Lo sbarco di Pasolini negli Usa

Lo sbarco di Pasolini negli Usa

Chi sa se lo sbarco di Pasolini negli Usa – e il nuovo film in uscita in Italia – permetteranno di cogliere e scoprire il nocciolo duraturo del suo immenso lavoro e della sua defatigante, devastata arte? Di certo Pasolini seppe e volle essere anche un clichè, e lo è ridiventato mille e mille volte. Una studiosa di Pasolini ora all’Università di Calgary, Francesca Cadel, mi portò un interessante libro su Pasolini e la moda. L’artista è stato trasformato in icona per idee spesso opposte e confuse che non hanno però nulla a che fare con la sua radicale e rivendicata capacità di contraddirsi, confessata davanti alle “Ceneri di Gramsci”. La sua umana e intellettuale contraddizione si nutriva di una tragedia interamente patita, non in una mancanza di lucidità. Quella che, ad esempio, ha spinto qualcuno ad affiancarlo alla Beat Generation in campo poetico o addirittura a usarlo come “sfondo” in prima serata Rai durante un minuetto patetico tra Celentano e Patty Smith. È un grande poeta ed è perciò un antropologo tragico come può esserlo un poeta, cioè per un motivo personale, non per “cultura”. Amava nell’umano ciò che era irraggiungibile o quel che finiva per deluderlo – come racconta a proposito dei suoi primordi poetici e come accade nelle sue prove finali. Amò con “disperata vitalità” finchè – come scrive lucido Gianni Scalia – con il tempo e l’età venne meno la vitalità e rimase solo la disperazione. Arbasino durante un festival letterario la scorsa estate affermava tranquillamente: sapevamo tutti che la notte mentre si era a cena spariva dietro ai ragazzini. La Morante gli faceva le battutine: vai presto che se no vanno a letto… Un pedofilo? Cosa facciamo dunque, aggiungo io, smettiamo di leggerlo e insegnarlo per questo? Oppure censuriamo? Una tragedia personale. E per tutti. Accusa la nostra epoca di diventare il regno della “astrazione” e della “omologazione”. Le sue parole oggi risultano profetiche in anni di perdita di senso del reale (la realtà è il mio idolo, diceva) in favore di astrazioni, virtualità, e soprattutto nichilismo che riduce ogni frammento di realtà a frammento di discorso. Il suo pensiero fu tragico anche perché sapeva che alla omologazione e alla astrazione che aveva visto avanzare avrebbe contribuito proprio la parte politica e culturale a cui sentiva di appartenere. Il suo intervento mai pronunciato al congresso radicale, il giorno dopo la sua morte, diceva: «Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo e i suoi chierici saranno chierici di sinistra». Una profezia lucidissima, azzeccata. In questa epoca di “totalitarismo” dei valori libertari, cosa griderebbe lui che considerò la vittoria del referendum sul divorzio una conquista borghese e non del popolo, e si schierò contro l’aborto. Nessuno più di me è avvisato dallo stesso Pasolini a non cercare la citazione giusta per tirarlo da qualche parte, e infatti lo lascio lì, crocefisso, come uno scandalo che non ci lascia tranquilli, nessuno escluso. Fu un antropologo-artista che radicava in un senso “sacro” del vivente la sua ricerca di realismo, in arte e in politica, l’amore per la gente, lo sguardo dolcissimo e duro, debitore dei maestri di pittura, la lingua dantesca struggente e febbrile. Pensava – confessa – di aver inventato la parola “ierofania”, manifestarsi del sacro, accorgendosi poi di averla trovata in Eliade, quell’autore che le direttrici culturali della Einaudi ispirate da Calvino e De Martino escludevano dai cataloghi. Pasolini andrebbe letto e riletto accanto a coloro che hanno visto l’eclissi e il manifestarsi del sacro come la scena drammatica profonda della nostra epoca. Su tale scena profonda seppe leggere le scene della diatriba culturale sessantottina nella impressionante durissima “Poesia della tradizione”: “oh sfortunata generazione / piangerai, ma di lacrime senza vita /perché forse / non saprai neanche riandare / a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto: /povera generazione calvinista come alle origini della borghesia / fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva / tu hai cercato salvezza nell’organizzazione / (che non può altro produrre che altra organizzazione) / e hai passato i giorni della gioventù / parlando il linguaggio della democrazia burocratica / non uscendo mai della ripetizione delle formule” o in quella celebre sui disordini di Valle Giulia. Non si trattava di dichiarazioni di schieramento politico, ma di visioni. Prevedeva un mondo che si affida all’organizzazione (si pensi alle nostre scuole…) facendo crescere solo altra abnorme organizzazione. E chi pensa che Pasolini possa aver dato fastidio politicamente, dovrà piegarsi all’evidenza che difficilmente in anni duri come i ’70 in Italia avrebbe ottenuto la tribuna del Corriere della Sera – come oggi, del resto – se fosse stato veramente scomodo all’establishment del potere reale in Italia. Un fustigatore dei partiti, allora come oggi può avere quelle tribune. Ma non è questa la partita che Pasolini stava giocando, non la principale. Va ricordato che per i democristiani di allora, come disse Andreotti rivelando da un lato l’inconsistenza culturale di una parte di storia democristiana ma svelando anche la vacuità di certe mitografie, Pasolini era solo un eccentrico scrittore che reclutava ragazzini (accusa per cui fu “processato” dal Pci) che ogni tanto scriveva sul Corsera. Come dire: non ci curavamo di lui. E fu un errore, impegnati come erano a tirare su una Italia in cui si doveva avere in ogni casa un frigorifero mentre cresceva il deserto nei cuori.

D’Annunzio illusionista dell’io

D’Annunzio illusionista dell’io

Tra seduzione e orrore, D’Annunzio è stato uno dei grandi tragici del Novecento. Ora che ci si appresta a ricordarne opere e figura – imprendibile figura – ci toccherà calare nuovamente nella sua gran fornace. Perché il modesto avvocaticchio abruzzese è tra coloro che espanse all’inverosimile il gusto un po’ retrò e collezionista, il tipico stile che troviamo in ogni studiolo avvocatesco che espone con qualche sussiego targhe e diplomi. Come dire: «Vede, io sono qualcuno, qualcosa». E lui espanse prodigiosamente questa necessità di dire: ecco, sono qualcosa. Con scrupolo e coraggio. Diventando – insieme e apparentemente all’opposto di Pascoli – l’interprete italiano di valore mondiale di quel movimento che si chiama decadentismo, una sigla sotto cui possiamo mettere da Rilke a Kafka, a Wilde. Si dovrà infine mettere Gabriel Musico al pari di quei geni. Non fu da meno. Solo una pigrizia malevola impedisce in Italia di riconoscerne la bruciante grandezza. E dunque occorre chiedersi: cosa decade in quel che chiamiamo “decadentismo”? Che cosa cede? Cosa si fa febbrile e debole? E si sfarina in noi, negli uomini e donne di quell’inizio di secolo che sono ancora sagoma su cui distende i suoi sterili miasmi molta della nostra cultura? Che cosa si fa fosforescente, decadendo da uno stato di sostanza a puro alone, riverbero? Ciò che decade come se si trovasse dopo una grande fatica o esaurimento è: il nucleo della persona. Quel che chiamiamo “io”. Che non a caso diventa negli stessi anni oggetto di studio, in un gioco di specchi che ancora ci turba. Ma appunto, lo si studia perché non lo si “capisce” più, non se ne è capaci. Svuotati. L’io, il punto di attracco della ragione e del cuore. Il fiato primario, la cosa assoluta. La Bibbia racconta la creazione dell’io come un passaggio di fiato dalla bocca di Dio a quella dell’uomo. Quasi un bacio. D’Annunzio è stato uno dei grandi interpreti del decadimento, del perdere il fiato. Lui non ha più bisogno, come Mallarmé, di tentare una specie di annullamento eroico e stilistico dell’io in un poema dove domini il caso. È già annullato. Chi non conosce D’Annunzio e si ferma alle sue doti di incantatore e di metteur en scene pensa che a decadere sia la “sensibilità”, insomma il “gusto”. Come se si trattasse di una specie di messa in scena, di cambiamento dell’arredo. Mentre invece – basta leggere davvero le poesie e seguendo Ezio Raimondi certe pagine del “Libro Segreto” – va in scena con tutte le maschere il grande cadere, il cedimento. Dal cocainomane rotto a tutti i vizi al devoto di san Francesco, dal politico d’azione al creatore di mitologici ritiri nella natura, dallo scopritore del capolavoro del “Compianto” di Niccolò dell’Arca all’amore per il kitsch, fino alle maschere più cangianti dell’ammiratore di Wagner, suo imitatore e infine – come mostra uno studio di Piero Buscaroli – critico come amante tradito, che non potendo eguagliare la vetta di quella germanica si butta sulla costa francese; in tutto questo e nel tanto altro che è D’Annunzio, c’è lo spasmo perpetuo di una affermazione tanto magniloquente quanto il vuoto che deve coprire. «Vede? Sono qualcuno, qualcosa». Fu un vortice in cui venivano inghiottite tutte le maschere, tutte le ultime “buone regole”, come in Pirandello, altro genio dell’epoca. La inconsistenza dell’io diventa l’imbuto in cui ogni cosa precipita – in modo soave, grazie alla mediazione dell’artista, meraviglioso becchino, incantevole sacerdote. Epoca che consacra una nuova maiuscola per l’Artista, dopo le variazioni sul tema del Divo rinascimentale e dell’Io Totale romantico. La maiuscola del Re del decadere, dello specialista dell’estenuazione. L’artista assicura che il vuoto lasciato dall’io sia avvertito in modo “patetico” (Pascoli) o in modo “teatrale” (D’Annunzio). Così che il decadimento, il farsi vuoto, la perdita dell’io sia sopportabile e come ogni autentica tragedia possa ottenere dai grandi artisti un risarcimento in preziosità. L’artisticità, dunque, proprio nell’epoca di cui D’Annunzio è Vate e sacerdote, arriva alla sua consacrazione massima. Si badi: l’artisticità, non l’arte, ovvero, se così si può dire, non l’opera in sé, ma il suo alone di “estraneità”, di tecnica misterica, di eccezione, di verità differente da quanto appare. E tanto più viene rivendicata la coincidenza tra arte e vita nell’artista tanto più egli si separa dalla società. D’Annunzio porta a compimento il tragico tragitto del decadimento dell’io che si esprime nel paradosso di una sua gloria museificata, teatro di un alone, degli apparati, delle protesi. Perché al centro è il vuoto, non c’è fiato. Per questo, in un crescendo fantastico e tremendo, è necessaria la trasformazione dell’artista in personaggio – il quale usa di tutte le opportunità mediatiche, fino alla politica come gesto estetico. Il dannunzianesimo dei fascisti (e dello stesso Mussolini) era basato sul medesimo entusiasmo: d’un io-patria decaduto fare un impero. Basta leggere Nietzsche o anche Papini o quel che aveva previsto come motivo di decadenza della civiltà («L’avvilimento del cuore»), il grande genio di Baudelaire, per comprendere cosa assediava la cultura e la mentalità di quel momento: l’io aveva perso il grande legame fondante, la bocca che lo aveva generato con il fiato. Quasi come un palloncino soffiato e poi staccato e lasciato a se stesso si alleggerisce in piroette, in disegni fantastici, patendo il suo fato di caduta. D’Annunzio l’illusionista fu il più sincero, il più bravo a restare senza fiato.

Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Sempre più magnetico. Più vorticoso. E sfuggente. Così ci appare, e si impone, sempre più grande, la figura di Giovanni Pascoli a cent’anni dalla morte. Poeta che glorifica e annulla la lingua nel momento in cui la resuscita continuamente – la sua “lingua morta” di poesia, così postuma e fervida. Ha anticipato e reso vacue tante sperimentazioni successive. Come l’altro suo avverso sodale, vicinissimo e lontanissimo D’Annunzio. Si oppongono, ma sono su due versanti della stessa discesa tragica. La tragedia dell’io decadente, dell’io che cede, non ha appigli, non ha “tu” a cui veramente affidarsi. Né in cielo né in terra. Uomo nomade, come stavano predicando negli stessi anni Nietzsche e altri. L’io pieno di affetti e di nessun legame si riempie di tutti i suoni, di sensazioni, si fa l’anima “mostruosa” come aveva indicato Rimbaud, ragazzo padre della poesia contemporanea. Pascoli e D’Annunzio sono due grandi tragici alle porte del Novecento italiano. Poeti preziosi e meravigliosi dell’io che decade, che perde ogni energia mentre pur si fa circondare e traversare d’ogni sonora gloria, d’ogni finezza, acceso di febbre percettiva e risonante di prodigi verbali. Se il Vate bruciò fino alla fosforescenza la lingua e se stesso usando i materiali e le occasioni dell’esistenza e del gusto dell’alta borghesia (gusto spesso pure mediocre – ma che importa, quegli smalti, le decorazioni erano roba che ardeva bene…), l’altro, non meno tragico maestro di preziosità, usò per la sua partitura e la sua pira i materiali bucolici e minimi della ferialità, saperi antichi e nuovi e le campiture infinite del latino. Con puntiglio da professore di liceo o di erudito di campagna, Pascoli colleziona nel nido vuoto della sua poesia un mondo che va da nomi dimenticati d’ornitologo agli scontri tra le galassie studiate e copiate dal Flammarion, dai proverbi romagnoli alle incursioni dell’inglese, nuova lingua d’impero nel tessuto italico. Poeta di passaggio come archi possenti sotto cui abbassarsi. E da lasciarsi alle spalle, qualora se ne abbia la forza che proviene solo da una altrettanto violenta combustione. Pascoli ormai è finalmente uscito dalle cantine del patetico in cui una critica scolastica voleva relegarlo per paura delle ombre che nell’opera si agitano. Poeta del dettaglio e di cosmogonie, curvo sulle myricae e attonito spettatore d’un misterioso nulla universale, Pascoli racconta di aver assunto la sua attitudine poetica in certe sere in cui la madre, vedova per l’omicidio del marito, stava davanti a casa a fissare chissà cosa all’orizzonte. Uno sguardo vedovo, dunque. E cosa è uno sguardo del genere? È pieno di una presenza e di una assenza contemporaneamente. Sguardo che vede l’assente. Fissa chissà cosa. Avverte la presenza piangendone l’assenza. Uno sguardo “doppio” diceva Leopardi, supremo fanciullino, secondo il poeta romagnolo. Ma in Pascoli “doppio” per una divorante compresenza, o co-assenza. Lo sguardo delirante non è uno stato eccezionale, ma normale. L’orfanità è diventata poesia. L’aveva anticipato il ragazzo padre che diceva di non aver «precedenti in nessun punto della storia di Francia». Al massimo grado lo sguardo vedovo, la sperdutezza dell’orfano entrano nella nostra poesia con Myricae, i Canti di Castelvecchio e i Primi e i Nuovi poemetti. Non si tratta naturalmente di leggere l’opera con chiavi biografiche. Tale metodo pieno di guasti lo lasciamo a maestrini che di fronte alla forza e allo sgomento di certi versi non sanno cosa dire e si rifugiano nelle pagine di orrendi sussidiari, pur di non dover aprire l’anima e le loro ferite di fronte ai ragazzi. Come se quei ragazzi stessero nei banchi aspettando un sapere da sussidiario… No. È che in Pascoli la corrispondenza tra quanto avviene nella vita e quanto accade nella poesia è evidente. È l’opera – basta leggere – a suggerirci come nella infinita vastità dei mondi, colti in scala minima o in vasti abissi dal poeta, la voce dell’uomo è solitaria, smarrita. Pochi sanno come Pascoli darci la misura della nostra sperduta piccolezza. Della vastità della vita che ci sovrasta. L’uomo sulla scena che Pascoli ritrae tra cardellini, rondini, forasiepe e tra galassie, bufere e collassi del sole, è un uomo solo. Non ha un “tu” a cui rivolgersi mai, se non fragile, passeggero, e si tratta d’una compagnia malinconica e paurosa tra orfani. Ebbe un senso del mistero violentissimo. Per questo Pascoli amò Dante che dalla morte trasse vita, come dice nei suoi saggi. In quel mistero Pascoli non alza mai una domanda, una preghiera. O s’accenna confusa in un ricadere di commiserazione, di compatimento. A cent’anni dalla morte si stanno aprendo convegni, letture, iniziative meno barbose (tra cui un omaggio a Bologna di poeti contemporanei, e una cena in suo onore a Bertinoro a pochi passi da dove nacque). E certo Pascoli merita che accanto ai doverosi nuovi sondaggi specialisti ovunque in Italia ci si alzi in piedi per onorarlo, ascoltandone la voce, la meraviglia, la così vitale ferita. Leggi anche: Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio

Per Giovanni Testori

Per Giovanni Testori

Un Petrarca devastato. O un barocco riscoperto in nuovi scenari e temperature. O cosa è l’essere di Testori altro da ogni sua coeva possibilità di poesia? E poi, è davvero altro? Certo lo è, se si guarda alla cospicua tradizione che va da Montale a Sereni e ai seguenti, lombardi o no che siano. E lo è rispetto al magistero inquieto della pensosità di Luzi o del francescanesimo di Betocchi. Di Ungaretti condivise solo la dura figliolanza da Jacopone. Ma non quella da Petrarca (ripeto, fu da lui devastato – nel midollo del canzoniere amoroso e nei suoi Trionfi) tantomeno da Leopardi. Altro fu Testori pure dalla geniale e torbida lucente eredità di Pasolini. Distante anni luce dallo sperimentalismo sociologico-letterario delle neoavanguardie, libero da troppi discorsi sterili. Ha sfondato, lacerato, o compresso fino a espanderli in altre direzioni molti dei nuclei e degli elementi presenti nella poesia intorno a lui. Ha guardato a Caproni, lo dice ripetutamente. Lo diceva a me ventenne che lo andavo a trovare in via Brera inquietando definitivamente quel che in me era già inquieto rispetto ai maestri che vedevo. Sentiva che il poeta de “Il franco cacciatore” stava camminando su bordi simili, votato a uguali precipizi. In quel sodalizio a distanza si gioca (lo vide Raboni) una possibilità di altra direzione della poesia del secondo Novecento italiano. E guardò a Rebora, non potendo però nemmeno stare nella sua pietra, nella cava bianca di travertino e aria in cui il grande dei Frammenti e poi del silenzio compose e ricompose. Aveva intuito però, che le poesie rinate dal silenzio, fino a quelle più umili, occasionali, quasi minutaglia di voce e aria, ecco, erano le poesie che lui avrebbe voluto scrivere. Si mosse con libertà, con “protervia” secondo alcuni critici che diventavano matti dietro alla sua struggente non-metrica (come Aldo Rossi in un intervento su l’Approdo), mentre per altri fu la possibilità di risentire la voce poesia (Frasnedi). Agglomerò nei suoi testi le parole antiche che venivano dal sacro Monte di Varallo (quel “strangosciàs” della Mater) e accenti postfuturisti (legni esterrefatti / stazione missilistica sventrata / leucociti…). Fu uno che – come di sé diceva l’amato Cezanne a cui Testori dedicò uno dei suoi più intensi scritti – sentiva sanguinare gli occhi nel fissare le cose, il reale… Quello sguardo intenso e capace di realismo non naturalista che Testori lesse come un evangelico bussare perché sia aperto… Nel panorama della poesia – lo sentirono i suoi più acuti lettori, da Bo a Vigorelli – Testori fece qualcosa che obbligava chi non lo escludesse a priori a considerare un’altra strada rispetto alle conosciute, che poi strada non era, ma suo precipizio o gorgo. Un autore finale, si direbbe, eppure capace come pochi altri di ridare avvio. Di mettere in movimento. Ma è davvero altro ? mi chiedo. Il lettore, è stato scritto, con Testori è costretto a stare sempre “allerta”. E allora al di là della prima inevitabile costatazione di alterità, non è forse il caso di guardare ancora, di guadare bene dentro? Perché se qui c’è Petrarca, e prima l’ombra di Jacopone, se qui c’è Rimbaud, se qui c’è la simpatia per Rebora e Caproni, forse ci troviamo non di fronte a una sdegnosa riluttanza, a una devianza della tradizione maggiore della nostra poesia; non siamo di fronte a una via solitaria, eroica e come ogni solitudine sempre un po’ patetica. Piuttosto siamo in una gloria in fiamma di esaurimento, siamo nella conclusione tutta affranta e quasi poltiglia di una materia letteraria che in tutti gli altri grandi già bruciava, disseminando una epoca di poesia libera e alta, come fu il secondo Novecento italiano. Siamo davanti a una fornace. Ci capita quel che dovette significare per molti trovarsi davanti a D’Annunzio. So che può esser considerato blasfemo quasi l’accostamento tra il tutto sanguinoso e sacro Testori e il tragico appariscente Gabriel – ma già Pampaloni vide l’accostamento a proposito di “Ossa mea”. E il mio paragone indica piuttosto la quantità di materia che qui – come nel poeta dell’Alcyone – trova combustione e incenerimento, e forse, ma a che prezzo per chi si trova o accetta di passare questo fuoco, possibilità di nuovo impiego. Una simile intensità, una simile violenza. Come accade ad alcuni classici, Testori si trova e accetta di stare alla fine di una tradizione. Al suo compimento. La vogliamo chiamare tradizione fino al Novecento? Quella faccenda che comportava statuti, autocoscienza, pratiche, riferimenti obbligati, tipologia di dibattiti, amori vincolanti e che chiamiamo o chiamavamo letteratura,  era arrivata a un capolinea. In molti lo presentivano. E in molti hanno provato a dare voce e forma a questa crisi. Chi interpretandola politicamente, chi stilisticamente, chi culturalmente. Ma pochi in Italia – e Testori, come pochi altri, Pasolini e Pavese forse – hanno interpretato quella crisi nell’unico modo adeguato: personalmente. Perché non poteva che essere così. E si tratta in tutti e tre i casi di tre uomini-libro, uomini per i quali la scrittura, il respiro, il giorno, la notte, l’amore, la carne, l’angoscia, il cielo erano una unica azione e un unico fiato. E forse non è un caso che nel ’79 usciva sullo Almanacco dello Specchio Mondadori con alcune poesie nuove accanto a Anne Sexton o che si possa vedere ancora su You Tube un video in cui Leo Ferrè canta una poesia d’amore di Testori (che lì presente si commuove), Ferrè che poi si scaglia contro i poeti che “prendono le parole con le pinzette”.  C’è una violenza, abbiamo già detto, in Testori. E si tratta di una violenza – come suggerisce un suo recente lettore, Andrea Di Consoli – che non ha pari in altra poesia contemporanea. Una violenza che annida le radici dei suoi impeti certo in una difficoltà di accettazione di se stesso, in una crocifissione dell’io. E una forza di rottura, rivolta innanzitutto contro le proprie possibili maschere, contro ogni riparo. E poi contro ogni cancrena di stile o istituzione di ogni presunto stato dell’arte o della letteratura. Nell’esserne crisi irrimediabile, contestazione anche diretta, e insomma, nell’essere così sfasciante …

With Rimbaud in my heart

With Rimbaud in my heart

At the heart of our time, there’s a night, a vertigo. As there was Dante’s journey, so now there is the journey of Rimbaud. There is, in the heart of our time an “insignificant” (“adolescent” say those who, protected by an assumed maturity, want to dodge its blows) night or season in Hell. In the heart of modernity (and of what it brings into question) there’s a poet in hell. There already was one, of course. In fact, there was a poet in hell-purgatory-paradise. But now that we are distanced from the fear and trembling in front of Mystery that the Christian era recognized in all circumstances, now that the heart marvels at the smoky streets of the city, marvels at absinthe and at the metaphysical revolution (and since the refuge of an education by now respected only formally has been destroyed), now the heart suffers from boredom with itself and when it reaches the threshold of the unknown it “collapses” and loses the sense of “visions” that open up to it there as he says in the famous “letter of the seer.” It is not by chance, as we are taught by the greatest living Italian poet, that the young poet of Charleville is the only one who can draw near to the Florentine exile with a special kind of proximity-distance relationship. They are two poets, two journeys where the author and the character coincide, where, that is to say, experience counts. And in this place all presumed truths are put to the test of experience. Because of this they are closer to the reader. It should not be forgotten that A Season in Hell (“relation d’un combat spirituel”) is the only book that Rimbaud expressly wanted published. A vertigo in the heart of Europe, a coming and going that is always seeking, a continual leaning towards the possible. There’s a man “mystique à l’état sauvage” who, the day before his death asks the Messaggeries Marittimes what time he should be carried on board to set off again. If it’s true that intellectual pride was the poison that closed the human heart and reason to a sense of mystery, if it’s true that Baudelaire marks the beginning of modernity because he sings of Ennui and a tragically “dual” life with the splendid dirge that many will join (but with less sorrow and more philosophy), it is undeniable that the most moving poetic renderings of those same bored, drugged hearts are to be found in Rimbaud’s Season in Hell. There everything “surrenders.” In that “pagan book” an infirm and perverse gesture sets before us every kind of crisis — that of religion, of love, of science, of memory, of dream, of art – and subjects them to his methodical, yet split-second, test. None of these elements of human experience seem to be capable of helping Rimbaud approach his “destiny of happiness,” to that “salut” which is as desired and imagined as it is mysterious. Clearly the boy is inside a catastrophe, like Hamlet, notes Bonnefoy. “The angels” wrote a young and acute reader of Rimbaud, “know immediately and since always.” Everything surrenders because nothing is enough for the man in search of himself. “I want liberty in salvation. How am I to pursue it?” Exactly in the place where it seems the most dense obscurity of signs and words is felt, the sense of them makes itself clear and self-evident. Rimbaud is anything but obscure. He declares immediately the “key” with which to recapture lost innocence: “charity is this key.” Immediate, precise, almost Paul-like, that is, exactly like St. Paul in his “hymn” (a scandalous climax for another of the poètes maudits, for George Trakl, and for our own Pasolini; it would be interesting to study the strange attraction between Saint Paul and the extremities of literature). A heartbreaking affirmation because of the impossibility that such a key might actually be able to be used and is not simply a dream. In the verses of Rimbaud there’s a “method to nail down our words and our experience of the world to colors.” He does not confront any new themes. He speaks about what everyone speaks about. He turns out to be more useful than Socrates in terms of understanding, today, something of ourselves. Rimbaud who believed everything around him to be of himself, tends toward the motion of leaving. His journey will be neither one of descent, nor an itinerarium mentis, nor a journey around his room. As if to pin down a great and simple allegory, his visionary wandering will end in a journey that is wrapped in mystery. The journey to Africa, more than a post-literary act or a definite rebellion, is none other than the mirror of poetry in its descent into hells, in the groping for things and people in the constant search for “salut” in liberty. “Mon sort dépende de ce livre” he apparently said. He’s a typical rebel, they say, exactly because he didn’t deal with new themes. It’s true. But like Van Gogh, he put – or better, he surprised – things in a light from which they’ll escape only with difficulty. An extreme light that we perceive only in glimpses, confusedly. The light of “faiblesse.” “European culture” wrote Mario Luzi in a good essay on Rimbaud “to which moreover we send the reader who wishes to follow in lapidary detail the kinships and correspondences between the poet of A Season in Hell and the situation of poetry in Italy and Europe, to be quite frank, feels the lack of heresy.” Already Baudelaire had demonstrated an “enormous capacity for suffering” (Eliot). He had restored citizenship to the profound sense of original sin, to that entropy or “fall” that concerns every “élan” and every “beauté.” Most of all in Rimbaud it is not a question of a morbid complacency towards “the limit.” In fact the more acute the perception of a “salut” promised by life (the festival of youth), the more the lack …

Con Rimbaud nel petto

Con Rimbaud nel petto

Nel cuore del nostro tempo c’è una notte, una vertigine. Come c’è stato il viaggio dantesco, così, ora, c’è il viaggio di Rimbaud. C’è, nel petto del nostro tempo, una “insignificante” (“adolescenziale” dicono quelli che, protetti da una presunta maturità, ne vogliono scansare i colpi) notte o stagione all’Inferno. Nel cuore della modernità (e delle sue messe in discussione) c’è un poeta all’inferno. C’era già stato, dunque, anche il poeta all’inferno-purgatorio-paradiso; ma allontanatosi dal timore e tremore per il Mistero che l’Evo cristiano riconosceva in tutte le circostanze, il cuore ora meravigliato per le vie fumose e cittadine, meravigliato dall’assenzio e dalle metafisiche rivoluzionarie patisce – rotti i ripari di un’educazione ormai solo formalmente ossequiata – il senso della noia di se stesso e che, giunto alla soglia dell’ignoto, su quel orizzonte “crolla”, perdendo il senso delle “visioni” che vi si aprono, come dice nella famosa Lettera del veggente. Non a caso, come insegna il maggior poeta italiano vivente, il poeta giovane di Charleville è l’unico che si può accostare in una speciale vicinanza-lontananza all’esiliato di Firenze. Sono due poeti, due viaggi ove l’auctor e il personaggio coincidono, dove cioè vale l’esperienza, e dove alla prova dell’esperienza sono sottoposti tutte le verità presunte. Perciò sono i più vicini al lettore. Non si dimentichi che la Saison («relation d’un combat spirituel») è l’unico libro che Rimbaud volle espressamente pubblicare1. Una vertigine è nel petto d’Europa, un andirivieni sempre in cerca, uno sporgersi continuo verso il possibile – c’è un uomo, “mystique à l’etat sauvage” che il giorno prima di morire chiede alle Messaggeries Marittimes a che ora dev’essere trasportato a bordo per ripartire. Se è vero che l’orgoglio intellettuale umanistico fu il veleno con cui la ragione e il cuore umani vengono occlusi al senso del mistero; se è vero che Baudelaire segna l’inizio della modernità perché canta la Noia di una vita tragicamente “duale”2, con la splendida nenia cui quanti si accoderanno ma con meno dolore e più “filosofia”, è innegabile che la resa poetica  più efficace di tali ragione e cuore annoiati-drogati si trova nella Saison di Rimbaud. Lì tutto “cede”. In quel “Libro pagano” sono date con gesto infermo e perverso e dolce le crisi della religione, dell’amore, della scienza, della memoria, del sogno, dell’arte: alla metodica e pur fulminea verifica a cui li sottopone, nessuno di questi fattori dell’esperienza umana appare in grado di avvicinare Rimbaud al suo “destino di felicità”, a quella “salut” tanto desiderata e immaginata quanto misteriosa – il ragazzo, evidentemente, è dentro una catastrofe, come Amleto, nota Bonnefoy. “Gli Angeli, ha scritto un giovane e acuto lettore di Rimbaud, sanno subito e da sempre”3. Tutto cede, perché nulla basta all’uomo che cerca se stesso: “voglio la libertà nella salvezza. Come perseguirla?”. Proprio dove sembra toccata l’oscurità più densa dei segni e delle parole, il senso si fa chiaro, lampante. Rimbaud è tutto men che oscuro. Dichiara fin da subito la “chiave” per ritrovare l’innocenza perduta: “la carità è questa chiave”. Immediato, esatto – quasi paolino, cioè proprio come S. Paolo nel suo “inno” (scandaloso culmine anche per un altro grande maledetto, George Trakl e per il nostro Pasolini – sarebbe interessante studiare la strana attrazione tra S. Paolo e i punti estremi della letteratura). Affermazione straziante per l’impossibilità a che essa tale “chiave” sia realmente utilizzabile – e non un sogno. Nei versi di Rimbaud c’è il “‘metodo’ per poter inchiodare ai colori le nostre parole, la nostra pratica del mondo”. Egli non affronta nessun tema nuovo. Parla di ciò di cui tutti parlano. Risulta più utile di Socrate per conoscere, oggi, qualcosa di noi stessi.  Rimbaud, che ha creduto tutto intorno a sée di sé, si tende nel moto del partire. Il suo viaggio non sarà né un’a-scesi, né un itinerarium mentis, né un voyage autour de sa chambre; quasi a fissare una grande e semplice allegoria, il suo brancolare voyante sfinirà in un viaggio avvolto nel mistero. Il viaggio in Africa, più che un atto di post-letteratura o di ribellione definitivo, non è altro che lo specchio della poesia della discesa agli inferi, del brancolare addosso alle cose e alle persone alla cerca della “salut” nella libertà. “Mon sort dépende de ce livre” ha lasciato detto4. È un ribelle tipico, dicono, proprio perchè non ha trattato temi nuovi. è vero. Ma come Van Gogh, ha messo -o meglio ha sorpreso- le cose in una luce da cui difficilmente usciranno, estrema, che noi avvertiamo solo a barbagli, confusamente. La luce della “faiblesse”. “La cultura europea, ha scritto in un bel saggio su Rimabud Mario Luzi – a cui peraltro rimandiamo il lettore desideroso di seguire in la filigrana delle parentele e delle corrispondenze del poeta della Saison con la situazione poetica italiana ed europea5 – ad essere franchi, sentiva la mancanza di una eresia”. Già Baudelaire aveva mostrato una “enorme capacità di soffrire” (Eliot6), aveva ridato cittadinanza al senso profondo del peccato originale, di quell’entropia o “caduta” che riguarda ogni “elan” ogni “beauté”. Specialmente in Rimbaud, non si tratta di una morbosa compiacenza del “limite”: infatti, quanto più è acuta la percezione di una “salut” promessa dalla vita (il festino della giovinezza), tanto più la mancanza di energia per raggiungerla è vissuta come pulsar o buco nero, come “il” problema dell’esistenza (essere “un negro”, una razza inferiore, vittima di uno “straziante infortunio”). L’INFERNO DELLE UTOPIE In Rimbaud questa “malattia della volontà” è all’origine dell’inferno, mina ogni utopia: l’inferno di Rimbaud non è “strictu senso” l’inferno cristiano, semmai il contrario, è non-cristiano, è l’inferno di ogni presunto paradiso ottenibile grazie allo sforzo morale, sensuale, intellettuale e religioso. Il paradiso (e l’inferno) cristiani dipendono invece dall’esito di un incontro con la Grazia, di un incontro misterioso con Qualcuno che non proviene da un’iniziativa umana. È un incontro di cui in tutta l’opera rimbaudiana non c’è traccia, essendo il Cristo che ha conosciuto “un suocero”, “nato insieme a M. Proudhomme”, una specie di “dichiarazione della scienza” che autorizza l’uomo a fingere, ad aver maschere. Eppure, paradossalmente, l’inferno di Rimbaud, come scrive in “Mattino”, “era davvero l’inferno; …

Il movimento della poesia, un lungo appunto su Dante

Il movimento della poesia, un lungo appunto su Dante

I. La nostalgia del movimento La Commedia è il poema del movimento. Mi rendo conto che tale definizione semplicissima non è originale e, soprattutto, va verificata a molteplici livelli di lettura. C’è un livello, in particolare, che mi riguarda. Lo espongo subito, sospettando che non sia una questione che tocca solo me. Ho pochissima memoria. O meglio non ho una memoria gestibile. I materiali che vorrei consegnarle in realtà si disperdono, sembrano inghiottiti da una oscurità che li restituisce come e quando vuole. Soprattutto non quando vorrei io. Da ciò proviene che dinanzi a un poema così ricco e vario come la Commedia la mia memoria diviene uno strano animale, qualcosa di pazzesco. Per lunghi tratti mi pare inerte, quasi tramortita. In altri momenti romba come un mare in tempesta. Ne deriva dunque l’impossibilità di qualsiasi tipo di riscontro e di ordine sistematico. Devo lavorare sempre con un archivio bizzarro. Non so se è una sfortuna, so che è così. Dunque la Commedia è innanzitutto una cosa che in me si muove e si mette in moto, non una serie ordinabile di incontri, rime e trovate poetiche. Tutto ciò, è vero, potrei affermarlo anche di un breve elenco di altre grandi opere. Ma la Commedia lo è in modo speciale. Perché tale movimento, appunto, è una sua struttura profonda oltre che un riverbero in me e in altri lettori. Lo ha detto bene, tra gli altri, Domenico De Robertis: in Dante “conoscere e poetare sono un unico movimento.” Ma ripeterlo non è inutile, poiché forse oggi come mai prima ci si accorge che quel che ci rende così lontano e pur vicino Dante è esattamente questo: nella nostra epoca in cui ogni movimento sembra facile e afferrabile (i moti della psiche così come i viaggi virtuali sulla rete informatica) ciò che ci differenzia di più da Dante è, appunto, la mancanza di un senso primario e naturale della vita come movimento, come qualcosa che è messo in moto. Nella ormai vastissima distanza che ci separa, a livello del comune sentire, dalla cultura della civiltà medievale – a cui Dante diede voce con i superamenti propri della poesia – si percepiscono in modo forse più essenziale le caratteristiche fondamentali di quella cultura che è stata a lungo accusata e tenuta in distante antipatia a motivo delle sue rigidezze – reali o più spesso presunte –, delle sue immobilità e dei suoi modi di intendere la conoscenza. Su tutto questo, le pagine di Giorgio Falco, di Romano Guardini o quelle di Rosario Assunto sulla “civiltà medioevale considerata come civiltà estetica” possono ancora dare lumi. Sta di fatto che la poesia contemporanea non riesce a staccarsi da Dante. Il poeta Seamus Heaney, recente Nobel, mette traduzioni da Dante nei suoi libri di poesia. E in una di queste traduzioni si immedesima così tanto con il viator della Commedia da “sostituirsi” a lui. Non solo, ma un suo poemetto del 1984, “Station Island” è tessuto sul modello del viaggio dantesco e costituisce, per così dire, l’elemento di vera “novità” rispetto alla ricca e coeva poesia anglofona di altri ottimi poeti, come Ted Hugs ad esempio. E non è un caso che l’Harold Bloom che recentemente prova a ridefinire il canone della letteratura occidentale intorno a Shakespeare piuttosto che a Dante, accusi Heaney di non cercare una visione che lo stacchi da terra. Come la visione dantesca non è una fuga gnostica dal mondo, così la miglior poesia contemporanea avverte la stessa vitale necessità. La nostalgia del movimento: credo che possa chiamarsi all’incirca così quel sentimento di stupore misto a malinconia (e a un po’ d’ira) che assale il lettore odierno della Commedia, qualunque sia il suo grado di penetrazione e di appropriazione della stratificata ed esuberante materia del canto dantesco. Perché questa nostalgia stupita? Thomas Stearn Eliot, nello scritto dedicato a Dante in “Il bosco sacro” diffidava nientemeno che Valery dal ritenere che scopo della poesia sia quello di “produrre in noi un certo stato”. La nostalgia stupita di cui parlo non è uno “stato” a cui la poesia di Dante ci consegna. È semmai la composizione chimica di un carburante, di quel carburante che Dante comunica in un’opera attraverso cui, secondo altri avvertimenti dello stesso Eliot, egli non mira a suscitare emozioni ma a esprimere qualcosa. La Divina Commedia esprime un carburante. Qualcosa del genere aveva forse in mente Eliot quando dice che Dante ha trattato la propria filosofia nei termini di “cosa percepita”, e che nella Commedia noi “non studiamo filosofia ma la vediamo”. Tra le tante acute osservazioni di lettura dantesca di Romano Guardini, troviamo l’affermazione che “la realtà che si manifesta (a Dante) nella visione gli deve fornire l’energia visiva per poterla guardare”. L’energia dello sguardo dantesco, dunque, proviene dal presentarsi a lui del reale in quella esperienza di visione. È la realtà stessa che, percepita in quella straordinaria esperienza, comunica l’energia al suo visitatore per essere guardata, sostenuta negli occhi e attraversata. Vediamo un gran movimento, appunto. Qui di seguito il mio lettore troverà annotazioni rapide, a volte quasi sincopate. In tale brevità v’è il segno della mia approssimazione dottrinaria. Ancor più v’è traccia di quella specie di tarantola che mi ha morso rileggendo il poema: non riuscivo a star fermo che poche decine di minuti, spesso anche meno. Mi dovevo alzare, riaccendere da fumare, aprire la finestra, prendere un appunto, fare una telefonata, camminare.   II. La coincidenza tra memoria e profezia È evidente a tutti che la Commedia narra di un movimento di viaggio e di cambiamento, un transumanare. Meno evidente, ma non meno attraente e importante, è il fatto che un movimento (quello della storia dell’umanità, dei cieli e dell’essere) costituisca la struttura per così dire scenografica della Commedia, l’impalcatura della sua scena, che è il più vasto scenario mai pensato per opera letteraria. Ogni movimento dei protagonisti avviene sempre su uno sfondo anch’esso in perpetuo moto. Anche quando non si vede nulla dello sfondo, come in alcuni luoghi dell’Inferno, il lettore sa che è …

Don Chisciotte

Don Chisciotte

Chi è questo cavaliere che ci fa ridere e stupire? Perché compare sulla scena? E chi è veramente folle? Il suo ideale è una menzogna, se pur sublime, o è una visione più autentica del mondo? Sono domande destinate a crescere, a moltiplicarsi lungo tutte le arterie della sensibilità e della coscienza di ogni singolo lettore. Percorrere un romanzo come questo significa ridare vita a una folla di domande che ci precede e che prosegue. Significa entrare in un teatro sorprendente. Lettori e ascoltatori di ogni genere, così come i più importanti intellettuali e i maggiori scrittori sono stati affascinanti dal libro misterioso di Cervantes. Ogni volta che si apre la storia di don Chisciotte si entra a far parte di una scena vasta e di un brusìo infinito di letture e di dialoghi. Ci si deve entrare con la propria voce, e con la unicissima vita che ad ognuno è data. Dal petto del galeotto ed ex-soldato combattente a Lepanto, nasce un’opera di grande divertimento e di straordinaria complessità, con parti di metanarrazione, di costruzione a scatola e di rimandi e incastri da far impallidire i più boriosi tra i cosiddetti sperimentatori. Nonché ricca di passaggi dalla finzione del romanzo alla realtà della vita dell’autore. La composizione del romanzo è un prodigio in una esistenza che pareva destinata ad esser quella di un mediocre letterato e risente di motivi “esterni” che costringono l’autore a invenzioni sorprendenti, come ad esempio il riavviare la storia – nel secondo volume – con una specie di dialogo feroce e ironico con l’autore del plagio che ne fu compiuto poco dopo la comparsa. Il tutto “servito” al lettore con grande gusto per chi vuole spassarsela leggendo e per chi si trova a proprio agio tra colpi di scena, apparizioni strambe, e alternanze tra il grottesco, la suspence e la dolce malinconia. Un uomo che ha conosciuto una vita di debiti e di espedienti, che a più riprese ha perso ogni dignità e pur ha aver combattuto per un grande ideale – fino a rimetterci una mano – dà vita a una storia immortale. Com’è possibile? Cosa si agglomera in questa invenzione, al di là delle intenzioni dell’autore medesimo? La risposta a tutto questo montare di domande non è in una teoria o in un discorso “su” don Chisciotte. Nessuna interpretazione de-finisce un romanzo di valore e i suoi protagonisti, figuriamoci un capolavoro come questo. Il fatto è che la risposta a tutte quelle domande è lui, sono loro, della Mancia e Sancio. La loro comparsa sulla scena della mente e del cuore del galeotto Cervantes e sulla grande scena della cultura europea e dei secoli non è riducibile a un discorso. Loro sono comparsi, e qui restano. Così come la vita di un uomo, anche la presenza di un personaggio e della sua storia non è riducibile a pretesto per un discorso su diversi argomenti. È piuttosto un evento che catalizza domande e sollecita prese di posizione e assunzioni di responsabilità. Don Chisciotte c’è. È vivo nel campo apparentemente astratto dell’invenzione letteraria perché esiste nel campo concreto e drammatico della esistenza di Cervantes e di quel che egli – volendo o anche non volendo – in essa ospitò. Il personaggio che entra nella tradizione del racconto picaresco spagnolo, portandosi in dote la ricchezza di mille precedenti di favole e di poemi italiani e di racconti europei ed arabi, è un uomo sorprendente. È un tizio che spinto da una tradizione che pare smarrita e accusata dai suoi contemporanei, (quella dei poemi cavallereschi) si mette a vedere il mondo in una maniera da tutti giudicata squinternata. Coloro che lo incontrano restano colpiti da lui. Lo strano aspetto non svela subito la sua “follia”, però mette in guardia: si è di fronte a qualcuno di strano diverso. Questo tizio a cui può colare ricotta dall’elmo sugli occhi, discorre amabilmente e con saggezza di molte cose. Specialmente delle nobili imprese dei cavalieri, gente che sa cosa è un amore assoluto, l’avventura, il disinteresse e il combattimento. Però introduce azioni “strane”, attacca mulini, marionette, scambia contadinotte per principesse, tuguri e osterie per castelli. Tutto questo, ripete spesso, è opera di un incantatore che domina il suo mondo. Ha un solo fedele, si rende ridicolo agli occhi dei più. Ama Dulcinea del Toboso d’un amore che – dice il suo fido – è come quello che si riserva a Gesù. Le traveggole conferiscono al suo andare una dignità ovunque perduta. Non riesce a concepire la vita se non come avventura, svela la statura umana e le aspirazioni reali di chi incontra, e al suo passaggio suscita o convoca una corona di racconti straordinari, di festa della vita. Come ha scritto un grande poeta del Novecento H.W.Auden, don Chisciotte è il cavaliere cristiano. Una lettura libera da suffumigi intellettualistici o da complessi culturali, riconosce in questa figura simpatica, apparentemente perdente, scombinata e irriducibile, il ritratto dell’animo cristiano errante sotto le volte di un’epoca che si avvia a non esser più nutrita dal cristianesimo e dai suoi ideali. Dice qualcosa di vero Milan Kundera quando afferma che essendosi Dio ritirato dall’universo, quando Chisciotte esce di casa non riconosce più il mondo. Vedendo nel cavaliere della Mancia il ritratto di un animo cristiano o, come qualcuno ha fatto, addirittura una figura di Cristo stesso, non si realizza una chiusura nei confronti di tutto quanto di “altro” c’è nella ricca tramatura dell’opera. Il contrasto tra follia e realtà è la struttura fondamentale del romanzo, ed è una struttura capiente. Vi si possono innestare molte storie, come accade nell’opera, e molte interpretazioni. Ma riconoscere i tratti cristiani di questo capolavoro (basta leggerlo) significa individuare l’elemento che lo rende così vivo e operante. In altre parole occorre comprendere di che natura siano la follia e il senso di realtà che paiono qui fronteggiarsi. Le tinte di una crisi epocale sono ben ravvisabili. In don Chisciotte brucia la coscienza della fine di una civiltà, e come ha scritto la curatrice di questo volume nella postfazione, …

Francis Scott Fitzgerald e il crollo

Francis Scott Fitzgerald e il crollo

Pochi appunti, strambi, su una figura martoriata e splendente. Francis Scott Fitzgerald stese una specie di diario della sua depressione. Di una delle sue cadute che lo facevano essere un piatto incrinato… Pochi hanno saputa descriverla come lui, momento in cui si sente dardo “scagliato dal nulla al nulla”. Scrive: “Il rimedio tipico per l’individuo in crisi, si sa, sta nel pensare a chi ha fame o è gravemente ammalato: un balsamo buono per ogni stagione contro l’abbattimento in genere e, come consiglio diurno, senz’altro salutare per chiunque. Ma alle tre del mattino un pacco dimenticato assume la stessa importanza di una condanna a morte e il rimedio non funziona – e in una vera notte oscura dell’anima sono sempre le tre del mattino, un giorno dopo l’altro”. Non sono mai stato depresso. Ma conosco ogni cosa, ogni cosa di cui parla Fitzgerald qui e altrove. Sullo scrittore americano è stato scritto molto e molto di lui e della sua opera si presta a infinite variazioni interpretative. Fu un mondo, volle esserlo. Scagliato nelle pupille drogate dello splendido uomo che emergeva da dentro le viscere americane. Dopo aver fallito qualsiasi carriera di leader, come racconta, volle essere lo scrittore. Ci riuscì. Qui racconta il prezzo pagato. Fermandosi su quei tre articoli scritti per Esquire nel 1936, dando voce alla Grande Depresssione americana,  al “secondo tempo” della sua vita e della vita americana il cui sfavillio vuoto e febbrile aveva raccontato nel romanzo che gli procurò un immenso successo, Il grande Gatsby, si nota in modo più duro e adamantino il talento poetico di questo narratore. Un talento mostruoso. Già là nel romanzo erano tante le tracce, le sfaccettature di visione che solo un poeta può dire anche mentre racconta. Fu bocciato in “poesia inglese” all’università. Altro segno. E sa che il cinema sta uccidendo il romanzo (lo diceva già FSF, allora). Ma leggendo “Il crollo” si capisce bene. Francis Scott Fritzgerald è un poeta in prosa. Uno di quelli che per dirla con Mario Luzi canta qualcosa pari alla vita. Ottavio Fatica, traduttore e lui stesso poeta e partecipe curatore dell’edizione che fu pubblicato da Adelphi nel 2010, ricorda che “tutti i racconti che venivano in mente allo scrittore avevano a touch of disastrer”. Qualcuno forse non vede questo tocco di disastro nella propria vita? Che a volte può allargarsi e diventare un vero abisso? E potrebbe essere altrimenti dopo aver letto Rimbaud? La letteratura moderna può evitare tante cose, ma non di parlare delle conseguenze del peccato originale. Tra i suoi amici – molti dei quali in quegli anni crollavano in suicidi e alcool o storie di dura violenza – c’era anche Flannery O’Connor. La strana scrittrice cattolica che scriveva di figure disastrose, e di interventi della grazia. Anche lei aveva letto Baudelaire. Non vale qui fare il riassunto di questi tre scritti che descrivono i tre tempi del “crollo”. Ma voglio notare tre cose. Già nella espressione “vera notte oscura” c’è il richiamo non so quanto involontario in un uomo cattolico a Juan de la Cruz. E il primo scritto si conclude con una citazione del Vangelo di Matto. Quella sul “sale della terra” che se perde gusto lascia il mondo senza sapore. Il procedere dell’uomo verso il “mondo dell’amarezza” è siglato da questa che Fritzgerald citazione che fa “per sua regola”. Ma qui suona come un rammarico. Sta perdendo gusto. Il secondo tempo è il crollo nella insipienza. Come il segno del fallimento. Entrare nella perdita. Diventare un uomo amaro. Perché nella “vera notte oscura” non si incontra nulla, nessuna preda. Ogni caccia è finita. Resta infine solo il fatto di diventare uno come tutti. Uno cattivo. Uno che a chi gli chiede una mano risponde bruscamente. Le pagine su questa “nuova sistemazione” agghiacciante e sterile sono di una grande finezza. Forse solo Rimbaud in Una stagione all’inferno trovò ed espresse questioni simili. La discesa all’inferno di Fitzgerald sta appunto nel constatare – ecco la seconda cosa che volevo a notare – di non saper più essere un uomo buono. E che ha finito per “maturare un atteggiamento triste verso la tristezza, un atteggiamento malinconico verso la malinconia, e un atteggiamento tragico nei confronti della tragedia come mai avessi finito per identificarmi con l’oggetto del mio orrore e della mia compassione”. È una cosa del genere, aggiunge, “che impedisce ai pazzi di lavorare”. O che fece cadere nell’insuccesso Tolstoj. Non prova più “simpatia” per nessuno. (per il postino, per il direttore di giornale, per i mezzi parenti…) e dice di esser pronto a essere “un animale corretto e, se mi getterete un osso con un po’ di carne da azzannare, potrei anche leccarvi la mano”. L’uomo ferito, che attraversa la notte oscura senza trovare preda – e dove fa l’esperienza sconvolgente ma insopportabile di “immedesimarsi” con l’oggetto della sua compassione – finisce per essere un animale corretto, un buon servo. Diventare “uno dei loro”, quel tipo di “uomini che se ne sbattevano che il mondo precipitava nel caos, purché risparmiasse la loro abitazione”. Oggi siamo così dentro all’epoca degli animali corretti, dei buoni servi. No? Aveva compreso di aver smarrito qualcosa già da tempo. Ecco il terzo passo della mia passeggiata con quest’uomo difficile come siamo tutti, e che patì qualcosa che ci riguarda tutti. Lo descrive con acume nel secondo dei tre scritti, Attenzione, fragile, quando descrive la mancanza di un “io” unitario. Varie parti della personalità erano separate e convivevano ma seguendo ciascuna una propria strada. Anzi delegando il ruolo guida in ciascun percorso a figure diverse. “Così non c’era più un io – non c’era più una base sulla quale organizzare l’amore proprio – tranne le mie illimitate doti di applicazione, che sembravo non possedere più. Era strano non avere identità – essere come un bambino lasciato solo in una grande casa: sa di poter far tutto ciò che vuole ma non c’è niente che voglia fare…” La perdita di un io unitario è alla base della incrinatura del piatto. Perché non c’è base …

La poesia di Rebora

La poesia di Rebora

Eccoci ancora davanti e sotto il suo martello e la celestiale poltiglia, o sperduto bisbiglio che fa di poesia respiro. Eccoci ancora a Rebora. Più profetico di Pasolini, più violento di Campana. La sua contusione delle parole e la sua profezia ancora ci cercano. La poesia italiana si cerca in fronte il segno di Rebora. Pochi mesi fa un giovane poeta napoletano, meno che trentenne, Valerio Grutt – uno che fa del pop – mi indicava in Rebora un suo primo maestro. Perché lui è uno di quelli che risale dai margini, dai pendii più precipitanti della nostra poesia fino ormai ad occuparne a diritto la vetta. E il suo mosaico controtempo anticipa e richiama certe percussività contemporanee, tra rap e svenimenti della lingua. Quei verbi… E quel che Contini non seppe far altro che chiamare “arditissima” capacità metaforica. Ma la sua occupazione della vetta è inquieta e mai assodata, e mai soddisfatta di inutile gloria letteraria, poiché presenza e voce tutta bruciata e accesa di qualcosa di incomparabile ad ogni gloria o fama, di irridicubile a qualsiasi dicorso sullo stile. Rebora viene dopo Rimbaud. Dopo Hopkins. Dopo la loro abiura della poesia come salvezza. Viene dopo di loro e con loro addosso. Porta in scena la smentita assoluta e per ciò stesso la rimessa in gioco di ogni arte della parola poetica. Ha il suo naufragio – come Hopkins, come Moby Dick, come il ragazzo di Charleville. Perché forse è da naufragi che la poesia deve sempre ricominciare. Poesia a contatto con l’assoluto, e che riconosce di non esserne romantica e parziale ombra. Ma benzina. E oscura felicità. Una poesia come “mania dell’eterno”, in un percorso di vita tormentoso e teso. La poesia di Rebora in quel suo primo tendersi e poi in quel quasi bambinesco ritirarsi vive della medesima precisione vitale, di dramma sentito fin nelle fibre del vivente reale, del farsi e disfarsi della vita. Del corpo e della voce. Il suo è “mettere a fuoco Dio”. Ha sempre inteso la poesia come la danza del Re Davide davanti all’Arca. Alla moglie Micol che rimproverava il re d’Israele di mostrarsi così nudo davanti al popolo e ai servi, il guerriero e salmista rispose: io stavo ballando davanti a Dio. Rebora è uomo di visione. Non balla davanti ai servi della letteratura. Anche quando faceva o pensava di far solo letteratura. È un uomo che soffre e cerca quel che un poeta a lui in parte contemporaneo, divenuto però famoso per uno strano mestiere che si trovò a fare, aveva scritto nel ’52: l’uomo contemporaneo soffre soprattutto per mancanza di “visione”. La visione manca all’uomo che non intende la vita come scena. Che non è orientato a vedere come se stesse accadendo qualcosa, e dunque a cercare la segreta relazione tra ogni particolare. Noi figli e figliastri della era che si è autoproclamata moderna ci sentiamo invece su nessuna scena. Puntini su un navigatore che segue vie e incoccia in eventi e situazioni. E avere una visione nemmeno ci interessa. È una sofferenza da cui grandi geni tra Sette e Ottocento ci avevano messo in guardia. Baudelaire, ad esempio, rimproverava la cosiddetta modernità di Voltaire (filosofo “da portinaie”) d’esser solo una travestita negazione del “peccato originale” e di “Dio”. E dunque, spariti gli attori principali del dramma interiore ed esteriore, la scena si è ridotta fino a svanire, quasi evaporare, lasciandoci tra rottami e risa frenetiche. Rebora ha senso dell’universo come scena. Affinerà, convertirsi sarà come affinare la visione. Ha senso della vita come realtà “positiva”, non per ottimismo, ma come qualcosa in cui vibra, segreto un “ineluttabile vero”. La sua formazione ardente e mazziniana, le letture da Tagore a Tolstoj, le passioni, l’impegno civile fan di lui un uomo che non devia dal grande segno iniziale di Francesco sulla nostra poesia: la considerazione della realtà. La sua “lode” per quanto perplessa e dura, gridata e ferita. Vi è in questa primo segno di apertura al reale una “povertà”, come notò un grande lettore di Rebora, don Giussani. In alcuni testi dei Frammenti Lirici si fa evidente questo movimento: Frammenti lirici I citaz se a me fusto; VI conclusione Fino all’acme di un coscienza di positività del reale, quando il poeta vede che la vita umana si avvera solo in una partecipazione amorosa al reale. E’ un ‘ombra di quel che avverrà trent’anni dopo. Fr lir XIII. E l’uomo gli appare come un Gigante che va per l’infinito (XXVIII) Rebora vedrà quel gigante urlare con le gambe mozzate nel fango durante la sua esperienza al fronte della I Guerra Mondiale. Lo sentirà gridare fino a morire, spegnendosi piano (poesia di guerra). Il trauma di quei mesi sarà forte. Mesi di nevrastenia, che il medico di Reggio Emilia non a caso chiamerà “mania dell’eterno”. Rebora è un compagno di avventura nell’assoluto di Campana. Dovessimo fare e andrà fatta finalmente una nostra antologia di Maledetti, come invitai a fare qualche anno fa per il Saggiatore Davide Brullo che allora la accennò, Rebora dovrebbe stare, sotto quella ferita precisazione che fece Verlaine introducendo Rimbaud, Corbière e gli altri: maledetti, cioè assoluti. Forse nel Novecento italiano dovremmo accostarlo a Martini, lo scultore, per avere un eloquente corrispettivo. Quella sua castità combattiva. Quella medesima luminosità bruciante, in una “scultura lingua morta” che diviene prodigiosa e fisica rappresentazione dei movimenti essenziali del vivente: lo sguardo alle stelle, il nuotare, il perdono… Anche in una lingua apparentemente “morta” e pur vibrante Rebora ci ha dato un corrispettivo. Giovanni Testori – che amò Martini – guardava a Rebora e a Caproni come compagni possibili di una poesia che si liberasse da ogni ipoteca letteraria, da ogni convenzionalità stilistica. Il secondo passo presente in Rebora è il senso della collaborazione al vero del mondo, nell’ordito della storia. C’è un senso sacrificale, come in altri poeti avviene in quegli anni, pur se in direzioni diverse, come ad esempio in Boccioni e Marinetti. Si presente che l’amore con cui collaborare al vero reale porta a un sacrificio. Alcuni …