Con Rimbaud nel petto
Nel cuore del nostro tempo c’è una notte, una vertigine. Come c’è stato il viaggio dantesco, così, ora, c’è il viaggio di Rimbaud. C’è, nel petto del nostro tempo, una “insignificante” (“adolescenziale” dicono quelli che, protetti da una presunta maturità, ne vogliono scansare i colpi) notte o stagione all’Inferno. Nel cuore della modernità (e delle sue messe in discussione) c’è un poeta all’inferno. C’era già stato, dunque, anche il poeta all’inferno-purgatorio-paradiso; ma allontanatosi dal timore e tremore per il Mistero che l’Evo cristiano riconosceva in tutte le circostanze, il cuore ora meravigliato per le vie fumose e cittadine, meravigliato dall’assenzio e dalle metafisiche rivoluzionarie patisce – rotti i ripari di un’educazione ormai solo formalmente ossequiata – il senso della noia di se stesso e che, giunto alla soglia dell’ignoto, su quel orizzonte “crolla”, perdendo il senso delle “visioni” che vi si aprono, come dice nella famosa Lettera del veggente. Non a caso, come insegna il maggior poeta italiano vivente, il poeta giovane di Charleville è l’unico che si può accostare in una speciale vicinanza-lontananza all’esiliato di Firenze. Sono due poeti, due viaggi ove l’auctor e il personaggio coincidono, dove cioè vale l’esperienza, e dove alla prova dell’esperienza sono sottoposti tutte le verità presunte. Perciò sono i più vicini al lettore. Non si dimentichi che la Saison («relation d’un combat spirituel») è l’unico libro che Rimbaud volle espressamente pubblicare1. Una vertigine è nel petto d’Europa, un andirivieni sempre in cerca, uno sporgersi continuo verso il possibile – c’è un uomo, “mystique à l’etat sauvage” che il giorno prima di morire chiede alle Messaggeries Marittimes a che ora dev’essere trasportato a bordo per ripartire. Se è vero che l’orgoglio intellettuale umanistico fu il veleno con cui la ragione e il cuore umani vengono occlusi al senso del mistero; se è vero che Baudelaire segna l’inizio della modernità perché canta la Noia di una vita tragicamente “duale”2, con la splendida nenia cui quanti si accoderanno ma con meno dolore e più “filosofia”, è innegabile che la resa poetica più efficace di tali ragione e cuore annoiati-drogati si trova nella Saison di Rimbaud. Lì tutto “cede”. In quel “Libro pagano” sono date con gesto infermo e perverso e dolce le crisi della religione, dell’amore, della scienza, della memoria, del sogno, dell’arte: alla metodica e pur fulminea verifica a cui li sottopone, nessuno di questi fattori dell’esperienza umana appare in grado di avvicinare Rimbaud al suo “destino di felicità”, a quella “salut” tanto desiderata e immaginata quanto misteriosa – il ragazzo, evidentemente, è dentro una catastrofe, come Amleto, nota Bonnefoy. “Gli Angeli, ha scritto un giovane e acuto lettore di Rimbaud, sanno subito e da sempre”3. Tutto cede, perché nulla basta all’uomo che cerca se stesso: “voglio la libertà nella salvezza. Come perseguirla?”. Proprio dove sembra toccata l’oscurità più densa dei segni e delle parole, il senso si fa chiaro, lampante. Rimbaud è tutto men che oscuro. Dichiara fin da subito la “chiave” per ritrovare l’innocenza perduta: “la carità è questa chiave”. Immediato, esatto – quasi paolino, cioè proprio come S. Paolo nel suo “inno” (scandaloso culmine anche per un altro grande maledetto, George Trakl e per il nostro Pasolini – sarebbe interessante studiare la strana attrazione tra S. Paolo e i punti estremi della letteratura). Affermazione straziante per l’impossibilità a che essa tale “chiave” sia realmente utilizzabile – e non un sogno. Nei versi di Rimbaud c’è il “‘metodo’ per poter inchiodare ai colori le nostre parole, la nostra pratica del mondo”. Egli non affronta nessun tema nuovo. Parla di ciò di cui tutti parlano. Risulta più utile di Socrate per conoscere, oggi, qualcosa di noi stessi. Rimbaud, che ha creduto tutto intorno a sée di sé, si tende nel moto del partire. Il suo viaggio non sarà né un’a-scesi, né un itinerarium mentis, né un voyage autour de sa chambre; quasi a fissare una grande e semplice allegoria, il suo brancolare voyante sfinirà in un viaggio avvolto nel mistero. Il viaggio in Africa, più che un atto di post-letteratura o di ribellione definitivo, non è altro che lo specchio della poesia della discesa agli inferi, del brancolare addosso alle cose e alle persone alla cerca della “salut” nella libertà. “Mon sort dépende de ce livre” ha lasciato detto4. È un ribelle tipico, dicono, proprio perchè non ha trattato temi nuovi. è vero. Ma come Van Gogh, ha messo -o meglio ha sorpreso- le cose in una luce da cui difficilmente usciranno, estrema, che noi avvertiamo solo a barbagli, confusamente. La luce della “faiblesse”. “La cultura europea, ha scritto in un bel saggio su Rimabud Mario Luzi – a cui peraltro rimandiamo il lettore desideroso di seguire in la filigrana delle parentele e delle corrispondenze del poeta della Saison con la situazione poetica italiana ed europea5 – ad essere franchi, sentiva la mancanza di una eresia”. Già Baudelaire aveva mostrato una “enorme capacità di soffrire” (Eliot6), aveva ridato cittadinanza al senso profondo del peccato originale, di quell’entropia o “caduta” che riguarda ogni “elan” ogni “beauté”. Specialmente in Rimbaud, non si tratta di una morbosa compiacenza del “limite”: infatti, quanto più è acuta la percezione di una “salut” promessa dalla vita (il festino della giovinezza), tanto più la mancanza di energia per raggiungerla è vissuta come pulsar o buco nero, come “il” problema dell’esistenza (essere “un negro”, una razza inferiore, vittima di uno “straziante infortunio”). L’INFERNO DELLE UTOPIE In Rimbaud questa “malattia della volontà” è all’origine dell’inferno, mina ogni utopia: l’inferno di Rimbaud non è “strictu senso” l’inferno cristiano, semmai il contrario, è non-cristiano, è l’inferno di ogni presunto paradiso ottenibile grazie allo sforzo morale, sensuale, intellettuale e religioso. Il paradiso (e l’inferno) cristiani dipendono invece dall’esito di un incontro con la Grazia, di un incontro misterioso con Qualcuno che non proviene da un’iniziativa umana. È un incontro di cui in tutta l’opera rimbaudiana non c’è traccia, essendo il Cristo che ha conosciuto “un suocero”, “nato insieme a M. Proudhomme”, una specie di “dichiarazione della scienza” che autorizza l’uomo a fingere, ad aver maschere. Eppure, paradossalmente, l’inferno di Rimbaud, come scrive in “Mattino”, “era davvero l’inferno; …