Poesia è il contrario della lingua morta. Siate controcorrente

Poesia è il contrario della lingua morta. Siate controcorrente

Discorso tenuto al premio Niccolò Bizzarri di Firenze nel 2023 Poesia è il contrario della lingua morta. E ciò che vive, muove, a volte provoca, spesso crea contrasti al livello giusto, cioè i contrasti senza violenza, senza disprezzo, i contrasti come i temporali che creano luci prodigiose, e bagnano i boschi e i campi. Ci sono poeti che assecondano i pensieri dominanti delle cosiddette élite culturali e altri che si trovano ad andare contro il pelo dell’epoca. Non è detto che gli uni siano più bravi a scrivere degli altri (del resto la bravura a scrivere non è nulla in poesia, è ovvia, è la base necessaria, contano le visioni e la loro traduzione) e le sorti possono essere alterne. Dante da Firenze fu esiliato, e di certo alcuni di noi non avranno recensioni sul Corriere della Sera o su Repubblica. Petrarca invece fu meraviglioso poeta di “corte”. Oggi certi poeti vengono letti addirittura a Sanremo, catturati dalla società dello spettacolo ovvero dalla cosa meno controcorrente che ci sia. Il potente festival di Venezia di quest’anno premia un ennesimo film che invita a morire, il premio degli amici di Nicco amplifica il suo invito a onorare la vita in qualsiasi condizione. Il patrono degli artisti Beato Angelico (e credo sia meglio aver patroni in cielo che padroni sulla terra) dipingeva per dar “spettacolo” all’anima di uno solo, che abitava le cellette da lui dipinte. Montale diede voce in modo mirabile al pensiero delle élite dominanti del suo tempo, Ungaretti no, diede voce alla sua anima nomade e inquieta, e fu “grido unanime”. Il Nobel – danaroso premio autointitolatosi dall’inventore di esplosivi terribili a uso militare – fu dato a Dario Fo, non a Mario Luzi (di cui quest’altr’anno ricorrono i 20 anni della morte e peste colga il comune di Firenze se non lo onora adeguatamente) uno dei più grandi poeti del ‘900. Lui scriveva sommesso e più potente di ogni esplosivo: poesia “cantami qualcosa pari alla vita”. Ovvero poesia pari alla esperienza umana reale, non condiscendente alle ideologie che vogliono ridurre l’essere umano a pura biologia e dunque la poesia a mera capacità o gioco linguistici. Siate dunque controcorrente, vi auguro, fate poesie con l’anima non solo con la letteratura, fate figli, fate casino, fate le vostre personali opere e fate anche insieme e non da soli, siate persone non individui, seguite Virgilio e Dante, fate poesia che sanguini come la carne che avete e di fronte a cui scrivete (compresa quelle bizzarre, non solo di cognome, come quella di Niccolò), e scrivete cose che valgano dinanzi alle sofferenze delle persone, che valgano dinanzi al miracolo delle stelle che non avete creato voi, componete, non seguite un’epoca che crede solo nella decomposizione e quindi solo nella morte. Credete nella parola che crede nella vita e la anima, la serve, la invoca, la osserva, la patisce, la ama. Siate contro questa epoca che nega le parole elementari. Che nega le evidenze e il sacro della realtà in favore delle astrazioni, come diceva Pasolini. Siate brutali come Rimbaud, mistici selvaggi come lui, non abbiate paura. Non fatevi fregare da sottobosco e invidie e piccole vanità. Siete a Firenze, qui hanno camminato Dante, Michelangelo, Luzi, Bigongiari, Annigoni, Michelucci… Non paragonatevi con la piccolezza. Siate dunque veramente umili, cioè affamati di grandezza non mondana, di assoluto, di infinito. Se la poesia non è questo, è roba ridicola. E invece è questo – il ritmo misterioso della voce umana che indaga il ritmo misterioso della vita.

Dino Campana, Canti Orfici: un libro talismano

Dino Campana, Canti Orfici: un libro talismano

Un libro, un talismano. Una rosa, una ferita. Una fiammata, un bosco. Questo, e molto altro sono i Canti Orfici. Ora escono meravigliosamente stampati con allegate lettere inedite che fanno commuovere dalla cura tipografica di Enrico Tallone, erede e continuatore della famiglia di editori più raffinati d’Italia. Alla sua proposta di accompagnare il talismano ferito con le mie povere pagine di introduzione non potevo dire di no. Non solo perché una edizione simile, ma senza questi inediti che bruciano tra le dita, già era stata accompagnata quarant’anni fa da pagine di Mario Luzi, mio maestro e lettore acceso dalla medesima “conoscenza per ardore” campaniana. Ma anche perché a Campana occorre sempre tornare. Tornare perché la natura barbara e altissima della sua poesia ci porta dentro al cuore profondo, vero dell’Italia. Tornare perché le sue visioni ci indicano che la realtà è accesa, se hai il cuore acceso. Cosa aveva addosso questo ragazzo nato sui greppi, tra Romagna e Toscana, nel 1885 in una zona tanto bella quanto impervia, che si dichiarava “ultimo Germanico” in Italia, segnato da sofferenze ombrose della Psiche? Aveva la ricerca estrema della gioia. E parve a tratti trovarla in una donna bella e tremenda, Sibilla Aleramo, che lo amò ma non poté resistere in quel rapporto. In appendice a questa edizione dei Canti Orfici, si trovano due lettere e una cartolina inedita di Campana a Sibilla. In una, parlando in terza persona quasi a cercare distacco dal tormento, dice: “Dino non vuole nulla da Sibilla. Sa ormai considerarla come una cosa troppo bella. Ma accetta tutto da Sibilla. Ammette tutto e aspetta. Voglio che ci perdoniamo, così non può durare”. Ma non conta la biografia del poeta, su cui il breve saggio di Gigliola Tallone getta uno sguardo di scorcio, illuminando la tenera preoccupazione verso Dino da parte di Eleonora, moglie del celebre pittore Cesare Tallone e madre di sette figli tra cui quell’Alberto che, anche grazie a una lettera di presentazione di Sibilla si avvierà a Parigi a diventare principe degli editori. Ci troviamo, grazie alle lettere e al breve saggio, a gettare uno sguardo pieno di pudore e di ammirazione in uno spazio dove si intrecciano solerzia per la salute di Dino, per lo stato di Sibilla, per il loro amore impossibile. Un circolo di donne buone, amiche, di amici di amici che diventano ospiti del poeta, lo accolgono, come nella casa che ancora è dietro alla villa-laboratorio dei Tallone a Melpignano. Campana andava (come altri, da Neruda a Luzi, fino a noi) e stava ad ascoltare musica. Cercava quiete. E sapeva che lì la poesia era davvero amata. Non la biografia dunque conta, insondabile sempre, ma la poesia, insondabile anch’essa fino in fondo – perché porta la traccia della vita – ma opera offerta sì a noi, ai nostri occhi e cuori. I Canti Orfici, Canti come quelli di Leopardi, e poi di Pascoli. Canti, perché la poesia è canto, voce che si accorda ai movimenti ineffabili del mistero del mondo. E Campana andò accordando la sua, tra boschi e città, tra viaggi visionari e reali. La sua arte, la sua scrittura sembra tesa a quel momento della materia e delle presenze, il momento in cui una forza di disfacimento e una forza di rivelazione coincidono. Un libro per collezionisti? Certo, ma di più: un talismano. Foto credit: www.talloneeditoreshop.com

Le mu‘allaqāt, la poesia araba prima dell’Islam

Le mu‘allaqāt, la poesia araba prima dell’Islam

Prefazione al libro Un doppio affascinante viaggio cattura il lettore di questo libro pieno di meraviglia e di studio. Pieno di incanti e di notizie. Il nucleo originario della poesia araba, dei poeti arabi prima dell’Islam, ovvero della porzione di arabi stanziati a nord della penisola arabica provenendo da sud, ci appare in tutta la sua sfolgorante forza. Un doppio viaggio, uno in ciò che è lontano, l’altro in ciò che è dentro di noi, Poesia della seduzione, del viaggio, dell’amore e della nostalgia. E sono già belli i nomi del genere di questi componimenti, che Goethe conosceva e che hanno animato la cultura poetica europea da secoli.   Oltre a “mu‘allaqāt” che pare significhi “le appese” in quanto erano esposte su stoffa o altro materiale, e che è un “termine che si ritrova per la prima volta nel Al-ğamhara aš‘ātr al-‘arab di Abū Zayd al-Qurašī (X secolo circa), infatti, ” tali componimenti ritmici regolari “sono anche note come al-sumūṭ (fili di una collana) e al-muḏahhabāt (le dorate). Anche il numero delle poesie contenute nella raccolta varia a seconda dei recensori, da cinque a dieci, numero che viene proposto nella presente edizione”. Un grande poeta in lingua italiana del ‘900, Giuseppe Ungaretti, nato non a caso ad Alessandria d’Egitto, e quindi influenzato dai canti e dalle modulazioni di quella terra, parlava di se stesso e del poeta in generale come di un “nomade”, condizione che accomuna questi poeti musaici e immaginosi, pur se gli studiosi, ci informa il libro, non separano più radicalmente tra sedentari e nomadi. Nomade è l’anima del poeta che sente comunque la vita come viaggio, come passaggio. Solo il poeta borghese contemporaneo pensa alla vita come immobilità, paresi, scavo puramente interiore di un pozzo della sua sensibilità. O meglio, è così il poeta borghese mediocre. Molte altre cose si imparano leggendo questo manuale di poesia e antropologia e storia, a dimostrazione che la poesia è non solo espressione dell’animo profondo di un popolo o di epoche di popoli, ma anche la migliore sonda per conoscere quella vita e metterla in relazione ad altre, anche lontane nel tempo e nello spazio.  

Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio

Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio

Intervento tenuto ai Colloqui fiorentini 2024   “E sulla tomba di mia madre rimangano questi canti…”   Mi è stato chiesto un intervento sui Canti di Castelvecchio, un’opera di Pascoli pubblicata nel 1903, lo stesso anno in cui esce anche l’Alcyone, importante opera di D’Annunzio. Sono anni, quelli, in cui nella poesia del Novecento succedono cose. Io ho almeno tre motivi per cui mi interessa Pascoli. Il primo è un motivo personale, di orgoglio personale, ed è che è romagnolo come me. Pascoli infatti è nato non lontano da dove sono nato io. Il secondo motivo è che mi sono laureato con una tesi in parte su Pascoli, grazie a un grande professore, Ezio Raimondi, che voglio ricordare. Il terzo motivo è che per chi come me scrive poesie è importante guardare alla figura, alla voce e alla poesia di Pascoli, che è un grande artista e l’arte si impara a bottega dagli artisti. Da quelli vivi – dai vent’anni ai quarant’anni, venivo tutte le settimane a Firenze da Mario Luzi o da Piero Bigongiari ed erano loro la mia bottega di poesia – e da quelli morti, come Pascoli, Montale, lo stesso Mario, che si continuano a frequentare per imparare. Perché non c’è niente da fare, cosa è la poesia lo si impara frequentando la poesia, non con la teoria. Nel pensare a cosa potessi dare come contributo personale, ho deciso di leggere insieme con voi non una poesia, bensì la prefazione ai Canti di Castelvecchio, raccolta che viene dopo Myricae, perché è una presentazione davvero stramba. L’ho letta un sacco di volte e continuo a leggerla, sia in pubblico che in privato, perché è un testo stranissimo, in cui l’autore tocca alcune cose sue e mie molto importanti. È già stato detto prima da Gilberto, e lo ringrazio per le sue parole alla fine del bell’intervento di Giovanni Maddalena, che non si studia la poesia a scuola per diventare piccoli critici letterari come vorrebbero i ministeri, e spesso anche i docenti, che non sanno cosa fare e quindi vogliono che un sedicenne diventi un mini critico letterario. Cosa che non ha alcun senso, tra le tante cose che non hanno senso nella scuola italiana, compreso l’esame di maturità, l’esame “terrificante” che promuove il 98% dei partecipanti: si fa in modo che abbiano paura per 5 anni di un esame che il 98% degli studenti supera… Ma chiudiamo la parentesi. Uno degli errori di sistema della scuola è pensare che un ragazzo di 16-17 anni – un ragazzo che non sappiamo cosa farà, che talenti abbia, perché non ce ne frega niente dei suoi talenti, vogliamo solo che abbia la sufficienza in tutte le materie – diventi un piccolo critico letterario e che abbia gli strumenti per farlo. Invece un ragazzo deve leggere qualche poesia, qualche romanzo, non troppi, per confrontare la propria vita, per trovare degli autori. Io l’ho detto varie volte, anche qui, quindi mi ripeterò per qualcuno: la parola autore, come sapete, viene dal latino augeo, cioè, “faccio aumentare”. L’autore è uno che aumenta la tua vita; non si vive senza autori. Solo che o te li scegli o te li impongono i vari poteri che ti circondano. La scuola dovrebbe avere l’unico potere di offrirti autori che il potere non ti impone, se fosse davvero una scuola “libera”. Tutti noi cresciamo perché ci confrontiamo con degli autori e qualcuno di loro ci fa crescere in consapevolezza. Degli autori c’è bisogno soprattutto quando ti senti a rischio: Dante incontra Virgilio nella selva, non al bar mentre beve un caffè. Perciò quando sono in difficoltà o non so dove andare e riconosco uno come autore, mi confronto con lui. Se non senti la vita come rischio, degli autori non sai cosa fartene, se pensi che la vita sia una passeggiata, degli autori non sai cosa fartene, ma se, come credo il 90% di voi, quando hai 15-16 anni e cominci a vedere che qualcuno muore, che l’amore non si capisce bene cosa sia, che il corpo fa degli strani scherzi, che il sangue batte in modo strano, quando ti accorgi che la vita è un po’ una selva (se non te ne sei accorto, svegliati, perché è pericoloso), allora scegliersi gli autori diventa molto importante. Mi sembra abbastanza evidente nel tempo che viviamo. Gli autori o te li scegli o te li impongono; la scuola dovrebbe essere, e in parte lo è, il luogo dove, per fortuna, grazie ai vostri insegnanti, potete scegliervi autori che non sono quelli che il mondo vi propone. Per fare alcuni esempi: la Ferragni a Sanremo ve la impongono, non è che la scegliete, e ve la fanno passare come una intelligente perché ha due milioni di follower. A scuola invece avete la possibilità di scegliervi qualcuno, Leopardi, Ungaretti, Pascoli. Non li vedrete mai promossi dal potere, questi, però ve li potete scegliere. Ora, Pascoli per me è stato un autore importante, non lui come persona intendo, ma la sua opera è stata autorevole; io non voglio imitare Pascoli come persona o Leopardi o Dante. Sarebbe anche un po’ stupido pensare di imitarli come persone. Tuttavia quello che c’è nelle loro opere è autorevole per me. Infatti, seconda cosa di metodo e poi leggiamo il testo, io diffido molto di quelli che dicono leggiamo l’opera per incontrare l’autore, perché noi incontriamo l’opera e non l’autore. Io scrivo poesie, chi le legge non deve necessariamente conoscere i miei fatti personali. Certo, può conoscere alcune cose della mia vita, quelle più generali e quelle che probabilmente sono comuni alla vita di tutti (i dolori, gli amori), ma non i fatti personali. In alcuni libri di scuola, purtroppo, ha cominciato ad apparire qualche mia poesia, che vorrei fosse tolta, e anche qualche piccola biografia di 10 righe (che per una vita mi sembra un po’ poco). Cosa vuol dire? Uno pensa di incontrare un uomo perché ne legge qualche poesia e anche 10 righe o 10 pagine di biografia? È una follia, è una …

Poesia e natura. La sfida di una vita più naturale

Poesia e natura. La sfida di una vita più naturale

Meeting di Rimini, 22 agosto 2023 1) Natura. Cioè? Buongiorno e grazie. Un grande poeta di origine caraibica e premio Nobel nonché un amico morto non molti anni fa – si chiamava Derek Walcott – nel primo verso di una sua poesia scrive: “L’ideale perpetuo è lo stupore”. Anzi forse dall’inglese sarebbe meglio tradurre lo sbigottimento, quasi l’attonimento invece che stupore. Perché parto da questa citazione? Non solo per un omaggio a un grande amico, a un grande poeta. Perché quando si parla di natura, e lo dico per fortuna potendomi appoggiare sulle belle idee che sono già state dette, la prima cosa che un poeta sente è che si sente un po’ un’aria di scontato. Come se la natura, “beh la natura” si sa … Ma cosa vuol dire la parola natura? Cosa intendiamo veramente con la parola natura? Apparentemente sulla parola natura siamo tutti d’accordo. La natura è importante, bisogna rispettarla, eccetera. Quando poi si comincia a dire: ok, dunque, cosa è più naturale? Già qui… qual è una nascita naturale? Una morte naturale? Una sessualità naturale? Un’energia naturale? Una civiltà naturale? Si comincia a discutere. Se si danno per scontate le parole, gli aggettivi che derivano dalle parole cominciano a creare problemi. Uno potrebbe cavarsela dicendo: beh, certo la natura è chiaro che è naturale, pensando di dire le cose come stanno. “Le cose come stanno” è una tautologia. Cioè una frase che presume di spiegare se stessa e spesso non lo fa. Chi decide le cose come stanno? Tant’è vero che i poeti creano degli strani accoppiamenti, le metafore. Non dicono le cose come stanno per dire davvero le cose come stanno. Perché, se dico alla donna che m’ha rapito gli occhi e il cuore: “sei bella come un’alba nel South Dakota” non dico le “cose come stanno”, ma sto usando una metafora e dico la verità, le cose come stanno a un altro livello. Dunque la natura non è quella roba lì, scontata e disponibile come un dato che io posso conoscere, possedere e usare. Già un grande filosofo antico, Eraclito, diceva che “la natura tende a nascondersi”. Credo, tra l’altro, che venisse citato, nel video “Il senso religioso” di Giussani, quel grande libro antropologico di conoscenza. Io credo che in questi anni sulla parola “natura” e sul suo uso sia in atto una grandissima operazione ideologica anche molto violenta, per quanto piena di colorini verdi e azzurrini. È come se si desse scontato che la natura è un dato. E poi ci sei tu, essere umano, che scegli come comportarti. Ma la natura non è un dato, la parola natura vuol dire “tutto ciò che nasce”. Quindi non sta mai ferma, diciamo così. Già non è un puro dato, perché noi non siamo macchine che registrano i dati, non siamo una macchina fotografica o un algoritmo. E quindi anche il nostro rapporto con la natura non è mai la pura registrazione di un dato. È sempre un rapporto monile e dipendente da tanti elementi variabili. Tant’è vero, per fare un esempio, che sento molte campagne in favore della difesa del cerbiattino – giustamente – mentre della zanzara non gliene frega niente nessuno. Non sento molta gente commuoversi per i topi. Cos’hanno dj meno naturale dei panda? Si badi, il mio punto di vista nel rapporto con la natura non è un punto di vista soggettivo e poi c’è l’oggettivo. Non è mai vera la conoscenza che si fermi a dire e a opporre “soggettivo” o “oggettivo”. La conoscenza è un rapporto personale (non soggettivo) con il reale che mi si propone come non creato (non nato) da me. Oltre che con me stesso, e quel che di me non nasce dalla mia volontà. E somo parecchie cose, dalle mie orecchie, al battito cardiaco, al mio carattere, dire anche la mia morte, di certo la mia lingua oltre a una serie di incubi, ossessioni, desideri irrefrenabili, passioni e talenti. Ci sono nella relazione della conoscenza con la natura, dunque, una serie di questioni che si animano per gli interessi coscienti e anche incoscienti che ho: voglio che i miei figli stiano in un posto senza topi, ad esempio. E pure gli ecologisti più estremisti credo che amano abitare come io abito in un bosco fuori dalla città, non lasciano entrare volentieri serpenti e cimici in casa loro. Dove sono io la natura deve anche darsi una regolata per non farmi girare le p. Se no gliela do io. E quindi la natura va a farsi apparentemente fottere in quel momento. Insomma, ho accennato brevemente al fatto che se dico “natura” si apre una serie di problemi che qui non posso approfondire. Ma che tutti capite, immaginate. Il rapporto con la natura è tutt’altro che ovvio, tutt’altro che scontato, tutt’altro che dato una volta per tutte. Una volta, il termine naturale non era inteso cosi positivamente come lo è oggi, perché c’era imperante il mito della civiltà. Anzi ciò che era naturale era considerato un po’ “basso”. Adesso sembra il contrario, dopo aver fatto un’overdose di civilizzazione sentiamo magari un po’ di nostalgia della natura e facciamo delle belle passeggiate nei boschi, cioè non li facciamo “nella natura” ma in paesaggi creati dall’uomo. Perché, se tu stai in un bosco selvaggio per una settimana non è la stessa cosa che fare una bella passeggiata nel parco creato dall’uomo, che è invece “paesaggio” non “natura”. Lo dico perché la cosa è un po’ più complicata di come viene trattata. E le cose quando vengono semplificate troppo sottendono un qualche interesse. Come si fa di fronte a una cosa complicata? E qui complicata è davvero se da sempre filosofi, poeti, frati, professori hanno parlato del rapporto tra uomo e natura) e non è che qualcuno ha trovato la soluzione. Anche il Papa dice di dover continuare l’enciclica, si continua a parlare, è un tema aperto. La cosa peggiore – lo dico come piccolo avviso – è, quando si parla di queste cose, come del rapporto uomo/natura, tendere …

Poesia e arte. Opera in versi ispirata a Elisabetta Sirani

Poesia e arte. Opera in versi ispirata a Elisabetta Sirani

Il veleno, l’arte Elisabetta Sirani (Bologna 1638-1665), pittrice in Bologna Una figura di donna, nella penombra. È seduta a terra. È vestita d’arancione come i tristi prigionieri che abbiamo conosciuto recentemente. Accanto ha qualche povera suppellettile, una brocca, un cucchiaio di legno, qualche foglio di carta. Ha la voce impastata, come di una quasi ubriaca. I – Andate a dire al Magistrato del Torrione che io non ne so niente! Non ne so niente e non me ne importa niente! Che non mi vengano più a cercare. Mi lascino in pace. In questa fogna. A crepare, se si deve crepare. II Hai capito secondino, o guardiaccia che tanto lo so che origli con le tue orecchie pelose dietro a quella porta di legno e di ferro! Vaglielo a dire al tuo luogotenente e poi lui lo dica al suo superiore sbirro e quello salga le scale che deve salire, lo dica al suo capitano e lui vada su, su a finire allo scranno del Magistrato del Torrione e se può, se riesce, lo vada a dire pure all’Arcivescovo, glielo bisbigli nell’orecchio mentre con il suo codazzo esce: lei non ne sa niente, lei non ne vuol sapere niente, non c’entra nulla in quella faccenda nera come il demonio di pittori, donne e veleni… III Cosa me ne importa – Non ne so niente della Sirani. In questa galera, dove non mi vedo più il viso, le mani… Qui nel buio alto vedo se voglio grandi navi, o strani i colori pestati. Oppure appaiono le forme più vane, draghi, mille torri in fiamme, e sì, a volte, il sontuoso il grandioso di Elisabetta catafalco… IV Hai capito carceriere! Piantatela di venirmi a interrogare con i vostri ferri e le vostre funi! Non mi fate più effetto. E smettete di mandare qualcuna di queste che nemmeno si posson dire più donne che mi si avvicinano di notte nel letto o nelle ore della broda o del poco d’aria e mi fanno: ah, la povera Sirani… finire così giovane, così male… tu che da tanto tempo sei qua dentro, quante ne avrai sentite… E mi guardano dritta con gli occhi da animale per carpire un segreto, una mezza parola, una espressione… Ma io niente, zitta. Io non dico niente, non ne voglio sapere niente… (si alza, rassettandosi un po’. Parlando più piano) Io una mia idea ce l’ho… È vent’anni ormai che sono quaggiù dove la luce è precipitata, dove sono di buio tonta, e non sono forse capace di capire un mistero come quello? L’esperienza conta! (a voce più alta) È vent’anni ormai che son qua dentro! E per fortuna la mia guardiaccia con le orecchie pelose mi vuole un po’ di bene e ogni tanto mi passa un goccio di vino amaro! Ah il mio amore di guardiaccia, il mio Ercole, le mie rose, il mio Adone, il mio innamorato, uomo raro che mi fa questo favore, che mi tratta così da regina in questo scantinato! Sei il mio innamorato! Guardiaccia! Senti come mi batte il cuore per te! E per la tua fiaschetta! Non ti preoccupare, tanto a quest’ora di notte, a quest’ora perfetta non ci sente nessuno. In questa buca dormono tutte con il sonno pesante delle colpevoli. E gli altri secondini sono fermi, sonnecchiano, non uno che badi a queste mie grida. Amore mio! Mai visto e mai amato! (ride, sguaiata) Sei gentile con me per i servigi che a tuo padre ho elargito, a lui che prima di te in custodia mi tenne! Lo sai vero? Tu mi porti il vino, e te ne renda merito Dio. Ma lui ogni volta che venne ben altro mi ha portato! E gliene rendevo merito io! Allora ero giovane, bella, ci sapevo fare. Non ero questo mucchio di stracci, faccio fatica a respirare. E non mi sembrava facesse così buio qui. Quando ero giovane non mi sembrava così notte. Così notte come ora… È cambiata qui dentro la notte. Chi sa se anche là fuori, se Bologna, se la notte, se è cambiata la Signora… Se ci sono i ragazzi come ero io a girare e i pittori quel Guido Reni, giocatore d’azzardo, i suoi allievi, quelli bravi e quelli invidiosi, o altri han preso il loro posto, e se ne vanno barcollando di meno, di meno in ritardo… Chi sa se ci sono tra gli archi, tra i portici, quelle luci che avevo nei miei occhi belli, nei capelli… Gurdiaccia ci sei… Ci sei almeno tu, amoremio, tu mio carceriere e tiranno, sei lì ad ascoltarmi ora che ci siamo bevuti nel buio un altro anno – o non mi senti più… Forse stanotte te la dico. Te la dico la verità sulla morte della povera Sirana, o Sirani Elisabetta, la pintora che morì così male in quell’agosto, la pintora poveretta… La vuoi sentire la verità sulla Sirana? La smetterete di venirmi a tormentare? Ci farai bella figura? Ti servirà a qualcosa o sarà vana per la tua pulciosa carriera di soldato e di spia? Se te la dico mi porti via? Ah! Mi apri la porta di legno e di ferro e mi porti in piazza a ballare, oppure più in là dove mi dicono che ci sia, grande e pieno d’aria, il mare… La vuoi sentire la verità sulla Sirana? Vuoi che continui a parlare la tua donna perduta e strana? V Mi sembra di sentirlo ancora blaterare il magistrato della Torre che scendeva in questa palude con l’occhio azzurro, spaccato, e mi veniva a interrogare: (si mette a fare una specie di pantomima) In nome della Iustitia che è amministrata in Bologna da sua Eminenza il Vescovo, o anche più propriamente Archiepiscopus, nonché della civica Iustitia amministrata dal qui presente Magistrato del Torrione, che poi sarei io me medesum, le pongo ancora una volta, per l’ennesimissima volta la quaestio,l’inquisitio, la domanda: dove ella stava i dì della festa della porcellina in agosto in Bologna nell’anno domini 1665 e sapeva ella se la pintora Elisabetta Sirani, filia …

Poesia e arte. La bellezza

Poesia e arte. La bellezza

Tu, assorta lontananza In un suo splendido romanzo, La morte di Virgilio, Herman Broch parla della bellezza, tra l’altro, come di una “assorta lontananza”. L’espressione colpì anche Hanna Harendt, amica di Broch. E pure a me questa visione della bellezza come “assorta lontananza” si propone come suscitatrice di riflessione. Infatti, cosa ho inseguito fin da ragazzo in poesie e gesti di poesia, se non quella visione di qualcosa di assorto e lontano? Lontano certo dalle brutture e dagli scadimenti della prossimità e della volgarità, ma anche lontano dal frastuono e dalle ombre del cuore e degli occhi. Lontano come in un paese promesso, in una terra intravista. E assorta come una figura concentrata su un segreto, su una verità velata, inespressa. Accennata. La bellezza è un invito. Come la verità. in questo coincidono. E sono rischiose perché entrambe esposte alla libertà di chi le incontra e le cerca. Mai ho pensato alla bellezza come assenza di rischio. L’ho presa a volte sulle mie ginocchia, come ha fatto Rimbaud, e l’ho trovata amara – perché amaro era il mio cuore. Ma non per questo ha cessato, assorta e lontana, di invitarmi, di riaccendere la tensione al viaggio. Anche la bellezza delle colline, dice d’Annunzio, non smette mai di essere un invito: “e ti dirò per qual segreto le colline sui limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte.” (da La sera fiesolana) Un invito inesauribile, pronto a ridestarsi nei luoghi più oscurati del mondo, nei posti che ho visto viaggiando, poeta nomade, tra indie e sud Americhe, afriche e metropoli americane e paesaggi europei, tra suk arabi e oceani. Un invito che sembra svanire e poi pronto a ridestarsi in volti di ogni genere, incantevoli e feriti, preziosi e stremati, giovani e lavorati dal tempo. Nei versi di grandi poeti, nei primi versi di ragazzini. In capolavori dell’arte e in malfermi tentativi. Un invito a cosa? Non parla quella assorta lontananza. Lascia ad altri la parola, provano a pronunciarla sapienti, filosofi, sacerdoti. Ma lei resta in una sua ulteriore lontananza, in un invito che sfianca e fa imprecare (o pregare, dipende dall’atteggiamento del cuore) Come se questo attributo del mistero vivente provocasse, lei bellezza taciturna, tutti gli altri parlanti a parlare fino a sfiancarsi e poi a tacere, a contemplare. Forse la mia vita – traversata da debiti e dolori di ogni genere- è stata contemplazione? Non sono ricco di nulla, né di denaro né di virtù, ma negli occhi sì… La ricchezza è il belvedere: Anche un inglese dice Belvedere, dice l’Italia in una parola, e il francese e il germanico, ma io so cosa costa al sangue alla mente al vento degli occhi belvedere queste colline e il mare – e il tuo volto quando si sta e non si sta per voltare Vai a Frascati ad Albano sui colli romani, era privilegio da imperatori e signorile avere davanti alla fronte null’altro che il Belvedere. La vera ricchezza era quel che ti si offriva alla vista. Gli altri vedano se stessi, le nuche, le nausee, gli sguardi stanchi, le schiene curve nei campi nel tempo, o le grandi specchiere velate delle sale. Il mio belvedere furono i tuoi occhionda – la villa imperiale del mio cuore, piena di luci e di balli, tacque un istante sprofondò nella sera da dove viene tutto, e va, si azzurra e si oscura Sono lontano da qualsiasi idea consolatoria della bellezza, non perché essa non offra balsami agli animi feriti e pronti a inebriarsi del suo fascino, ma perché non mi accontento di tali consolazioni. Voglio mordere la polpa viva della vita, non sedermi soddisfatto, sognante, inebetito. Ho l’animo del felino e del mistico selvaggio, voglio la preda, la congiunzione carnale ed estatica, il resto è prezioso minuetto. La bellezza assorta e lontana affatica come un viaggio, come una rilavorazione infinita dell’opera, lascia una strana micidiale e sacra insoddisfazione. Diventa, nei suoi capolavori, come diceva Baudelaire, il motivo di un “ardente singhiozzo” che mostra la nostra vera dignità, quella appunto d’essere capaci di creare bellezza che come un singhiozzo ardente va a morire ai piedi della eternità di Dio. Quella eternità che nella lontananza, come quella che si sperimenta nei confronti delle persone amate, si dà a noi come prima esperienza drammatica di lei per noi qui, nella valle di lacrime e di incanti che è il tempo. La bellezza è un altrove che irrompe nel cerchio confuso delle esperienze, e ne diviene pure lei preda (quanta confusione intorno al concetto di “bello” appena cerchiamo di maneggiarlo) mantenendo però una sua assorta lontananza irraggiungibile. Un invito sempre ulteriore, una alterità inesauribile. Diceva un mio amico narratore napoletano che “una cosa è bella quando senti di non meritarla” – ovvero quando un senso di sproporzione innesca da un lato uno spasmo di incanto persino doloroso, e dall’altra un senso di gratitudine, intellettuale e morale. Sono le vie che portano alla contemplazione, ma, come già detto sono vie che la libertà può decidere ogni volta (ogni volta!) se percorrere o meno, oppure occludere con ostacoli e deviando nel perseguimento di finalità o in paludi di ogni genere. Quanta bellezza ridotta a puro orpello dell’ego, o a segno di potere, a palude del narcisismo, a strumento di risultato economico o di distrazione. Ma lei non si fa ingabbiare, e assorta e lontana ci visita ancora, ci fa agguati. Ho parlato di lei sempre. Con gente di ogni tipo, ragazzetti frementi o distratti, oppure con grandi artisti, filosofi, poeti. De-finirla, trovare i confini concettuali non si può, ma si può cercare di viverne le dimensioni di spavento (come Ungaretti ricava da Leopardi) e di invito alla vera forza, memoria e visione, dell’umano. Per questo parlare di bellezza porta con sé lo sconforto del continuo fallimento. È come se a una festa cercassimo …

Poesia e arte. Sullo scultore Arturo Martini

Poesia e arte. Sullo scultore Arturo Martini

Ha fame. Deve fare i conti con una specie di maledizione. Sì Martini è come un ragazzo di genio e pieno di problemi. Colui che Federico Zeri considera insieme a Brancusi il più grande scultore del secolo ha dei problemi. Ha fatto di tutto, dai capolavori che resteranno come memento di una vicenda altissima alle lampade per gli atrii dei cinema. Vide Modigliani e Antonello da Messina, digerì Picasso, conobbe il duro sperdutissimo Dante Arfelli. Ebbe la stessa tensione alle stelle di Leopardi, come si vede nei suoi “amanti” che differiscono dai “naufraghi” per quel gesto di mirare lei, la stella. Le teste delle sue “ragazze innamorate” sono sempre leggermente rivolte all’alto. Un segreto, pudico e irresistibile richiamo. Forse lui non riusciva a tenere lo sguardo in alto da terra, come supplica e grida il Salmo. Al cielo guardano anche i suoi Dedalo e Icaro. È del ’26 il suo fortissimo Figliol prodigo, con il vecchio padre che diviene bambinesco e sembra ritrovarsi da uno smarrimento lui quasi più del figlio in quel ritorno. Martini cercava febbrile un viso di padre per il suo, continuo, ritorno. O forse era il suo stesso viso di padre fuggiasco. Diceva: «è l’opera più importante della mia vita». Eppure ebbe tante altre “importanti” commissioni, e ricavò successo e soddisfazioni da altre opere. Ma era quella. Non poteva che essere quella. Fece mille e mille figure, con quel desiderio o malattia di “raccontare raccontare raccontare” con la lingua della scultura. E si può forse raccontare qualcosa se al centro di ogni racconto non c’è – per quanto deflagrato, o sperduto in naufragi e labirinti – un ritorno? Già nelle figure di donna, come la bellissima Nena si comprende cosa intendeva nei suoi appunti quando indica come tensione quella possibilità di percepire la “quarta dimensione”. Il mistero, nell’acclararsi delle forme. E poiché l’arte per lui «non è mai analisi ma espressione della cosa», il mistero non è un frutto della percezione ma un elemento della espressione della presenza delle cose. Senza mai rinunciare all’anima popolaresca che lo spinse a far bozzetti di vita corrente, o presepi o vie crucis, Martini fu al centro di polemiche intellettuali del massimo livello nella cultura italiana: non lo amarono Ojetti, Betocchi. È diventato il più grande scultore del Novecento, anche se lo Stato Italiano gli revocò la cattedra per motivi politici. Dovette aspettare la famosa mostra sui “realismi” di Jean Clair per il giusto riconoscimento. Del resto, anche quando non riceveva commissioni dal governo fascista, si metteva lui a fare opere – come il potente Tito Minniti. Eroe d’Africa nato dal suo entusiasmo di raccontare la fine di quel ragazzo – per poi provare a piazzarle non sempre con successo. La scultura, quella furia di raccontare veniva prima della sua funzione e della commissione. Sia che lo consideriamo con Carrieri «l’aspetto più inquieto della generazione di Morandi o De Chirico», sia che ne contempliamo con Testori la «potenza castissima», di fronte a Martini dobbiamo cercare un silenzio adeguato all’opera. Lo spazio che ravviva è in noi attivo e silenzioso, quello che si fa quando ci si trova di fronte a un racconto di mistero. Riesce per questo a trovare quel che il poeta De Libero chiamerà la figura «immemoriale», a proposito del Bevitore o come potremmo definire il Palinuro o altre figure di donna colte al risveglio o in momenti di passaggio. Fu Martini tra i non molti artisti che nel Novecento – nel secolo degli idoli esteriori e interiori – che dal centro a volte sfigurato e lucente della loro fede seppero meglio cogliere il nesso, la potenza della Incarnazione come giustizia dell’opera d’arte, come suo motivo. Seppe cosa significa il mistero dell’incarnazione per l’arte. Lo disse chiaramente, e si vede. Gli sono vicini i nomi di Péguy, Eliot, di Dylan Thomas, di Ungaretti, di Tolkien, di Flannery O’Connor, di Luzi, di Testori – di coloro che, come lui stesso comprese, ebbero fede e fame nel raccontare e raffigurare l’esperienza, sottratta alla vanvera e alle congetture del nulla a causa della morte in croce e resurrezione di Dio. “Raccontare, raccontare, raccontare” questo fin da ragazzino febbrile Martini supplicò alla sua arte. Forse come e al contrario di Nietzsche sapeva che finché c’è sintassi, e dunque possibilità di racconto, c’è un valore per quanto umiliato e oscuro che non cede nella vita umana. Raccontare è vedere lo spettro dell’eterno. Si racconta perché non tutto cede al nulla. Si racconta perché ci si fida. Quando la scultura gli parve “lingua morta” ne scrisse il dolentissimo, ferito e personale lamento… Se era morta come arte pubblica, come lingua comune, lui ebbe però la forza di esprimere nella sua lingua reinventata, ereditata e personale, casta, povera e irrefutabile un mondo che sentiamo sempre più nostro. Come se mentre la sua cultura e la sua solitudine sentivano la morte della scultura, la sua arte ce la riconsegnasse d’altra vita viva. E come se presentisse, in quel finale, che era lo spazio pubblico a morire – come vediamo ormai adempiuto sotto i nostri occhi – ottuso ormai di feroci e sempre più parziali poteri. E dunque la scultura, sì, sarebbe stata lei a dover ricreare lo spazio pubblico, ogni volta, come accade incontrando le sue opere: una luce di materia, una espressione di noi che non vedevamo ecco creano lo spazio dove forse, ancora e pur vacillando come ciechi, riconoscerci usando le mani, le grida, i giuramenti, i baci, le invocazioni…

Poesia e arte. Un appunto su bellezza e speranza

Poesia e arte. Un appunto su bellezza e speranza

da Luoghi dell’infinito La speranza muove alla bellezza e la bellezza a sua volta muove alla speranza? Si comportano davvero così queste due sorelle terribili e irrefrenabili? Potresti pure per un istante confonderle, hanno diverse somiglianze. Ad esempio, una sfida simile negli occhi: per loro il tempo non è un avversario invincibile. Però sono due bambine diverse. Hanno i piedi per terra e la testa chissà dove. Il cuore di certo l’hanno in giro come un bambino curioso. Gli artisti, gli scrittori, i poeti e tutti coloro che si aggirano intorno alla bellezza e ai suoi problemi hanno un conto aperto con la sorella speranza. Anche i più disperati tra i creatori di cose belle sono inseguiti dalla inquietudine dell’altra bambina che li fissa e chiede: “E io?” “Nulla speme m’avanza ormai” dice Leopardi, indicato da una critica novecentesca spesso superficiale come un nichilista contemporaneo, mentre è un pessimista biblico che fa i conti con le false speranze della modernità. Non ha speranza, lui creatore di bellezza, di incontrare in terra l’ideale di bellezza (la “cara beltà”) – non crede a nessun paradiso terreno – e la vita dunque sembra condannata a trascorrere nella dura condizione dell’ “ignoto amante”. Nulla infatti è più duro che vivere con una speranza bloccata. Una speranza impossibile? Lui stesso, ancora, infatti ne il “Canto del pastore errante” si chiede: “Ma perché dare al sole,/ Perché reggere in vita/ Chi poi di quella consolar convenga?” La vita senza speranza o meglio, nel caso di Leopardi, senza speranza terrena, appare mossa comunque da qualcosa – la miccia verde, la chiamava Dylan Thomas- che non si placa nemmeno se si afferma, appunto, la mancanza della speranza. Quanto più forte è il senso dell’esistere privo di speranza tanto più, in alcuni spiriti, diviene famelica la ricerca di bellezza. Ne fu esempio D’Annunzio che al finir dei suoi giorni, scrivendo un epitaffio ai suoi cani, definiva l’uomo un “il cane del suo nulla”. E che provò a fare della propria vita un tempio della bellezza e della preziosità impareggiabili. Un tempio tragico, abitato da mille seduzioni e trucchi intorno a un “esatta coscienza quadrata”: la vita è finzione, è “senza mutamento”. A volte sembra proprio la disperazione a muovere la fame di consolazione nella bellezza, specie quella artistica. Lo mostra, negli anni ’20 del ‘900, ad esempio il fiorire della cosiddetta ArtDecò e dei suoi infiniti stupefacenti ninnoli in ogni ambito della vita e della società proprio in un momento – tra le due guerre mondiali – in cui una certa cupezza dominava gli animi. Qualcosa di simile avvertiamo ora, in un’epoca di “guerra mondiale a pezzi” come dice il Papa, allorché si vedono prevalere forme di arte e di eleganza improntate al gioco, al divertissement intellettuale, alla diteggiatura sulla spirale dei nervi, alla carineria infinita. Nel ‘900 autori americani come Pound e Eliot, tessendo la loro voce con gli stupori antichi della poesia dai trovatori a Dante, meditarono sul rapporto tra bellezza e speranza in una civiltà che ha fatto della “crisi” il proprio humus e l’orizzonte. La meraviglia di Pound di fronte a Venezia e la partecipazione alle controversie della storia lo inquieta e lo muove all’invito colmo di drammatica speranza nel finale de i Cantos: “Uomini siate, non distruttori”. Eliot, dal canto suo si concentra da “La terra desolata” ai “Quattro quartetti” in una riflessione poetica sul senso del tempo. Negli stessi anni, sotto il tallone del totalitarismo sovietico poeti come Blok, Majakovskij, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Osip Mandel’stam e altri provavano al fuoco della disperazione privata e politica e al morso della censura la loro vocazione alla bellezza. Con esiti diversi, alcuni cupi e tragici, quei poeti, a cent’anni dalla Rivoluzione che aveva promesso la realizzazione di tutte le speranze, ci ricordano il drammatico rapporto tra i cercatori della bellezza e le promesse di realizzazione del paradiso in terra. Sotto un altro totalitarismo cresceva la vocazione di maestria sfolgorante e la ferita invincibile di Paul Celan, poeta morto suicida che credeva nella poesia come in una “stretta di mano”. Da noi l’Ungaretti che si trova nel gorgo della disperante inutile strage della prima guerra mondiale, nel momento in cui è in trincea accanto a un “compagno/ massacrato” testimonia di “non essere mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”. Questo sussulto dentro al peggiore circo dell’orrore non avviene per reazione meccanica, non si tratta insomma di una reazione dell’istinto di conservazione. Il poeta dice che proprio in quelle ore di “Veglia” (la data della poesia ci indica che siamo sotto Natale) ha “scritto lettere piene d’amore”. Sta indicando dunque la fonte di quell’attaccamento e grido di speranza. Il fatto che nella stessa situazione altri poeti espressero invece il venir meno di ogni luce – si pensi ai War poets inglesi come Wilfred Owen, ma anche alle crude poesie di Rebora – ci mostra che la dinamica del rapporto tra bellezza e speranza dipende da altri fattori in gioco, in definitiva anche da altre esperienze. Del resto, già Rimbaud aveva scritto all’inizio della sua “Stagione all’inferno” di aver trovato la bellezza “amara”. Insomma, il rapporto tra speranza e bellezza non è mai privo di dramma, mai codificabile in un modo solo. L’aver motivo di speranza grazie alle lettere piene d’amore muove la poesia di Ungaretti, e quel testo rappresenta a sua volta un invito a non disperare. Se è vero, infatti, come sottolinea bene Elisabetta Motta introducendo una serie di conversazioni coi poeti contemporanei intitolata “La poesia e il mistero” che la poesia deve tornare a essere “seme che sta per fiorire, vita che si dona alla vita” è anche vero che la bellezza intesa solo come proprietà artistica non è, di per sé, motivo di speranza. La poesia, l’arte sono sempre una conseguenza della vita. Lo sapeva bene il nostro Pavese, autore tragico che non cessa di interrogarsi fuori da ogni retorica su cosa renda possibile la speranza. La speranza è dunque, come accennato all’inizio, una bambina che fissa l’artista e gli chiede: ” e con …

Poesia e arte. La misura e il parto, e questi due al bar

Poesia e arte. La misura e il parto, e questi due al bar

da Rilke feat Michelangelo, a cura di Massimo Morasso, CartaCanta edizioni I È come se avessero addosso il dolore di esistere. Come se li vedessi, loro due, Michelangelo e Rilke, ingobbiti e taciturni, un bicchiere davanti, seduti a un motel o un bar di stazione. È come se, nella creazione dei loro capolavori di volumi e pesi e grazie esterrefatte, il poeta e l’artista da lui inseguito avessero per vene diverse ma simili assunto una assoluta disposizione al dolore di esistere. La avessero ereditata da qualcosa che sta prima dell’arte, prima dei bar, e prima della vita se si potesse dire. Che sia una diretta esperienza di orfanità nel caso di Michelangelo o, nell’altro, una orfanità esistenziale per freddissima madre, a segnare tale violentissima dote di dolore con cui investire la vita e la materia artistica, no, non si potrà mai decifrare. Né del tutto si potrà dirimere del tutto se sia stato qualcosa respirato dall’uno nelle arie d’un secolo di duri e inquieti passaggi come il 1500, o respirato dall’altro in quell’inizio altrettanto travagliato di quasi quattrocento anni dopo. Di certo le maggiori esperienze artistiche che li avevano preceduti e loro contemporanee cercavano ancora la perfezione di un sogno antropocentrico, equilibrato sulla umana misura, o sulla sua ultra-dilatazione, umanistica o romantica o avanguardistica che si voglia chiamare. E loro due, invece, portano il vero squilibrio. Stanno seduti in quel bar. Rilke guarda il gigante, Michelangelo è un uomo alto, uno spilungone scontroso al tavolo. Al poeta sembra di riconoscere qualcosa negli occhi dell’artista. L’essere gigante di Michelangelo sta nell’aver dato figura al dolente mistero d’esser creatura. Ha dato figura e anche figura incompiuta, perciò opera eloquente per ogni presenza che in qualche misura offesa vi si ponga innanzi e prosegua, sentendolo, in sé medesima il senso di tale incompiutezza. Artista di incompiutezze per uomini che si sentono incompiuti. Li vedi, di fronte alle sue opere, gli uomini incompiuti. Si riconoscono. Perché il poeta dolente e magnifico lo ha cercato? Che materia o che limite della materia gli serviva trarre dalle parole delle Rime? In questo libretto fiammante che avete tra le mani e che ho chiesto all’editore di fare (e lui, pazzo romagnolo, ha detto sì) Massimo Morasso ci offre una indagine preziosa e puntuale. Michelangelo e Rilke sotto le insegne del bar ci vengono incontro in una doppia mandorla di luce partoriente. II Non hanno madre, non hanno abbraccio della nascita, e non hanno soddisfazione nell’arte. La misura, cosa che abita ovunque il mondo e che ha la prima radice nell’atto della creazione e nel gesto della levatrice, li attrae e respinge. Ne sono sulla soglia. L’attica precisione del gesto, la misura petrarchesca e neo-umanistica diventano in loro ombra ardente, la combustione le divora. La misura da “sicurezza”, da regolamento dell’esistenza nel mondo, diviene soglia, come titolerà Paul Celan. E Ungaretti: “il mistero e di pari passo la misura” In Michelangelo – e nel suo traduttore inseguitore Rilke- sentiamo quel passo, il battito inquietante, ne proviamo lo sgomento. Mario Luzi, altro poeta che svela la soglia, disse che in Michelangelo sentiamo sempre un corpo a corpo ma non solo e non tanto con la materia della lingua e del poetare petrarcheschi, ma con la materia e la possibilità stessa della visione. Con la vita e sua conoscenza, o chiamatela: umanizzazione. Rilke sapeva che la lirica doveva nutrirsi di mito – e ricrearne- ma un mito tutto reinventato nell’io, il grande enigma del suo tempo, come seppero i nostri Pascoli e D’Annunzio. Doveva esser così la poesia, cent’anni dopo il grido del Pastore di Leopardi (“e io che sono?”) per non essere pura vanvera delle sensibilità o non venire del tutto assunta dalla filosofia. Lo sapeva Rimbaud, il giovane che cercava la forza. Lo seppe pochi anni dopo anche Ungaretti, che con gesto assoluto titolò la sua opera con il non-titolo, facendo uscire la poesia dalla letteratura e dalle sue sole misure: “Vita di un uomo”. Michelangelo portò il sogno umanistico e rinascimentale fino alla incandescenza, alla sfarinatura. Drogò di dolore e di grido il Petrarca che s’avviava a divenire padre “dispotico e mite” della letteratura europea. Michelangelo lo scultore fu come un ragazzaccio scontroso che portò Petrarca a fare un giro fuori la sera. E il “fuori” era il fuori di sé in quanto visitato dalla dismisura. Come può esser ch’io non sia più mio? O Dio, o Dio, o Dio! Chi [m’ha tolto]1 a me stesso, c’a me fusse più presso, O più di [me potessi che poss’io?] o Dio, o Dio, o Dio! Come mi passa el core, chi non par che mi tocchi? Che cosa è questo Amore, [c’al core entra per gli occhi, per poco spazio dentro par che cresca? E s’avvien che trabocchi?] III “E se avvien che trabocchi…” Il genio è densità. È lucente ma non per sottrazione. La sottrazione è l’arte, dice Michelangelo, il levare. Ma il genio diviene tale per aumento, per incorporamento. Per conquiste – come scrisse Von Hofmannsthal a Rilke- di territori dell’indicibile al dicibile. O del non figurabile al figurabile. Il genio è storico, l’umiliazione intima. Da dove trasse mai quelle sue mani che quasi si toccano Michelangelo, così da fissare nei nostri occhi il momento della Genesi, misura, sì, e dismisura, come in ogni paternità che è quasi toccarsi di padre e figlio? Cosa aveva veduto per strada o chissà dove in quale suo sonno smanioso, lui che il padre quasi vendette ai signori fiorentini in cambio di favori e che del Padre si sentiva continuamente indegno… Per diventare luminoso il genio deve accumulare molte oscurità. In tale accumulo Michelangelo e Rilke comprendono che l’io, la genialità, e l’arte sono tre livelli diversi della medesima drammatica esperienza. L’uno, l’io, si spoglia mentre il secondo, il genio, si ammanta, si carica, si ispessisce, mentre la terza, l’arte può infine fare luce e oscurità allo stesso momento. Il fallimento personale, ovvero la caduta, la limitatezza, la insoddisfazione, e -diciamolo- la dolorosa esperienza d’esser nati creatura, distinti, non …