Ungaretti: amare come una belva e un bambino
Sulle Lettere a Bruna di Giuseppe Ungaretti, Mondadori
Cosa fa un uomo anziano, il giorno dopo Natale nel ’66 in una Roma gelata, all’ufficio centrale delle poste, presso “l’unico sportello da cui si possa mandare qualcosa”? Manda lettere, cataloghi, profumi...
È un demente d’amore, è uno dei soli cinque uomini che era al funerale di Modigliani a Parigi, un uomo che a Natale del 1916, cinquanta anni prima, invitato in una casa, dormì per terra invece che a letto, assuefatto alla trincea. Era ed è il più grande poeta italiano del Novecento. Uno dei più grandi al mondo. Giuseppe Ungaretti.
Cosa fa in quell’ufficio postale deserto, piegato su dei fogli in una giornata di festa, presso l’unico sportello postale aperto? È uscito dalla sua casa di vedovo all’Eur, ha impiegato un’ora d’auto per arrivare. Non può evitare di scrivere, di spedire, di “gridare” nelle lettere il suo amore. Manda a Bruna, giovane poetessa brasiliana. Lui è “antico” (come si definisce per età e perché rappresentante della storia intera della poesia) e “vecchissimo” ma lavora “come un vent’enne”, sta compiendo “quattro volte vent’anni”. Lei è giovane, venticinque anni, discende da una bella famiglia di imprenditori italiani stabilitisi a São Paulo, i Bianco, e si era presentata con un malloppetto di poesie a una conferenza.
Da quell’incontro nasce una vicenda d’amore “mitica”. Ora cospicua parte delle lettere viene pubblicata dalla destinataria con la prefazione di Silvio Ramat e l’aiuto di una poetessa e studiosa brasiliana, Francesca Cricelli, che, insieme al sottoscritto e ad Antonio Riccardi, ha dato avvio alla scoperta del tesoro. Le vie dell’amore sono infinite, il gesto di Bruna Bianco stupendo, generoso, intelligente. Non per vanità personale né per lucro. Ma per gettare in questa epoca di passioni tristi, e in una Italia – mi diceva al telefono – che sembra non sorridere più, il ritratto interiore e potente d’un uomo che ha intensamente vissuto e un amore libero, sofferto e lucente. Gli studiosi sapevano della esistenza delle lettere, anche perché un “dialoghetto” in versi tra Bruna e Ungà è presente nel Meridiano delle sue opere tanta era la stima, che qui si legge continua, alle poesie della ragazza. Ma le lettere non sono solo violenta e dolcissima corsa tra le parole amorose di Ungaretti. Già questo le renderebbe tesoro immenso. Ma aprire il corposo volume – leggendolo a casaccio, o seguendone il filo come un romanzo – significa entrare in un turbine di vita. Un poeta acclamato in ogni dove a volte si lascia chiamare “Poppy”, scansa le gelosie o parla del possibile Nobel lungo un reportage quasi ossessivo. Era epoca né telefonica né web e le lettere sono ricchissime. Incontri, arte, regali, dai dipinti di Fautrier a quelli di Schifano, braccialetti, fino ai profumi scelti per lei. Con pagine vertiginose: quelle su Salomé e profezie culturali più lucide di quelle di Pasolini. O su tanti amici. A tratti è lui che raccomanda alla più sofferente ragazza come ripararsi dalla vita mentre lui vi si immerge senza riparo, senza scampo, “felice, e disperato d’esserlo”.
Che cosa fa scrivere a un uomo: “ti amo più su della follia” oppure di continuo “ti amo” “ti bacio” e: sei la “novissima verità dell’anima mia”?
È solo “demenza”? È, certo, la esperienza di una giovinezza che rovescia le leggi del tempo. Ma cosa è l’amore di un poeta, mi chiedo sfogliando queste pagine furiose ma anche d’anima fragile, di sperdimento, di solitudine immensa? Quale prezzo sta pagando nell’acquisto di una nuova profonda consapevolezza? Quale tensione si instaura tra lo slancio amoroso e tutti i limiti che incontra? Una tensione cercata, desiderata: vita della vita. Avremmo queste pagine se Bruna avesse abitato a pochi chilometri? Se avessero avuto entrambi vent’anni? E Ungà si sarebbe così innamorato sperdutamente di una che non avesse addosso il Brasile (luogo della foresta barocca, del sole e soprattutto luogo della morte del suo piccolo Antonetto che compare qui in un frammento di luce, piccolino a cavallo, elegante...). Avrebbe gridato di amore così come “una belva” se insomma l’amore non avesse negli occhi qualcosa della morte o diciamo meglio: del senso del limite? Questo sanno i poeti in amore da Arnaut a Dante, da Pavese a Rilke a Ted Hughes: nell’amore si erge più visibile, sfidante, il limite, il senso drammatico della nascita umana. Chiamatela come vi pare, questa tensione fatta di distanza, di non possesso, di alterità. Io la chiamo verità, in queste pagine è lei che fa piangere e sorridere. E rilancia a vivere. Amare è abitare tale esperienza che qualcuno chiama saggezza, altri come Leopardi “siepe” a velare e rivelare. Cosa aveva in mente sant’Agostino quando legava tensione dell’eros e scrittura? Ungà parla spesso di questo amore con i nomi della poesia (del resto li aveva fatti incontrare e ne discorrono sempre). Ma allora dentro le dinamiche di follia, gioia, pena, cosa è l’amore di un poeta? Che “novissima” verità scopre soffrendola, abitandola? Noi siamo un grido infinito in un ritmo limitato.