Tu, assorta lontananza In un suo splendido romanzo, La morte di Virgilio, Herman Broch parla della bellezza, tra l’altro, come di una “assorta lontananza”. L’espressione colpì anche Hanna Harendt, amica di Broch. E pure a me questa visione della bellezza come “assorta lontananza” si propone come suscitatrice di riflessione. Infatti, cosa ho inseguito fin da ragazzo in poesie e gesti di poesia, se non quella visione di qualcosa di assorto e lontano? Lontano certo dalle brutture e dagli scadimenti della prossimità e della volgarità, ma anche lontano dal frastuono e dalle ombre del cuore e degli occhi. Lontano come in un paese promesso, in una terra intravista. E assorta come una figura concentrata su un segreto, su una verità velata, inespressa. Accennata. La bellezza è un invito. Come la verità. in questo coincidono. E sono rischiose perché entrambe esposte alla libertà di chi le incontra e le cerca. Mai ho pensato alla bellezza come assenza di rischio. L’ho presa a volte sulle mie ginocchia, come ha fatto Rimbaud, e l’ho trovata amara – perché amaro era il mio cuore. Ma non per questo ha cessato, assorta e lontana, di invitarmi, di riaccendere la tensione al viaggio. Anche la bellezza delle colline, dice d’Annunzio, non smette mai di essere un invito: “e ti dirò per qual segreto le colline sui limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte.” (da La sera fiesolana) Un invito inesauribile, pronto a ridestarsi nei luoghi più oscurati del mondo, nei posti che ho visto viaggiando, poeta nomade, tra indie e sud Americhe, afriche e metropoli americane e paesaggi europei, tra suk arabi e oceani. Un invito che sembra svanire e poi pronto a ridestarsi in volti di ogni genere, incantevoli e feriti, preziosi e stremati, giovani e lavorati dal tempo. Nei versi di grandi poeti, nei primi versi di ragazzini. In capolavori dell’arte e in malfermi tentativi. Un invito a cosa? Non parla quella assorta lontananza. Lascia ad altri la parola, provano a pronunciarla sapienti, filosofi, sacerdoti. Ma lei resta in una sua ulteriore lontananza, in un invito che sfianca e fa imprecare (o pregare, dipende dall’atteggiamento del cuore) Come se questo attributo del mistero vivente provocasse, lei bellezza taciturna, tutti gli altri parlanti a parlare fino a sfiancarsi e poi a tacere, a contemplare. Forse la mia vita – traversata da debiti e dolori di ogni genere- è stata contemplazione? Non sono ricco di nulla, né di denaro né di virtù, ma negli occhi sì… La ricchezza è il belvedere: Anche un inglese dice Belvedere, dice l’Italia in una parola, e il francese e il germanico, ma io so cosa costa al sangue alla mente al vento degli occhi belvedere queste colline e il mare – e il tuo volto quando si sta e non si sta per voltare Vai a Frascati ad Albano sui colli romani, era privilegio da imperatori e signorile avere davanti alla fronte null’altro che il Belvedere. La vera ricchezza era quel che ti si offriva alla vista. Gli altri vedano se stessi, le nuche, le nausee, gli sguardi stanchi, le schiene curve nei campi nel tempo, o le grandi specchiere velate delle sale. Il mio belvedere furono i tuoi occhionda – la villa imperiale del mio cuore, piena di luci e di balli, tacque un istante sprofondò nella sera da dove viene tutto, e va, si azzurra e si oscura Sono lontano da qualsiasi idea consolatoria della bellezza, non perché essa non offra balsami agli animi feriti e pronti a inebriarsi del suo fascino, ma perché non mi accontento di tali consolazioni. Voglio mordere la polpa viva della vita, non sedermi soddisfatto, sognante, inebetito. Ho l’animo del felino e del mistico selvaggio, voglio la preda, la congiunzione carnale ed estatica, il resto è prezioso minuetto. La bellezza assorta e lontana affatica come un viaggio, come una rilavorazione infinita dell’opera, lascia una strana micidiale e sacra insoddisfazione. Diventa, nei suoi capolavori, come diceva Baudelaire, il motivo di un “ardente singhiozzo” che mostra la nostra vera dignità, quella appunto d’essere capaci di creare bellezza che come un singhiozzo ardente va a morire ai piedi della eternità di Dio. Quella eternità che nella lontananza, come quella che si sperimenta nei confronti delle persone amate, si dà a noi come prima esperienza drammatica di lei per noi qui, nella valle di lacrime e di incanti che è il tempo. La bellezza è un altrove che irrompe nel cerchio confuso delle esperienze, e ne diviene pure lei preda (quanta confusione intorno al concetto di “bello” appena cerchiamo di maneggiarlo) mantenendo però una sua assorta lontananza irraggiungibile. Un invito sempre ulteriore, una alterità inesauribile. Diceva un mio amico narratore napoletano che “una cosa è bella quando senti di non meritarla” – ovvero quando un senso di sproporzione innesca da un lato uno spasmo di incanto persino doloroso, e dall’altra un senso di gratitudine, intellettuale e morale. Sono le vie che portano alla contemplazione, ma, come già detto sono vie che la libertà può decidere ogni volta (ogni volta!) se percorrere o meno, oppure occludere con ostacoli e deviando nel perseguimento di finalità o in paludi di ogni genere. Quanta bellezza ridotta a puro orpello dell’ego, o a segno di potere, a palude del narcisismo, a strumento di risultato economico o di distrazione. Ma lei non si fa ingabbiare, e assorta e lontana ci visita ancora, ci fa agguati. Ho parlato di lei sempre. Con gente di ogni tipo, ragazzetti frementi o distratti, oppure con grandi artisti, filosofi, poeti. De-finirla, trovare i confini concettuali non si può, ma si può cercare di viverne le dimensioni di spavento (come Ungaretti ricava da Leopardi) e di invito alla vera forza, memoria e visione, dell’umano. Per questo parlare di bellezza porta con sé lo sconforto del continuo fallimento. È come se a una festa cercassimo …