodigio lo legge all’interno del perpetuo desiderio umano. Scandaloso infine nel leggere il dolore che lo investe dai tempi della Guerra fino alla terribile morte del figlioletto di nove anni, come condizione ma non prigione dell’essere umano, nomade e in viaggio verso una “terra promessa”. Scandaloso, cioè vivo. (Quotidiano Nazionale, 1 giugno 2020)

As minhas Leituras de Luigi Giussani

As minhas Leituras de Luigi Giussani

Apri il documento Apresentação do Livro do Mês As Minhas Leituras de Luigi Giussani 16 de abril 2020 Com Davide Rondoni, poeta, escritor e dramaturgo italiano, autor de vários prefácios de livros de don Giussani Mª Rosário Lupi Bello (MRLB) O que nos traz a todos aqui hoje é a vontade de sermos ajudados à leitura do livro do mês As Minhas Leituras, que é um livro muito particular sobre o valor da leitura, no qual encontramos o elenco dos autores preferidos por don Luigi Giussani. Aprender a compreendê-los, a lê-los melhor, é uma forma de nos identificarmos com o olhar, com a sensibilidade e com o coração de don Giussani. Convidámos o nosso amigo Davide Rondoni, que é poeta, escritor, dramaturgo, tradutor, e que prefaciou alguns livros de Giussani e de outros grandes autores; conheceu pessoalmente don Giussani e conversou com ele sobre literatura, a vida, a arte. Sendo poeta, Davide Rondoni é um homem que trabalha com as palavras, e que pode, por isso, ajudar-nos a penetrar no valor que as palavras tinham para don Giussani, um valor que, mais do que literário em sentido estrito, era poético – como ele nos irá explicar. Agradecemos-lhe muito a sua presença, que é um gesto de amizade para connosco. A educação que recebemos do carisma de don Giussani está cheia de referências a autores literários e a outros artistas. De onde vinha, para Giussani, este interesse “estético” pela literatura, a arte, a poesia? Trata-se de um método educativo, ou de algo mais profundo? Davide Rondoni Da parte de Giussani não é tanto o interesse estético nem o amor à literatura. Ou melhor, o interesse estético e o amor à literatura vêm porque ele encontrou estas vozes destes autores. Ou seja, encontrou a voz de homens que fizeram crescer a sua humanidade. A vida é um risco, e quando se arrisca é preciso confiar-se aos autores. Giussani fala muitas vezes também de Dante. A Divina Comédia começa com um homem que está perdido na selva. Porque a vida é uma selva, não é um lugar claro. Dante conta que enquanto está na selva vê uma figura não muito clara, não muito precisa, mas em que ele acaba por reconhecer Virgílio, um grande autor. E então, para a sua viagem na selva, confia-se a Virgílio. Na vida, podemos errar em muitas coisas. Podemos errar no nosso dinheiro, às vezes até podemos perder o rosto, mas não podemos enganar-nos nos autores, até porque os autores ou os escolhes ou são-te impostos pelo poder. E don Giussani fez um gesto de generosidade, disse: “estes são os autores que me fizeram crescer. Desafio a vossa humanidade a confrontar-se com eles”. Neste sentido, é uma partilha de don Giussani que faz parte de um método educativo, porque sem autores não há educação.

Trionfo dell’amore di Petrarca

Trionfo dell’amore di Petrarca

Una bella comitiva I Per anni si è affaticato, ha provato a contorcere la sua ispirazione, quasi a tirarle il collo perché divenisse più alta, più cantante. E a vestir la sua poesia come una donna diversa da quella che è, incantevole e raffinata. Come certe ragazzine che a quindici anni ne voglian mostrare ventitre. Ha provato a renderla di più forte corporatura, di presenza più incisiva truccandola pesantemente, mettendole addosso taffetani e foulard vistosi. Ma quella ragazza delicata e elegante così mascherata e imbellettata è risultata grottesca. Se la osservi, in queste pagine che accompagnarono per anni senza mai terminare la vita del suo inventore, vedi balenare a tratti il suo sguardo, riconosci sotto i velluti e le pieghe di versi spesso troppo gravi il passo elegantissimo, prodigioso. Ora che ci sta dinanzi, diciamo “no, non è lei”. Sta dunque quasi simpatico questo Petrarca che sotto il titolo di “Trionfi” iscrive la sua più violenta e rovinosa caduta. Lui che difficilmente sta “simpatico” – con quel che di professore, di impiegato, di erudito di corte, che lo oppone all’erratico Dante, poeta infernale e mistico, secondo poeta on the road dopo Omero – ecco, in questa opera dal titolo tecnico e però altisonante trova il suo quasi “simpatico” fallimento. E non si tratta solo di una sconfitta nel campo della poesia e della opera nel suo insieme. Questo tipo di “fallimento” già l’han notato molti seri studiosi e lettori, non senza una certa cupidigia in taluni casi. Come di chi vede la star fallire il colpo, il campione subire il knock-out. No, qui il fallimento è più radicale. Il crollo riguarda i moti primari che precedono il tentativo di questa opera, e da lì investe, come un incendio che si propaga dal centro chiuso di una foresta, i rami alti, i fusti, il fogliame, tutto insieme il tentativo di canto. L’errore magnifico che infatti ci consegna questa opera non sta nella carenza di struttura, di forza creatrice e motrice di terzine, di tessitura tra metafore e narrazione. Tali difetti sono conseguenti a un fallimento, a un trionfale smacco, un buco, che si trova là profondissimo nella stessa concezione e, se così si può dire, in una visione che precede l’opera. Il fallimento del pur moralissimo Trionfo si deve, paradossalmente, a un problema morale fondamentale, un problema di umiltà. Il poeta che volle trionfare sulla propria poesia invece che obbedirle, franò proprio sui Trionfi che scriveva. II Nel Trionfo dell’amore la visione manca, si sfarina, si smonta. Per deficit di umiltà. Per letterale poetica deficienza. E in questo fallimento sta, lo dico chiaro, per noi che osiamo criticarlo, un grande monito: quella deficienza, quella mancanza di umiltà colpì un grandissimo, un eccelso come Petrarca, figuriamoci allora quanto sono più ridicole e continuate le mancanze nostre. Ma di che “s-trionfo” sto parlando dunque? Non si tratta nel suo caso solo di quella mancanza di umiltà artistica – ovvero cercare il pareggio con Dante se non il sorpasso – che è tra i motivi dell’opera. È una umiltà più profonda che qui Petrarca tradisce, e lo fa con il tipico orgoglio del letterato. Infatti un poeta, in ogni epoca si trovi, è chiamato a un gesto che lo rende differente dal letterato, un gesto supremo e libero di umiltà: riconoscere la propria voce. Che è quella e non un’altra. Può darsi addirittura che tale voce nemmeno gli piaccia troppo. O che, come in questo caso, non sia adatta per imitare ed eguagliare la voce d’un altro poeta che sembra più rappresentativo o importante. Inchiodato alla propria voce, un poeta può inventare di tutto, ma non la voce medesima. In molti, anche in anni recenti, non hanno accettato l’umiliazione di non avere la voce che volevano e perciò si sono persi dietro al poeta o alla poetessa che desideravano essere. Ma il poeta deve accettare la propria voce con una umiltà spesso mortificante. E lavorarla perché emerga nella sua natura unica. Occorre una umiltà fertile. La voce che si ha in dote è il primo segno di una “vocazione”. Senza l’umiltà di accettarla ci si avventura in opere stridule, in costruzioni artificiose. III Va in scena il Trionfo dell’Amore dinanzi al viaggiatore: dev’essere un gran corteo, si pensa se non si tiene a mente il significato storico del termine. La storia ci racconta i trionfi di re e imperatori, di sanguinari condottieri vittoriosi che portavano schiavi e tesori in città. Noi, invece, quasi ci si aspetta una festa. Una squadra che alza una coppa. Una bella comitiva. Per ritrarre il Trionfo d’Amore, Petrarca oltre a spudorate risonanze dantesche, pesca da Ovidio, da Omero, dalla Bibbia. Nell’intenzione del poeta la comitiva è una fila di dominati da Amor, che per i latini era la passione. Lui, Amore, si erge come loro condanna, nel senso che afferra e priva di dignità e di vera gloria agli occhi dello scriba una schiera di uomini e donne, più o meno noti. Da Giove a oscuri poeti come Onesto di Bologna: il catalogo è infinito. Ci sono pure Dante e Beatrice, non solo Paolo e Francesca, nonché Virgilio, rovinato dall’amore per qualche giovinetto. Ma il trionfo dell’amore su tutti questi diviene agli occhi del lettore contemporaneo uno strano trionfo rovesciato. Più che al compatimento del poeta verso questi, secondo lui, disgraziati, il lettore si trova legato a una curiosità rianimata verso ciascuno di costoro, verso la loro storia d’amore bizzarra o dolente, misteriosa o famosa. Così che ognuno dei catalogati e nominati, portato in rilievo dalle parole del poeta, più che lontano e “perduto”, diviene più vicino e compagno. Il poeta si sa, vorrebbe qui mettere in fila e svergognare tutta la comitiva di dei, semidei, eroi, personaggi biblici, omerici, latini, barbari etc, raccontandoci o meglio accennando i fatti e fattacci loro – come uno che parla a chi sa e dunque intende. Il lettore contemporaneo, invece, che poco intende di quelle storie di dei, semidei, letterati e personaggi biblici, imperatori romani e barbari, corre dunque alle note …

Quattro idee non babbee per votare alle Europee

Quattro idee non babbee per votare alle Europee

Documento dell’associazione Amici di Marzo Il popolo non è solo un “No” Da molti anni, in Italia e in altri grandi paesi del mondo, è in atto un processo contrastante. Da un lato le élite che vogliono comandare senza la faticosa mediazione delle politiche nazionali e dei corpi intermedi hanno ovunque intentato grazie a media e magistratura processi alla classe politica. L’hanno screditata, spesso ma non sempre con buone ragioni, e additata agli occhi dei popoli come causa di ogni corruzione e male. Da noi nel 1992 pochissimi, tra cui don Giussani, dicevano che non sarebbe venuto del buono da tutto questo. Il termine “casta” coniato in Italia dal giornale delle élite economiche e culturali è stato usato per colpire una gran parte della classe politica. Quel malcontento popolare è montato ed espresso in vario modo. Ma le sue radici vengono da lontano, da certe false promesse non mantenibili, come vide già De Toqueville nel 1840, su cui si fonda la democrazia liberale, e la sua nuova versione chiamata globalizzazione. La promessa della “felice autonomia dell’individuo” si è rivelata in molti casi crisi e schiavitù economica di persone e popoli, creando una specie di cittadino “fanciullo” in balia a scontento e idee confuse. Molto tempo s’è perso, energie smarrite, occasioni sprecate, mezza Italia svenduta. Ma ora, insorgendo nuovi leader, nuovi problemi e nuovi media, quel malcontento si è coalizzato a volte in modo brusco contro le stesse élite che pensavano – dopo averlo aizzato – di guidarlo e che ora lo bollano come “populismo”. Il problema riguarda tutte le istituzioni, Chiesa compresa. Il termine populismo è ambiguo. Ogni leader, politico o religioso, ha un lato “populista”, cioè rischia di dare messaggi semplificati e indirizzati dal consenso. Continuare a dare del popolo una idea solo protestataria, è una menzogna comoda per le élite che vogliono in pochi governare molto e campare su falsi miti. Ridurre il popolo a sudditi che protestano o si intrattengono e campicchiano sotto il balcone del re è un sogno delle oligarchie di sempre. Invece sappiamo (perché lo vediamo) che nel nostro popolo ci sono forze costruttrici, creatrici di legami e che affrontano problemi piccoli ed enormi. A questa risorsa la politica deve dare più spazio, voce e strumenti. Passare da una politica screditata a una politica di stampo veterostatalista che vuole occuparsi di tutto sarebbe un disastro. Non di sola economia… Agitata come la questione più rilevante per cui restare entro la UE, l’economia si rivelerebbe, dinanzi alla alleanza Russia-Cina, alla Brexit, alla forza Usa, forse il primo buon motivo per allontanarsene. L’Europa deve andare oltre l’attuale UE, diventare come già indicava Giovanni Paolo II una terra di forti identità “dall’Atlantico agli Urali”, se no è un debole fantoccio bancario. Se il problema è attaccarsi a un carro che tira, visto depressione demografica, sperequazioni nord sud etc, forse meglio attaccarsi ad altri. Il modello di welfare protettivo ha valori e vantaggi, ma non ha impedito l’invecchiamento del continente. L’economia italiana ha crepe, specie in alcuni territori, ma è tutt’altro che morente. I modi per farla camminare ci sono. Possiamo dare un contributo, se non è troppo tardi, a una economia europea ispirata a una libertà temperata. Più possibilità di iniziativa, fuori da troppi vincoli fiscali e burocratici, e attenzione ai più deboli. Ma non si deve dimenticare che la perdita di vitalità economica non è mai dipendente da cause interne all’economia. E che separare l’economia e usarla come unico metro per valutare una società è fuorviante. Identità, il “problemone” tra gender e sagre di paese La risposta più adeguata al problema dell’identità è la partita aperta nella cultura e nella società europea da oltre quattrocento anni: dal Cogito ergo sum (penso e perciò io sono) di Cartesio alla domanda suprema di Leopardi alla luna “e io che sono?” e via via fino alle disperate visioni dell’ “oltreuomo” di Nietzsche e alle presunzioni di “autodeterminarsi” a seconda di desideri che divengono diritti, persino a costo di manipolazione genetiche e di pratiche di affitto di corpi altrui. Tanto più in Europa di fatto si nega – negli statuti e nella cultura dominante – la dimensione religiosa della identità umana, secondo cui il mio io e il suo valore intangibile sono fondati nel rapporto con l’infinito di un Dio creatore, tanto più va in scena la triste fiera delle mille identità possibili. Dove tutto può essere chiamato identità (dalle tendenze sessuali, al nazionalismo, ai gusti musicali) si fa largo l’ipocrisia del politically correct, e si prepara lo scontro. Non importa se per affermare mille identità occorre da un lato violentare dati di realtà, diritti di più deboli, censurare evidenti contraddizioni, o dall’altro risultare anacronisti e rifugiarsi nel passato. Si grida ovunque “identità!” e intanto non a caso si assiste a una crescita di fenomeni di ansia, con riflessi sociali evidenti. Nessuna identità parziale è adeguata all’io, che soffre in vario modo sotto maschere soffocanti. L’Europa esiste in quanto culla e difesa del valore infinito della persona umana, centro del messaggio cristiano, contro ogni tipo di fondamentalismo politico, economico, teologico o tecnocratico. Senza rinnovata identità religiosa laicamente espressa L’Europa diviene solo una locanda secondaria, peraltro incapace di evitare guerre entro i suoi territori o ai confini (dalla ex-Jugoslavia alla ex-Libia). UE ovvero Urgenza Educativa In questi anni, abbiamo avuto ingenti interventi in campo educativo della Unione Europea, orientati a favorire equiparazioni di standard e scambi internazionali. Dal punto di vista del metodo e dei contenuti educativi, non si sono avuti passi in avanti verso una maggiore libertà di educazione o alla educazione del gusto dei giovani, ma si è assistito al dominio espansivo dell’abilitazione tecnologica e del relativismo antropologico. Le scuole italiane ad esempio, sempre in debito, hanno investito milioni di euro in lavagne tecnologiche inutili specie alle Medie e Superiori. La conseguenza è una crescita della omologazione culturale, favorita dal pensiero unico politically correct vigente nei colossi dell’intrattenimento e che detengono i social. Occorre cambiare passo. Che i popoli europei ritrovino, in un grande sforzo educativo di nuove …

Lo sbarco di Pasolini negli Usa

Lo sbarco di Pasolini negli Usa

Chi sa se lo sbarco di Pasolini negli Usa – e il nuovo film in uscita in Italia – permetteranno di cogliere e scoprire il nocciolo duraturo del suo immenso lavoro e della sua defatigante, devastata arte? Di certo Pasolini seppe e volle essere anche un clichè, e lo è ridiventato mille e mille volte. Una studiosa di Pasolini ora all’Università di Calgary, Francesca Cadel, mi portò un interessante libro su Pasolini e la moda. L’artista è stato trasformato in icona per idee spesso opposte e confuse che non hanno però nulla a che fare con la sua radicale e rivendicata capacità di contraddirsi, confessata davanti alle “Ceneri di Gramsci”. La sua umana e intellettuale contraddizione si nutriva di una tragedia interamente patita, non in una mancanza di lucidità. Quella che, ad esempio, ha spinto qualcuno ad affiancarlo alla Beat Generation in campo poetico o addirittura a usarlo come “sfondo” in prima serata Rai durante un minuetto patetico tra Celentano e Patty Smith. È un grande poeta ed è perciò un antropologo tragico come può esserlo un poeta, cioè per un motivo personale, non per “cultura”. Amava nell’umano ciò che era irraggiungibile o quel che finiva per deluderlo – come racconta a proposito dei suoi primordi poetici e come accade nelle sue prove finali. Amò con “disperata vitalità” finchè – come scrive lucido Gianni Scalia – con il tempo e l’età venne meno la vitalità e rimase solo la disperazione. Arbasino durante un festival letterario la scorsa estate affermava tranquillamente: sapevamo tutti che la notte mentre si era a cena spariva dietro ai ragazzini. La Morante gli faceva le battutine: vai presto che se no vanno a letto… Un pedofilo? Cosa facciamo dunque, aggiungo io, smettiamo di leggerlo e insegnarlo per questo? Oppure censuriamo? Una tragedia personale. E per tutti. Accusa la nostra epoca di diventare il regno della “astrazione” e della “omologazione”. Le sue parole oggi risultano profetiche in anni di perdita di senso del reale (la realtà è il mio idolo, diceva) in favore di astrazioni, virtualità, e soprattutto nichilismo che riduce ogni frammento di realtà a frammento di discorso. Il suo pensiero fu tragico anche perché sapeva che alla omologazione e alla astrazione che aveva visto avanzare avrebbe contribuito proprio la parte politica e culturale a cui sentiva di appartenere. Il suo intervento mai pronunciato al congresso radicale, il giorno dopo la sua morte, diceva: «Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo e i suoi chierici saranno chierici di sinistra». Una profezia lucidissima, azzeccata. In questa epoca di “totalitarismo” dei valori libertari, cosa griderebbe lui che considerò la vittoria del referendum sul divorzio una conquista borghese e non del popolo, e si schierò contro l’aborto. Nessuno più di me è avvisato dallo stesso Pasolini a non cercare la citazione giusta per tirarlo da qualche parte, e infatti lo lascio lì, crocefisso, come uno scandalo che non ci lascia tranquilli, nessuno escluso. Fu un antropologo-artista che radicava in un senso “sacro” del vivente la sua ricerca di realismo, in arte e in politica, l’amore per la gente, lo sguardo dolcissimo e duro, debitore dei maestri di pittura, la lingua dantesca struggente e febbrile. Pensava – confessa – di aver inventato la parola “ierofania”, manifestarsi del sacro, accorgendosi poi di averla trovata in Eliade, quell’autore che le direttrici culturali della Einaudi ispirate da Calvino e De Martino escludevano dai cataloghi. Pasolini andrebbe letto e riletto accanto a coloro che hanno visto l’eclissi e il manifestarsi del sacro come la scena drammatica profonda della nostra epoca. Su tale scena profonda seppe leggere le scene della diatriba culturale sessantottina nella impressionante durissima “Poesia della tradizione”: “oh sfortunata generazione / piangerai, ma di lacrime senza vita /perché forse / non saprai neanche riandare / a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto: /povera generazione calvinista come alle origini della borghesia / fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva / tu hai cercato salvezza nell’organizzazione / (che non può altro produrre che altra organizzazione) / e hai passato i giorni della gioventù / parlando il linguaggio della democrazia burocratica / non uscendo mai della ripetizione delle formule” o in quella celebre sui disordini di Valle Giulia. Non si trattava di dichiarazioni di schieramento politico, ma di visioni. Prevedeva un mondo che si affida all’organizzazione (si pensi alle nostre scuole…) facendo crescere solo altra abnorme organizzazione. E chi pensa che Pasolini possa aver dato fastidio politicamente, dovrà piegarsi all’evidenza che difficilmente in anni duri come i ’70 in Italia avrebbe ottenuto la tribuna del Corriere della Sera – come oggi, del resto – se fosse stato veramente scomodo all’establishment del potere reale in Italia. Un fustigatore dei partiti, allora come oggi può avere quelle tribune. Ma non è questa la partita che Pasolini stava giocando, non la principale. Va ricordato che per i democristiani di allora, come disse Andreotti rivelando da un lato l’inconsistenza culturale di una parte di storia democristiana ma svelando anche la vacuità di certe mitografie, Pasolini era solo un eccentrico scrittore che reclutava ragazzini (accusa per cui fu “processato” dal Pci) che ogni tanto scriveva sul Corsera. Come dire: non ci curavamo di lui. E fu un errore, impegnati come erano a tirare su una Italia in cui si doveva avere in ogni casa un frigorifero mentre cresceva il deserto nei cuori.

D’Annunzio illusionista dell’io

D’Annunzio illusionista dell’io

Tra seduzione e orrore, D’Annunzio è stato uno dei grandi tragici del Novecento. Ora che ci si appresta a ricordarne opere e figura – imprendibile figura – ci toccherà calare nuovamente nella sua gran fornace. Perché il modesto avvocaticchio abruzzese è tra coloro che espanse all’inverosimile il gusto un po’ retrò e collezionista, il tipico stile che troviamo in ogni studiolo avvocatesco che espone con qualche sussiego targhe e diplomi. Come dire: «Vede, io sono qualcuno, qualcosa». E lui espanse prodigiosamente questa necessità di dire: ecco, sono qualcosa. Con scrupolo e coraggio. Diventando – insieme e apparentemente all’opposto di Pascoli – l’interprete italiano di valore mondiale di quel movimento che si chiama decadentismo, una sigla sotto cui possiamo mettere da Rilke a Kafka, a Wilde. Si dovrà infine mettere Gabriel Musico al pari di quei geni. Non fu da meno. Solo una pigrizia malevola impedisce in Italia di riconoscerne la bruciante grandezza. E dunque occorre chiedersi: cosa decade in quel che chiamiamo “decadentismo”? Che cosa cede? Cosa si fa febbrile e debole? E si sfarina in noi, negli uomini e donne di quell’inizio di secolo che sono ancora sagoma su cui distende i suoi sterili miasmi molta della nostra cultura? Che cosa si fa fosforescente, decadendo da uno stato di sostanza a puro alone, riverbero? Ciò che decade come se si trovasse dopo una grande fatica o esaurimento è: il nucleo della persona. Quel che chiamiamo “io”. Che non a caso diventa negli stessi anni oggetto di studio, in un gioco di specchi che ancora ci turba. Ma appunto, lo si studia perché non lo si “capisce” più, non se ne è capaci. Svuotati. L’io, il punto di attracco della ragione e del cuore. Il fiato primario, la cosa assoluta. La Bibbia racconta la creazione dell’io come un passaggio di fiato dalla bocca di Dio a quella dell’uomo. Quasi un bacio. D’Annunzio è stato uno dei grandi interpreti del decadimento, del perdere il fiato. Lui non ha più bisogno, come Mallarmé, di tentare una specie di annullamento eroico e stilistico dell’io in un poema dove domini il caso. È già annullato. Chi non conosce D’Annunzio e si ferma alle sue doti di incantatore e di metteur en scene pensa che a decadere sia la “sensibilità”, insomma il “gusto”. Come se si trattasse di una specie di messa in scena, di cambiamento dell’arredo. Mentre invece – basta leggere davvero le poesie e seguendo Ezio Raimondi certe pagine del “Libro Segreto” – va in scena con tutte le maschere il grande cadere, il cedimento. Dal cocainomane rotto a tutti i vizi al devoto di san Francesco, dal politico d’azione al creatore di mitologici ritiri nella natura, dallo scopritore del capolavoro del “Compianto” di Niccolò dell’Arca all’amore per il kitsch, fino alle maschere più cangianti dell’ammiratore di Wagner, suo imitatore e infine – come mostra uno studio di Piero Buscaroli – critico come amante tradito, che non potendo eguagliare la vetta di quella germanica si butta sulla costa francese; in tutto questo e nel tanto altro che è D’Annunzio, c’è lo spasmo perpetuo di una affermazione tanto magniloquente quanto il vuoto che deve coprire. «Vede? Sono qualcuno, qualcosa». Fu un vortice in cui venivano inghiottite tutte le maschere, tutte le ultime “buone regole”, come in Pirandello, altro genio dell’epoca. La inconsistenza dell’io diventa l’imbuto in cui ogni cosa precipita – in modo soave, grazie alla mediazione dell’artista, meraviglioso becchino, incantevole sacerdote. Epoca che consacra una nuova maiuscola per l’Artista, dopo le variazioni sul tema del Divo rinascimentale e dell’Io Totale romantico. La maiuscola del Re del decadere, dello specialista dell’estenuazione. L’artista assicura che il vuoto lasciato dall’io sia avvertito in modo “patetico” (Pascoli) o in modo “teatrale” (D’Annunzio). Così che il decadimento, il farsi vuoto, la perdita dell’io sia sopportabile e come ogni autentica tragedia possa ottenere dai grandi artisti un risarcimento in preziosità. L’artisticità, dunque, proprio nell’epoca di cui D’Annunzio è Vate e sacerdote, arriva alla sua consacrazione massima. Si badi: l’artisticità, non l’arte, ovvero, se così si può dire, non l’opera in sé, ma il suo alone di “estraneità”, di tecnica misterica, di eccezione, di verità differente da quanto appare. E tanto più viene rivendicata la coincidenza tra arte e vita nell’artista tanto più egli si separa dalla società. D’Annunzio porta a compimento il tragico tragitto del decadimento dell’io che si esprime nel paradosso di una sua gloria museificata, teatro di un alone, degli apparati, delle protesi. Perché al centro è il vuoto, non c’è fiato. Per questo, in un crescendo fantastico e tremendo, è necessaria la trasformazione dell’artista in personaggio – il quale usa di tutte le opportunità mediatiche, fino alla politica come gesto estetico. Il dannunzianesimo dei fascisti (e dello stesso Mussolini) era basato sul medesimo entusiasmo: d’un io-patria decaduto fare un impero. Basta leggere Nietzsche o anche Papini o quel che aveva previsto come motivo di decadenza della civiltà («L’avvilimento del cuore»), il grande genio di Baudelaire, per comprendere cosa assediava la cultura e la mentalità di quel momento: l’io aveva perso il grande legame fondante, la bocca che lo aveva generato con il fiato. Quasi come un palloncino soffiato e poi staccato e lasciato a se stesso si alleggerisce in piroette, in disegni fantastici, patendo il suo fato di caduta. D’Annunzio l’illusionista fu il più sincero, il più bravo a restare senza fiato.

Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Sempre più magnetico. Più vorticoso. E sfuggente. Così ci appare, e si impone, sempre più grande, la figura di Giovanni Pascoli a cent’anni dalla morte. Poeta che glorifica e annulla la lingua nel momento in cui la resuscita continuamente – la sua “lingua morta” di poesia, così postuma e fervida. Ha anticipato e reso vacue tante sperimentazioni successive. Come l’altro suo avverso sodale, vicinissimo e lontanissimo D’Annunzio. Si oppongono, ma sono su due versanti della stessa discesa tragica. La tragedia dell’io decadente, dell’io che cede, non ha appigli, non ha “tu” a cui veramente affidarsi. Né in cielo né in terra. Uomo nomade, come stavano predicando negli stessi anni Nietzsche e altri. L’io pieno di affetti e di nessun legame si riempie di tutti i suoni, di sensazioni, si fa l’anima “mostruosa” come aveva indicato Rimbaud, ragazzo padre della poesia contemporanea. Pascoli e D’Annunzio sono due grandi tragici alle porte del Novecento italiano. Poeti preziosi e meravigliosi dell’io che decade, che perde ogni energia mentre pur si fa circondare e traversare d’ogni sonora gloria, d’ogni finezza, acceso di febbre percettiva e risonante di prodigi verbali. Se il Vate bruciò fino alla fosforescenza la lingua e se stesso usando i materiali e le occasioni dell’esistenza e del gusto dell’alta borghesia (gusto spesso pure mediocre – ma che importa, quegli smalti, le decorazioni erano roba che ardeva bene…), l’altro, non meno tragico maestro di preziosità, usò per la sua partitura e la sua pira i materiali bucolici e minimi della ferialità, saperi antichi e nuovi e le campiture infinite del latino. Con puntiglio da professore di liceo o di erudito di campagna, Pascoli colleziona nel nido vuoto della sua poesia un mondo che va da nomi dimenticati d’ornitologo agli scontri tra le galassie studiate e copiate dal Flammarion, dai proverbi romagnoli alle incursioni dell’inglese, nuova lingua d’impero nel tessuto italico. Poeta di passaggio come archi possenti sotto cui abbassarsi. E da lasciarsi alle spalle, qualora se ne abbia la forza che proviene solo da una altrettanto violenta combustione. Pascoli ormai è finalmente uscito dalle cantine del patetico in cui una critica scolastica voleva relegarlo per paura delle ombre che nell’opera si agitano. Poeta del dettaglio e di cosmogonie, curvo sulle myricae e attonito spettatore d’un misterioso nulla universale, Pascoli racconta di aver assunto la sua attitudine poetica in certe sere in cui la madre, vedova per l’omicidio del marito, stava davanti a casa a fissare chissà cosa all’orizzonte. Uno sguardo vedovo, dunque. E cosa è uno sguardo del genere? È pieno di una presenza e di una assenza contemporaneamente. Sguardo che vede l’assente. Fissa chissà cosa. Avverte la presenza piangendone l’assenza. Uno sguardo “doppio” diceva Leopardi, supremo fanciullino, secondo il poeta romagnolo. Ma in Pascoli “doppio” per una divorante compresenza, o co-assenza. Lo sguardo delirante non è uno stato eccezionale, ma normale. L’orfanità è diventata poesia. L’aveva anticipato il ragazzo padre che diceva di non aver «precedenti in nessun punto della storia di Francia». Al massimo grado lo sguardo vedovo, la sperdutezza dell’orfano entrano nella nostra poesia con Myricae, i Canti di Castelvecchio e i Primi e i Nuovi poemetti. Non si tratta naturalmente di leggere l’opera con chiavi biografiche. Tale metodo pieno di guasti lo lasciamo a maestrini che di fronte alla forza e allo sgomento di certi versi non sanno cosa dire e si rifugiano nelle pagine di orrendi sussidiari, pur di non dover aprire l’anima e le loro ferite di fronte ai ragazzi. Come se quei ragazzi stessero nei banchi aspettando un sapere da sussidiario… No. È che in Pascoli la corrispondenza tra quanto avviene nella vita e quanto accade nella poesia è evidente. È l’opera – basta leggere – a suggerirci come nella infinita vastità dei mondi, colti in scala minima o in vasti abissi dal poeta, la voce dell’uomo è solitaria, smarrita. Pochi sanno come Pascoli darci la misura della nostra sperduta piccolezza. Della vastità della vita che ci sovrasta. L’uomo sulla scena che Pascoli ritrae tra cardellini, rondini, forasiepe e tra galassie, bufere e collassi del sole, è un uomo solo. Non ha un “tu” a cui rivolgersi mai, se non fragile, passeggero, e si tratta d’una compagnia malinconica e paurosa tra orfani. Ebbe un senso del mistero violentissimo. Per questo Pascoli amò Dante che dalla morte trasse vita, come dice nei suoi saggi. In quel mistero Pascoli non alza mai una domanda, una preghiera. O s’accenna confusa in un ricadere di commiserazione, di compatimento. A cent’anni dalla morte si stanno aprendo convegni, letture, iniziative meno barbose (tra cui un omaggio a Bologna di poeti contemporanei, e una cena in suo onore a Bertinoro a pochi passi da dove nacque). E certo Pascoli merita che accanto ai doverosi nuovi sondaggi specialisti ovunque in Italia ci si alzi in piedi per onorarlo, ascoltandone la voce, la meraviglia, la così vitale ferita. Leggi anche: Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio