XII puntata – “Gesù. Un racconto sempre nuovo”
XXIX
Alla vasca di Betsaida
È dall’ultima Pasqua che Gesù con i suoi non veniva qua. In primavera la gran città di Dio era più dolce, meno febbrile. Vicino a dove stanno passando ora, dietro la fortezza Antonia, Gesù aveva guarito un paralitico. Pietro lo ricorda. È successo alla vasca di Betsaida, la più piccola delle cinque grandi vasche di raccolta di pioggia della città. In quel luogo dedicato ad Asclepio, il dio greco della salute, sostano malvissuti di ogni genere in cerca di un po’ di refrigerio, tenuti dalle guardie lontani dal bordo. Ogni tanto una donna buona o un uomo pio allunga loro un bicchiere o uno straccio bagnato. Nei pressi di quel luogo, la città dei preti, dei mercanti e dei soldati di Roma, diventa un luogo strano. Una zona senza regole, dove ci sono movimenti come di lucertole, nodi informi, di topi, uomini che strisciano si spingono si urtano. Malvissuti e malati, con zaffate di fetore e mugolii, scatti di rabbia, grugniti. Mezzi bisbigli. E ogni tanto il ribollire di acque.
In primavera dunque, nei giorni prima di Pasqua, un uomo sciancato e immobile se ne stava là in mezzo, sperduto con il viso all’aria. Gesù era voluto andare presso la piscina e aveva atteso il momento in cui secondo il popolo un’ala d’angelo passa sulle acque, quando sale un ribollire che in realtà viene dal fondo della fonte. Pietro se lo ricorda bene. Aveva cominciato a ribollire l’acqua. «Passa l’angelo» avevano biascicato alcuni. E i malvissuti e i disgraziati cominciarono a spingere, a strisciare, tra versi, preghiere e imprecazioni. Qualcuno addirittura colpiva i vicini per farsi largo, con un bastone, steso a terra. Quasi tutti avevano chi li aiutava, un parente, un compagno di sventura, una donna. Quel tizio invece se ne stava fermo a terra, steso, fremente. Non poteva muoversi. E non aveva nessuno che si curava di avvicinarlo al bordo della piscina miracolosa. Gesù si mise accanto a lui. L’uomo aveva la faccia storta, sbavava, tremante. Lunghe rughe gli solcavano la fronte e le guance. Le braccia rattrappite erano scarnite. Le gambe percorse da una specie di tremito febbrile. Un nodo di panni lo copriva a malapena. Aveva la barba lunga, che aveva invaso quasi tutta la faccia. Due occhi cisposi e i capelli appiccicati e lunghi. Due lacrime per lo sforzo di provare a scivolare sulla schiena o per chissà cosa gli scendevano di lato. Intorno gli altri strisciavano e si allungavano.
Gesù gli aveva chiesto: «Vuoi guarire?». L’uomo aveva roteato lo sguardo malato nel cielo bianco e lattiginoso, cercando il volto di chi parlava e di tenere fermi gli occhi avvelenati sullo sconosciuto ben vestito che si era curvato su di lui. Dopo un istante, aveva fatto un impercettibile sì con il mento. Gesù prendendolo quasi in braccio lo aveva sollevato. Pietro e gli altri avevano visto. L’uomo sollevato tra le braccia di Gesù barcollava, rideva. Come un bimbo invecchiato. Come se stare in piedi dopo anni e anni di prostrazione lo stupisse e quasi lo divertisse. Sembrava un saltimbanco un po’ fuori esercizio. Ci fu un caos, un imprecare. Gli altri malati e le persone che si trovavano in quel luogo infernale cominciarono ad agitarsi e a gridare. Qualcuno provò ad aggrapparsi alle vesti di Gesù, ma lui, dopo aver detto qualcosa all’uomo che aveva guarito, era sparito via veloce.
Pietro lo ricorda, era di Sabato, e subito qualcuno aveva iniziato a gridare al sacrilegio.
Passando ora ancora vicino alle vasche, Pietro vede che lo spettacolo non è cambiato. Grappoli di ammalati, di disgraziati che incanagliscono lì, strisciano, tenuti lontani dalle altre vasche dai soldati.
Poi dopo quella Pasqua, Gesù aveva fatto un’altra cosa sconveniente. Pietro, mentre cammina ora per Gerusalemme, ci ripensa, quasi sorridendo. «Andiamo in Samaria» aveva detto il Nazareno mentre scendevano dopo l’insegnamento al Tempio. E i dodici discepoli, quasi tutti Galilei, avevano pensato: “Ma allora quest’uomo cerca guai. Cosa può venire di buono da quella regione di malfidati e di avidi?”.
Già prima di arrivare allora a Gerusalemme avevano provato a entrare nei villaggi di quella regione di gente con poca voglia di lavorare e dai costumi arretrati, ma ne erano stati scacciati. E lui, ecco, ci voleva tornare. Forse il sentore di scontro con i farisei e i sadducei consigliava Gesù di togliersi per un po’ dalla Giudea.
Pietro ammira il coraggio di Gesù. La forza con cui va contro i luoghi comuni, le usanze. Ma in pochi facevano attenzione davvero e capivano che cosa animava quello strano uomo. E i dissidi con i sacerdoti facevano mormorare tanti. Raramente qualcuno lo difendeva. Era successo con un vecchio membro del Sinedrio, Nicodemo. Aveva alzato la voce nel cortile del Tempio in sua difesa. Ma i suoi colleghi sacerdoti non lo avevano ascoltato, era rientrato nella folla. Gli scontri si moltiplicavano. Ma evidentemente non era questo che cercava. E così: «Andiamo in Samaria» aveva detto, sorprendendoli ancora. Cosa sta cercando? Si chiede Pietro mentre si addentrano nuovamente nella città grandiosa e tremenda e lui, come spesso gli accade, pensa ai giorni trascorsi. Anche lui sta cercando di capire. Di vedere che cosa veramente sta succedendo.
A volte teme quasi che il cuore e la mente a furia di allargarsi si perdano.
La Samaria era apparsa come sempre, una terra dolce, animata da movimenti di colline, molti tipi di alberi. Fianchi di colline su cui corrono ulivi e ulivi e ulivi. Sta lì, a separare l’aspra Giudea di pastori, deserti e montagne e la Galilea, ricca d’acqua per la pesca e schiantata nella roccia. Il cammino era stato percorso rapidamente.
Come se Gesù avesse fretta di arrivare là, forse per visitare il pozzo di Giacobbe, presso il villaggio di Sichar. A quel pozzo si era radunato il popolo di Israele prima di entrare nella Terra Promessa, guidato dal fratello di Mosè, il condottiero che non entrò mai nel suo sogno. E ora invece il Nazareno si fermava lì, uscendo dal sogno di Gerusalemme.
Arrivati al pozzo, accaldati e impolverati, i discepoli decisero di proseguire verso Sichem, la cittadina vicina per cercare provviste. Gesù si era fermato al pozzo, all’entrata di Sichar. «Vi aspetto qui» aveva detto, sedendosi. Pietro ricorda che ebbe l’impressione che Gesù volesse rimanere solo. E invece era arrivata subito una donna, uscendo dalle poche case sparute del villaggio vicino. Pietro ricorda la faccia di Levi Matteo e di altri discepoli quando tornarono e li trovarono che parlavano. Così non si fa. Una donna sola, e per di più Samaritana. I discepoli si erano un po’ discostati, Gesù aveva fatto capire con un’occhiata che il colloquio doveva essere riservato. Pietro ricorda di aver visto un paio di volte Gesù raccogliere l’acqua dal secchio del pozzo con una ciotola e porgerla alla donna. E lei, dopo i primi minuti passati a osservare quell’uomo strano con una espressione scontrosa e astuta, poco dopo sorrideva. Dai villaggi vennero poi molti da lui, convinti da quella donna. Seppero poi che aveva avuto ben cinque mariti e una vita complicata. Gesù doveva aver letto dentro la sua vicenda mentre si parlavano al pozzo. Ora lei è dei loro.
Chissà perché Gesù ama quella gente, pensa Pietro guardandosi intorno e incrociando lo sguardo della Samaritana che ora sta camminando nel seguito. Ha gli occhi pieni di ombre come nubi e a tratti traversati da luci sfrenate. Una delle parabole che il Nazareno aveva raccontato nelle settimane scorse parlava proprio di un Samaritano buono. L’unico a soccorrere un uomo depredato dai banditi e lasciato ferito sulla strada da chi era passato prima di lui: un sacerdote e un uomo dei Leviti. Dei giusti. La gente aveva ascoltato
perplessa. Mah, un Samaritano buono... E si era andato a prendere quella donna dalla vita oscura... Poi li
aveva mandati ancora in giro senza di lui. Si erano divisi le zone, erano circa settanta gli inviati a predicare e a fare guarigioni in suo nome. Erano state settimane di scontri, di prodigi, di nuove amicizie. Erano stati offesi come lui, chiamati «inviati da Belzebul», cacciati dai villaggi. Avevano ripetuto le parabole che avevano sentito. Scosso la polvere dai calzari nei villaggi dove non li avevano ascoltati, baciato le fronti delle donne che li hanno ospitati, restituito i pezzi di pane avanzato. Imposto le mani a bambini dallo sguardo perso, bagnato le labbra a uomini che tiravano il fiato temendo di precipitare nello Sheol.
XXX
Città santa cresciuta nel grido
Pietro, mentre a Gerusalemme passa tra i banchi dei mercanti e i ragazzetti che chiedono monete, medita sul fatto che negli ultimi mesi Gesù sembra aver intensificato le polemiche contro i sacerdoti. Non c’è occasione in cui non li accusi di essere ciechi, di usare la Legge per nascondere Dio. Loro vengono a interrogarlo, lui li scandalizza. Lo hanno interrogato ormai su tutto. Sul valore del Sabato, e lui li spiazza: è il Sabato per l’uomo e non il contrario. O sulla nascita del male. E lui: dall’interno dell’uomo viene ciò che non è puro. Sulle tasse, sul denaro e lui maledice chi vuole servire due padroni, Dio e Mammona e fa trovare monete in bocca ai pesci.
Di fronte al loro sguardo da vedette si mette a parlare di un pastore buono, che abbandona le pecore per una sola che si perde. Loro restano lì, con i loro rotoli della Legge, i filatteri, le citazioni a memoria. Spiazzati, rabbiosi. Impotenti.
Il mercato in cui si immergono è pieno di voci. Qui Gerusalemme appare come una donna matura, intensa, attiva. La fama di Gesù è cresciuta. Pericolosamente. farisei e sadducei che in genere litigano su tutto a riguardo della Legge sono in ugual misura irritati dalla presenza del Nazareno. Passano drappelli di soldati romani, sudati e ciarlieri ma con gli occhi cupi e vigili. Ci sono donne che vengono da paesi sconosciuti, pelle mora, altissime. Hanno serve che le precedono, alcune viaggiano su lettighe coperte da veli, al modo di Roma o di Alessandria. Ci sono uomini con gli occhi spenti fuori dalle botteghe. Nei quartieri più poveri, poche strade più in là, ci sono mucchi di immondizia lasciati alle mosche negli angoli, capre che vagano. Bambini giocano col niente. Il bianco dei muri nel mezzogiorno è un grido vuoto.
La città di Dio è percorsa da tensioni. Meno di un tempo, ma sempre pronte a riemergere. Erode e i Romani stanno trattando con il pugno di ferro ogni movimento di sedizione. Ci sono spie ovunque. Gli zeloti sono quasi scomparsi ma i semi del loro movimento violento, radicale e teocratico si annidano ancora in molte fazioni. Qualcuno mormora che anche tra i seguaci del Nazareno... Le congiure si sono fatte più astute, sottili.
I movimenti impalpabili, sfuggenti. Spesso mascherati dentro diatribe di pura teologia. È ancora vivo il ricordo dei duemila crocefissi di Erode il Grande che urlavano notte e giorno per la città, e delle truppe del governatore di Siria, il romano Varo, che avevano soffocato nel sangue la rivolta di Giuda figlio di Ezechia.
Di recente il nuovo governatore della regione, Pilato, ha sfidato le ire dei sacerdoti e degli anziani. Le grandi aquile d’oro segno dell’Impero sono arrivate da Cesarea. Le ha esposte davanti al Tempio, ricostruito solo vent’anni fa. Come un marchio immenso, e un immenso affronto. Le hanno portate schiavi con i carri tra polvere e frustate. Poi le hanno innalzate su due colonne. Ci sono stati tafferugli, i soldati romani hanno dovuto respingere assalti di esagitati con lanci di pietre. E i sacerdoti raccolti nei loro mantelli hanno mormorato le parole che sono diventate incendio di ira tra i vicoli e nella giugulare di giovani esagitati davanti ai cordoni e i soldati, offese al passaggio di Pilato, sputi verso quelle aquile cieche e dorate. Pilato ha capito che non era il caso di tenerle. Le nere cornacchie dei sacerdoti non sopportavano la vista dei due rapaci stranieri. Il governatore di malumore le ha fatte tornare a Cesarea. Una notte sono sparite, come se dovessero portare altrove la loro pupilla regale e assassina. Ma lo sfregio è rimasto nell’aria. L’offesa ancora una volta è condivisa, è il risultato dell’azione. Offeso Pilato, e offesi i sacerdoti. Il mondo a volte appare come un procedere, cadere o sfasciarsi di offesa in offesa, un aumento del sentirsi in credito, tutti derubati di qualcosa. La vita come una continua offesa... È solo così? Pilato a volte se lo chiede, lo chiede muto al volto enigmatico della moglie, donna di sogni e di parole oblique. Ogni tanto riesce a distogliersi dai pensieri della amministrazione e del controllo militare. Ma sono attimi, lievi come nostalgie. Deve stare allerta, specie qui a Gerusalemme.
L’altro giorno nei vicoli intorno al Tempio qualcuno tra i cospiratori ha sguainato il pugnale, ma una lancia romana gli ha mozzato il respiro e riempito la bocca di sangue. Il corpo è stato fatto sparire in fretta. C’è sempre qualcuno nei vicoli o dietro una porta seminascosta pronto a dare una mano ai soldati invasori.
La situazione in alcuni momenti sembra pronta a incendiarsi. Le provocazioni di Pilato hanno riacceso gli animi. Per i Romani, le complicazioni religiose di questa gente sono incomprensibili. Ovunque l’imperatore è adorato e le sue insegne vengono esposte. Dalle rupi della Britannia alle dolci campagne della Apulia. E invece in questa città di mercanti e di antichissime Scritture mormorate non si può, non si riesce. Pilato ne è infastidito, i soldati della sua guarnigione sono nervosi. Non capiscono bene cosa c’è nell’aria. Per di più si dice che a Roma Seiano, il protettore di Pilato, non goda più buona fortuna. Anche là congiure, voltafaccia, lotte aspre.
Per il potere. Unico sole nero che sfolgora sempre. A Roma, a Gerusalemme, o dove si muovono uomini vestiti alla greca o in villaggi perduti nei boschi del Nord, ovunque la storia gronda sangue, sperpero di giuramenti, durezze violente dietro sorrisi di circostanza, mani che si stringono spiando negli occhi dell’altro quale sia la sua debolezza fatale.
Il capro impazzito nel deserto sta vagando con il suo grido sperduto. Il sole di ottobre dona a Gerusalemme il colore più seducente. Bellezza e morte ancora, qui dove il sole bacia con la sua bocca ardente e senza labbra la tomba del re Davide, il potentissimo capo che ebbe un figlio morto dalla sua amante e mosse in guerra contro il suo figlio più amato... Assalonne, Assalonne... Sembra a volte di sentire ancora la sua voce di poeta invecchiato gridare piangendo il nome del figlio bellissimo e prediletto, tradito dai lunghi capelli impigliati in un albero. Era come impazzito quel ragazzo che amava girare in cocchio la città coi suoi lunghi capelli al vento.
Seguendo i consigli devianti di qualcuno si rivoltò contro il padre, il grande re Davide. E questi aveva dato ordine di mettere in fuga il suo piccolo esercito di folli, e di catturarlo. «Vivo lo voglio», aveva detto il re padre guardandolo dalle mura. Ma i capi della sua guardia lo avevano inseguito e, catturato presso quel maledetto albero, lo avevano ucciso, forse ispirati da qualcuno dentro il palazzo. Assalonne, Assalonne... Gerusalemme, città santa cresciuta nel sangue, nel grido.
La festa detta delle Capanne sta attirando anche quest’anno una grande folla. Entra in città ogni genere di persone. Le strade che portano al Tempio brulicano. E questo gruppetto d’uomini entra senza farsi notare, Gesù ha il capo velato e il viso seminascosto, i suoi con discrezione lo circondano. Senza allarme, ma tenendo gli occhi ben aperti.
XXXI
L’adultera, Gesù scrive
La gettano ai suoi piedi. Cade senza una voce, come un sacco, un animale.
L’uomo con la faccia arrossata e la barba corta l’ha trascinata per un braccio. Lei cade con le ginocchia sulla pietra. Ha già le mani graffiate e la tunica color del fango scucita sulla spalla. Un animale spaventato.
Meno di vent’anni. I capelli neri sono spettinati. Ha un segno sul collo, forse uno schiaffo, un colpo violento.
Un morso.
«Cosa ne dici?»
Il tizio con la barba corta si pianta a pochi passi da Gesù che interrompe quel che sta insegnando. Il cielo è chiaro, d’un bianco quasi violento. L’autunno è al suo culmine stordito. La zona del Tempio dove si trovano
cade nel silenzio.
Giacomo pensa: “Ci siamo”.
Già da qualche giorno Gesù si mostra nel Tempio di Gerusalemme durante la festa.
Contrariamente a quanto previsto, sale nel grande colonnato e siede lì. In un baleno si sparge la voce: il Nazareno è al Tempio, il Nazareno è arrivato. Lo mormorano agli angoli, dietro ai banchi del mercato, tra i tavoli di orrende bettole, vicino alle piscine dei malati. E viene gente ad ascoltarlo. Nessuno in città parla apertamente di lui. I capi dei Giudei lo hanno impedito. Chi lo fa rischia l’espulsione dalla sinagoga. Ma ormai le voci, fuggenti, anonime, improvvise si spargono: il Nazareno è a Gerusalemme, è arrivato. Lo hanno visto al Tempio. Lo trovi là, vicino al grande portico. E molti vengono a cercarlo tra le colonne.
Giacomo guarda Pietro. Ombre inquiete nelle pupille scure. Già ieri si erano presentate le guardie dei sacerdoti. Avevano il compito di arrestarlo, portarlo via, così che le persone si disperdessero, e smettessero di andare da lui. Ma quelli erano rimasti impressionati dal numero di persone e si erano fermate e avevano ascoltato quanto Gesù diceva. Erano tornati senza far nulla. Il giorno ancora avanti, uno dei discepoli aveva avvisato che c’erano guardie che lo stavano cercando e in fretta e furia avevano lasciato la gente che ascoltava
ed erano scesi di corsa per le lunghe scale del Tempio. Le tuniche avevano frusciato nella corsa tra i pellegrini, qualcuno aveva chiesto: «Cosa succede?», i respiri si erano spezzati nell’affanno. Si erano nascosti nei vicoli, in una casa di amici fidati indicati da Giovanni, il discepolo segreto. Il ragazzo in questi giorni è teso, guardingo, felice. Ha allertato alcuni amici fidati, si sono scambiati segni di riconoscimento. Quando alla porta si batte in un certo modo, se alla finestra arriva un fischio così... I rifugi non mancano, Giovanni è un ragazzo sveglio. E ha amici tra i giovani più in vista di Gerusalemme. Qualcuno gli ha anche consigliato di tenere nascosto per un po’ il suo pericoloso amico. Ma ormai il Nazareno è in campo aperto. E la gente sa che può trovarlo al Tempio, va a cercarlo là. Alcuni pensano, anche a voce alta: se i sacerdoti non intervengono a impedirgli con la forza di predicare, significa che forse lui ha ragione. Molti non capiscono bene cosa stia succedendo.
Nel Tempio in questi giorni ha insegnato tante cose strane.
Mentre la ragazza resta a terra davanti a Gesù, Giovanni gira i suoi occhi pieni di nubi, crivellati di stelle tra la folla per cercare di riconoscere se ci siano sicari o guardie mandate a ucciderli. L’aria è tesa.
Gesù, come al solito, ha raccontato parabole. Molti non comprendono bene ma stanno ad ascoltare. Tra la gente si discute se il Messia possa mai essere uno che arriva dalla Galilea. Una parabola nei giorni scorsi è stata ascoltata in un grande silenzio. Parlava di due figli. Uno che resta con il padre e l’altro che si perde tra i vizi. Butta via un sacco di quattrini del vecchio genitore. Donne e festini. E vino, parecchio vino. Le cose poi gli vanno male, finisce il denaro, perde ogni cosa e si riduce a rubare il cibo agli animali, ai porci. A quel punto il disgraziato pensa che forse stava meglio a casa del padre e ritorna. Gesù aveva descritto l’invidia del figlio più fedele, visto che il padre va incontro a festeggiare il ragazzo come un resuscitato.
Sì, il padre esce di casa incontro a lui come fosse un ospite di riguardo. E il fratello fedele indurisce in una luce senza gioia.
Si era fatto un silenzio impressionante. Il finale della storia era stato ascoltato quasi senza respirare. Cosa è
questa storia... il peccatore accolto meglio del fedele...
In certi momenti, il grande Tempio sembra sparire alle spalle di quest’uomo che parla con autorità.
Ieri alcuni si sono avvicinati e gli hanno detto: «Vattene, Erode ti vuole uccidere». Ma lui alzando appena lo sguardo e senza tremare nella voce ha risposto: «Andate a dire a quella volpe che sto qui, a guarire dai demoni e dalle malattie, perché un profeta non muore fuori da Gerusalemme».
Pietro aveva tremato a quelle parole. Non era la prima volta che lo sentiva parlare della propria morte E ora la sfida così frontale a Erode...
Gira voce che alcuni dei sacerdoti si siano trovati a casa di Hannah e abbiano discusso su cosa fare, visto che il popolo sembra sedotto dal Nazareno. Dopo lo smacco del mancato arresto di ieri, non hanno preso nessuna decisione. Nei giorni della festa potrebbero sorgere tumulti. Occorre provare a screditarlo, coglierlo in fallo, presentargli obiezioni. I sacerdoti, per ora, hanno deciso questa linea.
Loro, i capi, per ora evitano di incontrarlo. Mandano emissari, provocatori.
Il tizio con la barba corta sta dunque davanti a Gesù mentre la ragazza spaventata a terra tace. Lei non alza
la testa. Gesù lo guarda come dire: perché ci disturbi.
Ma quello che sembra aver studiato bene la parte alza la voce perché lo sentano bene intorno e prosegue: «È stata trovata in adulterio». In molti mormorano, ripetono la frase. Qualcuno si alza sulle punte per vederla. Altri ridono coprendosi la bocca.
Lei a testa bassa. Gesù tace e guarda altrove. La ragazza vorrebbe sparire, arretra come un gatto, cerca di nascondersi tra le gambe di quelli nelle prime file. Ma alcuni compagni del suo guardiano la sospingono in mezzo di nuovo con calci e spinte. I presenti si allargano ad ala, si crea una strana arena che occupa una parte del cortile del Tempio. Molti curiosi passano, si assiepano. Il cielo del primo mattino di Gerusalemme è altissimo. Il mese di novembre è abitato da brividi.
Lei mezza nuda trema. Dove è l’uomo che le mormorava: «Il tuo ombelico non è mai privo di vino speziato»? Ha paura? Si è nascosto? O è stata lei a pregarlo di non fare atti inutili di coraggio, scongiurandolo: tu resta vivo... Quando alza il viso per guardare Gesù, la ragazza è senza espressione. Qualcuno mormora: «È spacciata». Qualcuno mastica parole offensive.
«Allora, cosa ne dici? Mosè nella Legge prescrive che donne come questa siano lapidate. Tu cosa ne dici?»
dice l’uomo in faccia al Nazareno.
Quel tizio si guarda intorno. Deve misurare l’effetto che fanno le sue parole sui presenti. Sembra soddisfatto.
Nessuno fiata. Molti arretrano e così resta una piccola arena di scribi e farisei che l’hanno condotta lì, la donna tra loro, e Gesù. Parecchi tagliano la corda, non è aria. Lo scontro così aperto nel Tempio non promette nulla
di buono. Molti si ritirano fino alle colonne del portico.
Pietro cerca Giacomo, è teso, inquieto. Bartolomeo si mette su un gradino del cortile, quasi a sorvegliare che non ci siano mosse strane. Andrea si accovaccia, poco lontano da Gesù. Lo fissa, tiene un bastoncino tra i denti.
La ragazza non sa cosa fare. Rimane a terra, si solleva sulle braccia. Ha gli occhi stanchi, si tira nervosamente
una ciocca di capelli. Ora un poco piange, ma in silenzio. Tra le donne si sa bene cosa può capitare in questi casi. Anche lei è stata portata da piccola a vedere cosa accade nella buca. Là sul ciglio della fossa, la bambina che era cercò di nascondere il viso sul ventre della madre in piedi dietro di lei. Ma il padre la bloccò, e le girò la testa lentamente perché guardasse. Lei rigida vide. Sono passati poco più di dieci anni e non ha mai dimenticato il rumore delle pietre sul corpo chiuso in un lenzuolo. Sordi monotoni. La figura là chiusa dentro al sacco si muoveva e riusciva appena a lamentarsi per il bavaglio, poi in silenzio si sfasciò inzuppando di
sangue la tela.
La ragazza sbattuta a terra è di statura normale, dalla tunica escono le caviglie e i piedi nudi, l’hanno trascinata così. Per lei qualcuno deve aver detto «alla cavalla del faraone ti somiglio / belle le tue guance tra i monili pendenti»... Ma ora nessuno darebbe un soldo per lei.
Gesù non la guarda più. Si mette a tracciare dei segni per terra. Come se pensasse ad altro.
Tra gli scribi qualcuno sbuffa. «È una troia» fa schiantare nell’aria qualcuno. Allora il tizio che finora lo ha interrogato riprende, più brusco: «Dunque? Come ti pronunci tu, rabbì nazareno?».
Ma Gesù non alza nemmeno la testa. E continua a tracciare i suoi segni. Da bambino aveva visto suo padre, il falegname, fare così ogni tanto. Come onde, o parole in una calligrafia misteriosa. Forse sono parole che solo lui intende.
«Io penso» infine dice con voce forte, ma senza alzare il capo, «io penso che...»
La sua pausa fa tremare il silenzio tra i presenti. La ragazza trattiene un singhiozzo. «...chi di voi è senza peccato deve scagliare la prima pietra.»
Giovanni sorride, un cerbiatto. Giacomo si passa una mano sul viso. Pietro solleva la testa e vorrebbe ridere ma si trattiene. Alcuni mormorano, si ripetono la frase di Gesù. Il tizio con la barba ben curata rimane immobile. Sembra che la luce bianca dal cielo tra le grandi mura del Tempio lo abbia calcificato. Poi fa un passo indietro e guarda i suoi compagni. Alcuni di loro hanno la pietra stretta in pugno.
Quelli che si sono fermati un po’ indietro si chiedono tra loro se qualcuno ha sentito cosa ha detto il Nazareno, e di ripetere la sua sentenza. La ragazza si guarda intorno. Cerca qualcuno che le spieghi almeno con un cenno cosa deve fare.
Dal semicerchio di farisei e scribi non si alza più parola. Poi nel bianco del Tempio e nell’aria immobile il più anziano si curva lentamente e posa la pietra che aveva in mano per terra. Poi un tonfo: un altro l’ha lasciata cadere. La gente intorno vede che il gruppo oscilla, si guardano l’un l’altro, nessuno ribatte. Un altro ancora lascia cadere la pietra. Un altro. Un altro. Il rumore sordo sul pavimento polveroso del cortile del Tempio risuona in petto alla ragazza confuso con il suo batticuore.
Gesù continua a tracciare i suoi segni sulla polvere per terra. Pietro sente il respiro indurirsi in una gioia strana. “Li ha fregati ancora.” Lancia un’occhiata a Giacomo.
Il gruppetto di scribi e farisei i scioglie, va via tra i primi anche il tizio con la barba curata. Dà un colpo al braccio di uno dei compagni e fa segno di muoversi.
Quando tutti o quasi se ne sono andati, Gesù alza gli occhi sulla donna. Dice solo: «Dove sono tutti? Nessuno ti ha condannato?».
Lei non sa cosa fare. Guarda Pietro e Giovanni, ha capito che sono amici di quello strano rabbì. Sembra quasi chiedere a loro cosa dire. Poi sussurra qualcosa agitando la testa in un no: «Nessuno». E negli occhi ha
nuvole che si sciolgono.
Gesù allora passa una mano sui segni nella polvere cancellandoli. La guarda.
«Neanch’io ti condanno. Ora va’, e non peccare più.»
Lei lo fissa. “Chi sei?” pensa. Ma non dice nulla.
Bartolomeo le dà una mano a rialzarsi. Le posa un mantello sulle spalle. Lei fa un cenno goffo di ringraziamento, ci si avvolge.
Si allontana velocemente.
Andrea segue con gli occhi la sua corsa di ragazza.
XXXII
Gli insonni, il giovane ricco.
Il cerchio si stringe
In inverno a Gerusalemme viene freddo.
Stanotte la pioggia batte con una strana rabbia. Lucida le pietre, le lastre d’oro del Tempio che sovrasta la città. Una mole più buia delle altre, una montagna che si sforza di esistere, come un incubo.
L’alba si sta preparando da qualche parte. Ma non c’è nessuna luce se non poche lanterne sotto qualche portico su al Tempio o appese sotto la volta d’entrata delle case più ricche. Sembrano stelle disperse che rischiarano debolmente la tenebra frustata di acque.
Giovanni, il giovane discepolo segreto, non riesce a dormire. La pioggia lo ha svegliato e sente il cuore in allerta. A volte gli capita, forse nella sua febbre giovane d’anni sente i cambi, i movimenti del cielo.
La casa dove sono ospiti è di un suo amico fidato, la visita di Gesù è protetta nel segreto. Le autorità del Tempio stanno tramando ed è meglio ogni notte far sparire le tracce. Qualche volta tornano fuori Gerusalemme per dormire. O se la notte non è troppo rigida si accampano presso il luogo chiamato orto degli ulivi, di proprietà della famiglia di Giovanni. Ma in certe sere, quando il freddo morde o si annuncia pioggia, preferiscono cercare rifugio in città presso qualche fratello segreto. Gesù ama in modo particolare Giovanni, che non può esporsi troppo perché appartiene a una delle famiglie più in vista di Galilea ed è sceso qui a studiare presso il Tempio. A volte Gesù lo osserva come se vedesse in lui, nel giovane inquieto promesso alla grande carriera di sacerdote che da quel giorno al Giordano lo segue, lo sterminato movimento della storia di Israele.
Come se nella luce del suo sguardo febbrile attraversato da nubi di pensieri si stessero chiarendo i secoli e i millenni di leggi e profezie, di rotoli venerati in segreto durante l’esilio o in sperdute sinagoghe. È un ragazzo colto, sa di teologia, conosce il sommo sacerdote. Sta seguendo Gesù in modo quasi nascosto con una pensosa meraviglia. Al Tempio si fa vedere come se fosse mischiato tra la folla, ma ormai si scopre sempre di più.
La sua fede si è spaccata dentro. Gesù a volte osserva il ragazzo, come se immaginasse il suo destino. Come se a lui toccasse un privilegio pauroso.
Stanotte è freddo. Gerusalemme è deserta. Le facciate delle case sono illuminate dagli schiaffi della pioggia e dai riflessi delle lanterne.
Giovanni guarda fuori dalla finestra.
I suoi compagni dormono come bambini sperduti nelle altre stanze.
Anche Gesù, nella stanza che il padrone della casa gli ha riservato, dorme. Era segnato da grande stanchezza. Pietro gli ha detto ieri: «Maestro, mangia! Devi riposare». Rimane diverse ore nel Tempio a parlare con le persone. E lo cercano sempre i malati. Lo seguono per i vicoli, cercano dove abita. Lo seguono da lontano anche gli sgherri del Sinedrio.
Si appostano vicino alle colonne del Tempio, si mescolano alla folla. Pietro è nervoso, Giacomo è molto preoccupato. Non ne parlano tra loro, non ce n’è bisogno. Ormai Gesù sta parlando sempre più frequentemente della sua natura di Messia. Eppure, aveva detto loro di tacere certe cose.
Lo aveva confidato come un segreto. E ora Giovanni, il giovane teologo, è il primo a sobbalzare quando Gesù butta certe cose in mezzo ai discorsi. Chi deve capire capisce. E la gente lo guarda con ammirazione. O con un’ombra negli occhi. Forse il Nazareno ha cambiato strategia?
Giovanni sente crescere l’onda. Venire al Tempio ad ascoltare il Nazareno è diventato uno degli eventi più
importanti di Gerusalemme. Non può durare. Le onde possono travolgere tutto da un momento all’altro.
Il Tempio con le pareti ricoperte di lastre d’oro manda una luce fosca sotto la pioggia. L’acqua i pianti le maledizioni potrebbero colpirlo per millenni e millenni e mai potrebbero scalfirne la potenza. Il cortile detto dei Gentili con le sue colonne di marmo bianco di oltre dieci metri è un corteo di grandi fantasmi. Più addentro, la grande porta con i gravi battenti di oro e argento separa dal luogo dei sacrifici, dove un altare alto e lungo più di sette metri sarà bagnato dal sangue delle bestie sacrificate. Colerà, scenderà, viscoso e violento
fin dall’alba. La pioggia ora lo lava, come una disperata. Il sangue va via, si può pulire... Più avanti, come Giovanni sa bene, c’è la parte centrale, il vestibolo e poi la stanza santa con la grande menorah, il candelabro, da un lato e l’altare dei pani dall’altro. Fino all’incontro con Gesù aveva pensato di dedicare la vita a diventare sacerdote del Tempio. Si vedeva già oscillare mormorando in quello spazio luminoso e sospeso. E infine lo spazio più sacro, separato da un grande tendaggio, il luogo santo dei santi. Il luogo del grande vuoto e della grande Presenza.
Giovanni sta con la testa poggiata al muro. La pioggia batte contro il legno delle imposte della finestra nella parete a lato. Non guarda più verso il Tempio. Pensa al giovane uomo, poco più grande di lui, un tizio molto ricco che hanno incontrato qualche giorno fa. Un uomo così gentile e triste. Pensa: “Avrei potuto essere io”. Pioveva anche quel giorno. Quel giovane aveva detto a Gesù d’essere un fedele osservante. E quando aveva chiesto al Nazareno cosa gli mancasse per entrare nel regno dove Dio è signore della realtà, dove le cose della vita sono trattate come Dio vuole, Gesù aveva detto solo: «Vai, vendi tutto, e vieni con me».
Giovanni rivede il loro incontro al Giordano: “A me è capitata la stessa cosa”. Quando aveva sentito Gesù parlare in quel modo al giovane molto ricco e molto triste, aveva sperato e ripetuto dentro di sé: “Vieni con
noi, vieni con noi...”.
Ma non lo aveva detto. C’era silenzio, nessuno parlava. Si sentiva solo la pioggia, lieve e feroce.
I servi egizi e le serve etiopi del seguito tenevano le redini di muli e cammelli come sogni, guardavano senza capire con i loro visi annoiati. Si erano fermati sotto la pioggia leggera. I rivoli della pioggia più grossa caduta poche ore prima correvano ai lati della strada lastricata di pietre. Il ragazzo era arrivato con il suo seguito. Evidentemente, aveva cercato di incontrarlo. Sapeva che di lì sarebbero passati il Nazareno e i suoi. E in mezzo alla strada aveva chiesto di parlargli. L’acqua bagnava il volto di Gesù che lo fissava. Doveva essere veramente un ragazzo serio, gentile. Quando Gesù gli aveva detto quell’ultima frase, lui aveva piegato leggermente il viso. Come se studiasse l’uomo immobile sotto la pioggia. Nei suoi occhi ingentiliti da linee di trucco, nelle pupille nere bellissime sotto le sopracciglia ben curate sembravano rompersi mille pagliuzze d’oro. Qualcosa di più prezioso di tutti i suoi beni. Poi si era voltato ed era andato via. Giovanni avrebbe voluto gridare.
Gesù aveva negli occhi il volo fermo di un airone nel grigio del cielo. Poi aveva ricominciato a piovere forte.
Anche ora alle orecchie di Giovanni la pioggia è un muggito. Un lamento. Forse preme qualcosa nel cuore nascosto di Gerusalemme. Gesù ha usato parole così dure sulla fine della città. E altri segni oscuri.
Ora anche un altro dei discepoli non dorme. È Filippo. Se ne sta con le braccia incrociate dietro la testa. Il suo viso duro e pensoso è scolpito nelle penombre. A volte pensa a quanto sono stupidi lui e i suoi amici. Come l’altro giorno quando si sono messi a discutere mentre camminavano su chi fosse il più grande. E il Nazareno li guardava sorridendo facendo finta di non sentire.
Filippo guarda verso la stanza dove dorme Gesù. Pensa.
“Per mesi e mesi siamo stati con quest’uomo senza capire nulla...
Ha detto: morirò a Gerusalemme.
E cosa si sta preparando ora in questa magnifica tremenda città?”
“Ha detto: morirò a Gerusalemme” pensa anche Giovanni.