Poesia e arte. Rispondimi, bellezza: prefazione

Poesia e arte. Rispondimi, bellezza: prefazione

Fuori dal dominio dei figliastri di N.N. Introduzione Giuseppe Ungaretti era inquieto. Lo confidava a Jean Paulhan, amico e poeta. Assisteva all’avanzare congiunto di una dematerializzazione dell’opera d’arte e della vita umana anche grazie alla tecnologia – quella cosa che, diceva, illude gli istupiditi e i nuovi poveri di illimitatezza. Queste dinamiche iniziavano a procedere appaiate, e ferocemente alleate. Scriveva all’amico: «le sentiment de l’infini ne peut être communiqué que par l’objet dont la précision des limites est à l’extrême rigoureuse». Solo un oggetto in cui vive la precisione rigorosa dei limiti esprime adeguatamente il sentimento dell’infinito. Ovvero quel sentimento che per Ungaretti, come per Leopardi, Pasolini o Simone Weil o don Giussani, connota la natura umana. Il sentimento di qualcosa che limite non ha, e che solo l’uomo può concepire per propria natura, viene suggerito e richiamato dall’arte che compone con dedizione alla misura il proprio oggetto. È una idea che a più riprese e in vari modi Ungaretti espresse in quegli anni. Solo nel fuoco tra misura e dismisura accade e si rivela l’esperienza d’arte come speciale nella vita umana. Va aggiunto forse che quel che lui chiama sentimento, in questa nostra era sentimentaloide andrebbe tradotto meglio con “coscienza” perché in Ungaretti non si tratta certo di un sentimento volatile e effimero. Il sentimento dell’infinito è la coscienza del problema centrale della natura umana, unica a concepire l’infinito. Un altro poeta scrittore d’arte, Piero Bigongiari, chiamava la sua poesia una “scienza nutrita di stupori”. Richiamava quasi un antico detto di Alano di Lilla (1120-1203). In un inno di quel remoto teologo e scrittore, infatti, ci si occupava di una cosa per lui importante, che a noi può sembrare bizzarra, a meno che non si sia artisti. Per Alano, l’incarnazione del Verbo si mostra non comprensibile attraverso le sette arti liberali. Insomma, le pur migliori qualità dell’essere umano non arrivano a comprendere il mistero del farsi carne di Dio. Le strofe dell’inno via via narrano il tentativo dell’unione del Verbo divino con la natura umana secondo Grammatica, Retorica, Aritmetica, Musica, Geometria, Dialettica, Astronomia, ma ogni volta appunto si concludono con la sentenza: “In hac Verbi copula stupet omnis regula”. In questa copula, unione del Verbo, ogni regola è stupefatta. La regola, il metodo della misura, la vita della forma, stupisce, se incontra la energia del Verbo che si incarna, dell’infinito che “copula”, che si unisce… Credo che tale “incarnazione/ copula” che “stupisce”, che fa stupire le regole di ogni composizione (non le annulla, si badi, ma le stupisce) sia riferibile, come analogia, al prender corpo nell’arte e grazie a essa di quel “sentiment de l’infini”. Misura, sì, ma misura stupefatta. Sono passati molti anni da queste considerazioni dei grandi poeti e scrittori d’arte. Non sono certo un conservatore né in arte né in vita. E oggi non si tratta di ribadire una dinamica (conservazione/modernità) che tanto in arte quanto in vita non ha nessun senso. Sono categorie comode e perciò spesso banali. E così come il grido tra sarcastico e irridente “occorre essere assolutamente moderni” (come esclamava tra ironia e sconforto Rimbaud…) è dato per insensatezza, lo è pure il contrario, d’essere assolutamente conservatori. Il processo che Ungaretti indicava non appartiene come caratteristica al viaggio dell’arte nel tempo che possiamo chiamare, per comodo, modernità. Non è insomma la modernità in quanto tale quel che Ungaretti accusa, bensì, il prevalere all’interno di essa, a partire da zone e elementi parziali, di spinte, ideologie, modi e stili (ben supportati e finanziati, a differenza di altri) che producono opere consone a tale idea di astrazione, o concettualizzazione replicabile. Ovviamente, la parola astrazione non fa riferimento a una modalità espressiva non imitativa, ovvero non mi riferisco a segni non figurativi che non per questo cancellano in se stessi la realtà. C’è più realtà e palpito di sangue e vita in un sacco di Burri che in un ritrattino modesto o in una ennesima natura morta. Il fatto è che la modernità è ben più vasta di quel che spesso si racconta (e non a caso per potersi continuare a raccontare parzialmente e schematicamente è divenuta ben presto postuma a se stessa). Ora dunque, all’interno di un campo spacciato come unico della modernità, e ben rifornito di attenzioni e affettuosità economiche e mediatiche, le cose sono progredite in tale senso di astrazione concettosa, di de-realizzazione. E poiché l’arte ha il destino di sintetizzare o meglio di illuminare tutti i campi della vita umana, pareva e pare che per destini e volontà manifesti e occulti, per accelerazioni violente, per omologazioni e per interessi voraci, tutti i campi della vita stiano subendo questa pioggia potente di astrazione. Le guerre si fanno per i materiali dei microchip, non più solo per la conquista di pianure e laghi. Si badi: una certa de-realizzazione dell’essere umano e della sua vita han preso terreno ben prima in certi quartieri dell’arte che negli hangar o nei mitologici garage della invasione tecnologica. Da sempre, una tentazione alchemica, spiritualista, gnostica tenta di annullare il peso della materia vivente, la sua gravitas. Tenta di annullare la carne. La leggerezza pare una legge continuamente invocata, e un obiettivo ineludibile. Ma non è una leggerezza d’animo frutto di ascesi, bensì la leggerezza della distrazione tragica, il salto che nega la carne e con essa la morte, e inevitabilmente deve negare la nascita. Rendendo programmabili morte e nascita, si rende meno presente, meno tragica, meno eventuale, meno reale la carne. Insomma una leggerezza assicurata apparentemente dalla tecnologia in mano a un uomo senza speranze se non nella tecnologia medesima come nuovo dio della storia. E l’arte asservita, e apripista. Ma a me non interessa la leggerezza che distrae, mi interessa la gentilezza che conosce a fondo. Ora dunque appare gigantesca, quasi imbattibile l’onda dell’astrazione. Per essa vige il puro valore del numero, come se ciò è “molto” fosse anche “molto bello, o valoroso, o intelligente”. Logica puramente finanziario-economica del mondo. Ci vogliono figli di N.N. del numero e del narcisismo, ovvero il culto dell’immagine di sé, culmine …

Appunti sul Cantico dei Cantici

Appunti sul Cantico dei Cantici

I Innanzitutto, mi sorprendo. Mi arrendo. E tutto diventa movimento. La forza di questa poesia arriva come pietra nuda. Magnete. E violentissima onda. Questo testo remoto, a cui s’appigliano e da cui crollano, precipitano i commenti delle più grandi menti della storia dell’umanità, da Origene ad Agostino, da Bernardo a Gregorio, da Teresa d’Avila fino ai giorni nostri, questo testo nato nelle sperdute campagne della Galilea migliaia di anni fa parla di me. Di noi. Perché noi sappiamo cosa è: “tu mi hai rapito il cuore con uno sguardo”. Sì, io, noi sappiamo cosa è le tue “labbra nastro di porpora”, “i baci dei tuoi baci”. Noi sappiamo, è per noi, è in noi il dire o il sapere dell’“ombelico come coppa rotonda che non manca mai di vino drogato”, “i tuoi seni due cerbiatti”. Mi sorprendo, mi perdo, mi ritrovo, mi perdo ancora quando leggo: “un re è stato preso tra le tue trecce”, “il tuo ventre un mucchio di grano” “i seni come grappoli d’uva”. Ed è scritto lì quel che è scritto in noi, sappiamo che nulla fa vivere e morire come il voltarsi – nella fuga di secoli o di portici – della persona amata: “volgiti Sulammita”. Sono parole che dicono di noi. La ricerca dell’amata e dell’amato presente e assente. Che non ci basta mai. “Dove sei…” “Fuggi…”. Cantico della presenza e della assenza, cioè del desiderio che non si placa mai. Per questo cantico dei mistici, da Teresa d’Avila che pianse di non poterlo leggere in spagnolo, a causa dei decreti del concilio di Trento, a Giovanni Paolo II, poeta e lettore del linguaggio del corpo. II Il Cantico arriva dalla remota regione degli inizi. L’amore è questione degli inizi. È sempre questione dell’iniziante, della vita nel suo primo posizionarsi, del suo primo emergere. Sei come ami. Non a caso il Cantico è legato al Libro della Genesi, è un espandersi di un suo momento nel capitolo 2. Anche il poeta pagano Lucrezio sa che la nascita di Venere riguarda gli inizi del mondo. Gli inizi sempre, il sorgere della natura delle cose. Il sorgere della natura di ogni cosa. Mi stupisco del Cantico, ci cado dentro. Vieni. E significa un viaggio di conoscenza a riguardo degli inizi. III Noi sappiamo che alla donna amata a un certo punto sorge da dire “amata”, e poi “sorellina”, – “sorella” perché senza fraternità non c’è amore. Complicità dicono banalmente, ma è di più – è la trasformazione della visione della persona amata, desiderata e oggetto di passione, in compagna di viaggio. In qualcuno di presente e assente per cui vale la pena sacrificarsi. Paradosso dell’amore: essere io tanto più cresci tu. È di me, di noi che parla il Cantico. Sappiamo che “l’amore è forte come la morte”. La stessa ineluttabilità. La stessa forza. Che conduce dove non si sa. Gli antichi (fino al Medioevo) leggevano il termine “amor” latino così (“amor mi prese” dice Francesca nel V Inferno di Dante). L’uomo non può nulla per contrastarla, e difatti di fronte ai suoi rapimenti l’uomo medievale – come ben documentano le parole dei poeti, e la storica Régine Pernoud e la stessa poesia di Dante – era preso da compatimento più che da condanna. L’amore non è un sentimento, ma una forza. Lo sa chiunque è nel suo vero inizio o nel pieno. L’amore non è “quel che proviamo”, come sentimento. Il nostro “provare” è la prima conseguenza dell’amore. Che arriva e avviene. Quando si confonde l’amore con “quel che proviamo” si entra nella banalità, di cui si nutrono infiniti luoghi comuni. L’amore è la forza che muove in noi certi sentimenti, è la presenza che li suscita. Può accadere che i nostri sentimenti siano intorpiditi, divaganti, distratti. È normale, è inevitabile che sia così – poiché i sentimenti sono la parte più “reattiva” di noi, sono l’alone con cui avvertiamo i colpi le seduzioni le dolcezze le durezze della vita. I sentimenti per fortuna registrano la vita, sono la prima messa a fuoco di quanto ci capita. Ci fanno sentire la vita. Ma sono appunto la parte più impressionabile e volatile, la materia più malleabile e leggera, cangiante e mobile. Stupirsi come fa qualcuno che i sentimenti cambino è come stupirsi che l’aria sia l’aria. I sentimenti cambiano, ma non la nostra possibilità di riconoscere la forza di amore. Che sempre è stato visto come un Dio, una presenza che ci prende e ci porta dove non sappiamo. I sentimenti possono cambiare, ma ciò non significa che non ci sia l’amore. La forza dell’amore agisce dapprima su sentimenti (amor-eros) poi anche sul cuore inteso come sede del giudizio e della coscienza più profonda, divenendo anche altro. Le trasformazioni dell’amore – che si muovono nello spazio disegnato del Cantico di desiderio della presenza dell’altro, che è cosa ben diversa dal possesso- sono segni di vitalità dell’amore. È forza che una certa presenza suscita se noi davvero la consideriamo. Quante volte dobbiamo traversare la foresta della volatilità, della distrazione dei nostri sentimenti per rimetterci davanti alla forza che ci suscita la presenza amata di un figlio, di una compagna, di una moglie, di un amico – l’amore è uno, non è solo eros, ma ha un movimento unitivo, resta eros anche fondendosi ad agape, resta desiderio anche diventando fraternità. In Romagna abbiamo una parola (“trasporto”) che indica quanto si prova come movimento amoroso (Signorina, sento del trasporto per lei…) ma anche l’estremo viaggio, il funerale (ne parla così anche Pascoli). In entrambi i “trasporti” non siamo noi a decidere di andare né dove andare. “L’amore è forte come la morte”. E sappiamo che la passione – il primo movimento, il primo sentimento che amore ci suscita a riguardo della persona con cui ci si presenta – “è tenace come gli inferi”. Non è un caso che i traduttori del Cantico a volte usino “gelosia” in luogo di “passione”. Entrambi i termini indicano una forza di possesso. Tale passione tenace come i luoghi inaccessibili dell’aldilà (gli inferi …

Arte e sacro. Intervento al convegno di Firenze degli scrittori cristiani

Arte e sacro. Intervento al convegno di Firenze degli scrittori cristiani

Sintesi dell’intervento del novembre 2011 Quando mi capita di riflettere sul rapporto tra Bibbia e poesia, tengo a mente un avvertimento, che mi insegue fin dai tempi di studi universitari e dalla lettura di saggi come quelli di Frye ma anche di Bloom e di altri, comprese le riflessioni di Luzi e altri poeti miei maestri, come Testori e Bigongiari, che voglio ricordare qui a Firenze. Il primo fu tra l’altro autore di una splendida via Crucis oltre che di una introduzione illuminante sulle Lettere di Paolo e suoi scritti sul Grande Libro sono stati recentemente raccolti. Il secondo qui a Firenze fu fischiato per il suo teatro violentemente ispirato a eventi biblici, come l’Erodiade e fu poeta traduttore della lettera ai Corinzi. Il terzo, Bigongiari, in un suo bel testo “Col dito in terra” riflette poeticamente sull’unico momento in cui Gesù scrive da quel che sappiamo nei Vangeli. E scrive qualcosa che non sappiamo nella polvere. L’ammonimento è che la Bibbia non è letteratura; certamente non la si può leggere come un testo letterario. C’è una differenza sostanziale – per chi lo affronta senza dimenticarsi d’esser credente – da qualsiasi altro testo umanamente ispirato. Me ne accorsi sulla mia pelle dando dieci anni fa una versione dei salmi, edita da Marietti. Nella Bibbia parla una storia speciale. Non inventata dall’uomo, potremmo dire, ma da Dio. Molte sono naturalmente le referenze, i rimandi di tanta poesia di tutti i tempi e contemporanea a quel testo. Il Cantico dei cantici, come poema di lode, è stato ripreso da vari autori, anche in epoca recente. Eppure oggi – come ricordava Claudel – non si trova quasi mai in letteratura la “lode”. Pare che siamo in una terra desolata. Eppure il poeta C. Miloszc in una sua bella lirica intitolata Caffè Greco, afferma che la letteratura sarà riscattata dall’Inno. Trovo interessante questo spunto di Miloszc, provocante per chi avverte una stagnazione. Così anche Giobbe, è stato spesso usato – più o meno impropriamente – in letteratura per sottolineare la sofferenza, ma alla fine l’uso retorico smodato del testo archetipico biblico ha prodotto quasi un annullamento del tema del giusto che soffre in letteratura. Non una sparizione, ma una diminuzione di forza. Quindi oggi è difficile la lode, così come la descrizione della disperazione. Ma non possiamo evitarlo e dunque non eviteremo né il cantico né il libro di Giobbe. Che cosa arriva a noi dunque essenzialmente dalla Bibbia e come ci dovremmo porre noi oggi? Sarà utile trarre spunto dal celebre saggio Atene e Gerusalemme di Sergej Averincev, in cui si osserva, tra l’altro, che il mondo occidentale – sul modello ellenistico – va sempre alla ricerca di un autore. L’autore di un’opera letteraria ma anche di una biblioteca. Autore è un termine rischioso: indica uno che aumenta, che fa crescere la coscienza del lettore. La Bibbia sfugge all’idea dell’autore nel senso greco. Gerusalemme, per dirla con Avernicev, introduce una esperienza dell’autore per cui abbiamo Davide che è, ad esempio, re e salmista. O il profeta, o l’autore la cui vera identità non conta o si perde o coincide con una figura “tipica”. In questo quadro, un autore cristiano da cosa è inquietato e ferito dal rapporto con la Bibbia, oltre che dagli infiniti spunti e dal valore di quanto raccontato? Probabilmente ci tocca essere autori meno preoccupati della nostra sorte di autori in termini ellenistici, e di più in termini “biblici”… Autori, aumentatori di qualcosa negli altri piuttosto che di noi stessi. Ma cosa possiamo offrire di fertile, di originale nel nostro essere autori? La nostra è un’epoca dominata dalla letteratura moralista/sapienziale. I libri che van per la maggiore secondo le mode imposte dal potere dominante sono quelli ad alto contenuto moralistico o sapienziale. Gli esempi sono tanti. Un libro è buono perché denuncia moralmente qualcosa, o perché indica vie di sapienza. In questo senso la letteratura viene ritenuta valida se denuncia il male (naturalmente quello che il potere dominante decide che è male – dunque la camorra, non l’aborto, ad esempio) e se offre vie per diventare eletti, in un mix di varie confuse spiritualità. E dunque quale può essere oggi il contributo effettivo alla letteratura di uno scrittore cristiano? Solo quello di tagliarsi la propria parte nel bazar morale/sapienziale? Si tratta di aggiungere la nostra parte di letteratura morale a quella imperante? Una postilla. Oggi si dice che il cristianesimo è minoritario. Lo è nel senso che la proposta morale che nasce dal cristianesimo pare comunicata e vissuta in modo minoritario. Ma il cristianesimo non è una morale, anzitutto. È l’annuncio di un evento che cambia il modo di vedere la storia e l’uomo. Un modo positivo, dove la libertà di Dio e dell’uomo possono incontrarsi. Il fascino suscitato in tanti dalla rilettura di Dante fatta dal mio amico Benigni è il segno che il cristianesimo parla a tanti, e molti sono i segni nell’arte contemporanea di una vera fame di Cristo. L’autore cristiano non si qualifica perché dà un contributo particolare alla letteratura morale. Sta tutto nel mettere in gioco la propria vita di cristiano, la propria esperienza di fede nella sua scrittura. Lo scrittore cristiano scrive ciò che vive, vedere il mondo come è, come lo vedono anche altri – pieno di scandalo, di male, di pena e di cose meravigliose – solo che per me, per chi è cristiano qui agisce come protagonista della scena Gesù. La scena del mondo che il cristiano vede e descrive non è né meglio né peggio in sé di quello che possono fare altri. Un esempio meraviglioso noi italiani ce l’abbiamo ne I promessi sposi di Manzoni. Ma accade anche nel cristiano Baudelaire, nel cristiano Dostoevskij, nella cristiana Flannery O’Connor. Solo che vede in questa scena bella e tremenda muoversi un protagonista nuovo. E questo – solo questo – fa diverso quello che scrive. Poesie da Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1976 È tutto un crollare, un inginocchiarsi o forse un curvarsi, o stringere in petto. …

XII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”

XXIX Alla vasca di Betsaida È dall’ultima Pasqua che Gesù con i suoi non veniva qua. In primavera la gran città di Dio era più dolce, meno febbrile. Vicino a dove stanno passando ora, dietro la fortezza Antonia, Gesù aveva guarito un paralitico. Pietro lo ricorda. È successo alla vasca di Betsaida, la più piccola delle cinque grandi vasche di raccolta di pioggia della città. In quel luogo dedicato ad Asclepio, il dio greco della salute, sostano malvissuti di ogni genere in cerca di un po’ di refrigerio, tenuti dalle guardie lontani dal bordo. Ogni tanto una donna buona o un uomo pio allunga loro un bicchiere o uno straccio bagnato. Nei pressi di quel luogo, la città dei preti, dei mercanti e dei soldati di Roma, diventa un luogo strano. Una zona senza regole, dove ci sono movimenti come di lucertole, nodi informi, di topi, uomini che strisciano si spingono si urtano. Malvissuti e malati, con zaffate di fetore e mugolii, scatti di rabbia, grugniti. Mezzi bisbigli. E ogni tanto il ribollire di acque. In primavera dunque, nei giorni prima di Pasqua, un uomo sciancato e immobile se ne stava là in mezzo, sperduto con il viso all’aria. Gesù era voluto andare presso la piscina e aveva atteso il momento in cui secondo il popolo un’ala d’angelo passa sulle acque, quando sale un ribollire che in realtà viene dal fondo della fonte. Pietro se lo ricorda bene. Aveva cominciato a ribollire l’acqua. «Passa l’angelo» avevano biascicato alcuni. E i malvissuti e i disgraziati cominciarono a spingere, a strisciare, tra versi, preghiere e imprecazioni. Qualcuno addirittura colpiva i vicini per farsi largo, con un bastone, steso a terra. Quasi tutti avevano chi li aiutava, un parente, un compagno di sventura, una donna. Quel tizio invece se ne stava fermo a terra, steso, fremente. Non poteva muoversi. E non aveva nessuno che si curava di avvicinarlo al bordo della piscina miracolosa. Gesù si mise accanto a lui. L’uomo aveva la faccia storta, sbavava, tremante. Lunghe rughe gli solcavano la fronte e le guance. Le braccia rattrappite erano scarnite. Le gambe percorse da una specie di tremito febbrile. Un nodo di panni lo copriva a malapena. Aveva la barba lunga, che aveva invaso quasi tutta la faccia. Due occhi cisposi e i capelli appiccicati e lunghi. Due lacrime per lo sforzo di provare a scivolare sulla schiena o per chissà cosa gli scendevano di lato. Intorno gli altri strisciavano e si allungavano. Gesù gli aveva chiesto: «Vuoi guarire?». L’uomo aveva roteato lo sguardo malato nel cielo bianco e lattiginoso, cercando il volto di chi parlava e di tenere fermi gli occhi avvelenati sullo sconosciuto ben vestito che si era curvato su di lui. Dopo un istante, aveva fatto un impercettibile sì con il mento. Gesù prendendolo quasi in braccio lo aveva sollevato. Pietro e gli altri avevano visto. L’uomo sollevato tra le braccia di Gesù barcollava, rideva. Come un bimbo invecchiato. Come se stare in piedi dopo anni e anni di prostrazione lo stupisse e quasi lo divertisse. Sembrava un saltimbanco un po’ fuori esercizio. Ci fu un caos, un imprecare. Gli altri malati e le persone che si trovavano in quel luogo infernale cominciarono ad agitarsi e a gridare. Qualcuno provò ad aggrapparsi alle vesti di Gesù, ma lui, dopo aver detto qualcosa all’uomo che aveva guarito, era sparito via veloce. Pietro lo ricorda, era di Sabato, e subito qualcuno aveva iniziato a gridare al sacrilegio. Passando ora ancora vicino alle vasche, Pietro vede che lo spettacolo non è cambiato. Grappoli di ammalati, di disgraziati che incanagliscono lì, strisciano, tenuti lontani dalle altre vasche dai soldati. Poi dopo quella Pasqua, Gesù aveva fatto un’altra cosa sconveniente. Pietro, mentre cammina ora per Gerusalemme, ci ripensa, quasi sorridendo. «Andiamo in Samaria» aveva detto il Nazareno mentre scendevano dopo l’insegnamento al Tempio. E i dodici discepoli, quasi tutti Galilei, avevano pensato: “Ma allora quest’uomo cerca guai. Cosa può venire di buono da quella regione di malfidati e di avidi?”. Già prima di arrivare allora a Gerusalemme avevano provato a entrare nei villaggi di quella regione di gente con poca voglia di lavorare e dai costumi arretrati, ma ne erano stati scacciati. E lui, ecco, ci voleva tornare. Forse il sentore di scontro con i farisei e i sadducei consigliava Gesù di togliersi per un po’ dalla Giudea. Pietro ammira il coraggio di Gesù. La forza con cui va contro i luoghi comuni, le usanze. Ma in pochi facevano attenzione davvero e capivano che cosa animava quello strano uomo. E i dissidi con i sacerdoti facevano mormorare tanti. Raramente qualcuno lo difendeva. Era successo con un vecchio membro del Sinedrio, Nicodemo. Aveva alzato la voce nel cortile del Tempio in sua difesa. Ma i suoi colleghi sacerdoti non lo avevano ascoltato, era rientrato nella folla. Gli scontri si moltiplicavano. Ma evidentemente non era questo che cercava. E così: «Andiamo in Samaria» aveva detto, sorprendendoli ancora. Cosa sta cercando? Si chiede Pietro mentre si addentrano nuovamente nella città grandiosa e tremenda e lui, come spesso gli accade, pensa ai giorni trascorsi. Anche lui sta cercando di capire. Di vedere che cosa veramente sta succedendo. A volte teme quasi che il cuore e la mente a furia di allargarsi si perdano. La Samaria era apparsa come sempre, una terra dolce, animata da movimenti di colline, molti tipi di alberi. Fianchi di colline su cui corrono ulivi e ulivi e ulivi. Sta lì, a separare l’aspra Giudea di pastori, deserti e montagne e la Galilea, ricca d’acqua per la pesca e schiantata nella roccia. Il cammino era stato percorso rapidamente. Come se Gesù avesse fretta di arrivare là, forse per visitare il pozzo di Giacobbe, presso il villaggio di Sichar. A quel pozzo si era radunato il popolo di Israele prima di entrare nella Terra Promessa, guidato dal fratello di Mosè, il condottiero che non entrò mai nel suo sogno. E ora invece il Nazareno si fermava lì, uscendo dal sogno di Gerusalemme. Arrivati al pozzo, accaldati …

Viandanti sperduti. La preghiera alla Vergine

Viandanti sperduti. La preghiera alla Vergine

Matera, 10 settembre Introduzione: Buonasera a tutti, grazie per l’invito e grazie per quello che state facendo come segno positivo per la cultura italiana; perché il fatto che si sia riunita molta gente in un posto bello come Matera per leggere insieme Dante è un segno positivo per tutti! Avete voluto scrivere “lectio magistralis di Davide Rondoni” ma, evidentemente, io sono un poeta. Scrivo poesie, non ho lo standing – come direbbero gli inglesi – per questa lectio. I miei saranno appunti, da scrittore, da poeta, se volete. Avevo intenzione di fare alcune premesse poi leggere il testo di Dante. Perché questo bisogna fare, stare sul testo. La prima cosa: Dante è visionario: Uno dei motivi dell’attrazione che Dante continua ancora ad esercitare a dispetto di tutto – perché tanti sono gli elementi della sensibilità contemporanea che effettivamente ci allontano da Dante, dal suo tempo, dalla sua cultura – a tutti i livelli, anche i più giovani ne sono attratti, è il fatto che la sua voce abbia dentro una cosa che chi è vivo, chi non si è ancora addormentato, avverte. E cioè il senso del rischio. Dante è un uomo che inizia un viaggio perché percepisce dentro di sé un grande rischio, perché si accorge di aver sperimentato la vita come rischio, come cosa non scontata, come cosa in cui c’è l’eventualità di rischiare e di perdere. Qualsiasi uomo vivo avverte questa cosa perché la vita è un rischio e la materia di questo rischio è il senso stesso dell’esistenza. Dante inizia questo viaggio, dalla selva, perché riconosce di essere in una situazione di sperdutezza, di rischio; perché ha vissuto un’esperienza che noi tutti un po’ conosciamo, per questo parla un po’ a tutti, nonostante la distanza, perché lui ha vissuto l’esperienza di aver visto un miracolo, Beatrice: “cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare.” Una cosa meravigliosa, una cosa bellissima, ha visto questa cosa e poi l’ha persa. Poi lei è morta. E quindi Dante si trova nella situazione di uno che dice: “Beh, cos’è la vita, cos’è questa cosa, questo viaggio in cui mi è data una cosa, un miracolo, e poi mi viene tolto? Che cos’è?” Dante è mosso da questa domanda, domanda rischiosa. Vuole conoscere che cos’è questa esistenza in cui ha incontrato un miracolo, che per lui è Beatrice ma può essere tutto. Un bene grande, una madre, un figlio, un padre, che all’improvviso viene meno, va via. Dante è sperduto nella selva perché sta cercando una risposta a questa domanda. La selva è un grande topos dell’iniziazione, come sapete. Dante si trova in questa condizione perché ha vissuto questa grande esperienza di perdita. Tant’è vero che scrive quella frase che a me fa tremare i polsi ogni volta che ne parlo, la scrive al termine della Vita Nova – dove racconta questo fatto di aver incontrato e perso B.: “Io spero che Dio mi dia abbastanza giorni per scrivere di lei quello che nessuno ha mai scritto per nessuna”. Questo lo scrive perché capisce che tutta la sua vita sarà un grande tentativo di mettere a fuoco cosa è successo nell’incontro con B.; perché, scusate, cos’è la Divina Commedia? È un viaggio. Un viaggio che un uomo fa per arrivare fino in faccia a Dio, in fondo all’essere, alla vita, per vedere cosa c’è. Lo fa rivedendo tutto, rigiudicando tutto, la sua vita e la storia. Lo riguarda e lo rigiudica. Perché la vita se non la giudichi non diventa esperienza. Dante riguarda tutta la sua esistenza e la rigiudica. Perché attraverso questo viaggio fa diventare esperienza significativa la sua vita. Come fai ad andare fino in fondo alla vita? Puoi soltanto vivere intensamente il reale, per cercare di arrivare a capire cosa c’è in fondo. E questo Dante lo fa muovendosi lui, ma ce lo mostra. Sente di fare parte di un tutto e mentre si muove lui, a differenza di quello che sentiamo noi di questa epoca, sa che si muove tutto. Le costellazioni, le stelle, le stagioni, perché è un uomo che sente che tutto è in moto. Dante si sentiva parte di una grande scena, in cui c’è il sole, le stelle, i pianeti. E tutto si muove. Perché dico questo? Perché Dante è un poeta visionario, e cosa vuol dire, relativamente a Dante, avere una visione? Dante ha una strana elezione sicuramente, è un poeta, uno sciamano, un beato, un po’ tutto… Per avere una visione o hai fatto uso di sostanze allucinatorie – e sono visioni a vanvera – o, ed è il caso di Dante, guardi il mondo, vivi il mondo, come una scena. E sono visioni che introducono al vero, al livello più profondo del reale. E cosa vuol dire vivere il mondo come una scena? La parola scena la usa anche San Paolo, non a caso. Guardare il mondo come una scena è chiedersi cosa abbia a che fare una cosa con l’altra, come gli eventi siano collegati. Come quando sei a teatro e guardando quanto accade ti domandi, per quanto in segreto o implicitamente, come le cose che vedi siano misteriosamente legate. A volte – e sono i film più avvincenti – il senso della scena in cui si sono succedute cose, colpi di scena, cose tremende e cose meravigliose, si comprende all’ultimo momento, pur se intravisto per un attimo. Se non guardi il mondo come una scena non puoi avere la visione. Avere la visione non vuol dire spiegare il mondo con una formula. Vuol dire avere colto il senso, direzione, destino. Senso vuol dire anche qualcosa che riguarda il sentire… In Dante questo problema della visione è importantissimo. E la condizione della visione è guardare il mondo come una scena, anche misteriosa. Il punto dove volevo arrivare è questo: il viaggio di Dante è visionario. I critici ancora si accapigliano per definire se avviene in sogno, se è una visione, o solo una finzione, un racconto di visione. Noi non siamo più tanto abituati a vedere la vita …