Poesia e arte. Rispondimi, bellezza: prefazione

Poesia e arte. Rispondimi, bellezza: prefazione

Fuori dal dominio dei figliastri di N.N.

Introduzione

Giuseppe Ungaretti era inquieto. Lo confidava a Jean Paulhan, amico e poeta. Assisteva all’avanzare congiunto di una dematerializzazione dell’opera d’arte e della vita umana anche grazie alla tecnologia - quella cosa che, diceva, illude gli istupiditi e i nuovi poveri di illimitatezza. Queste dinamiche iniziavano a procedere appaiate, e ferocemente alleate.
Scriveva all’amico: «le sentiment de l’infini ne peut être communiqué que par l’objet dont la précision des limites est à l’extrême rigoureuse». Solo un oggetto in cui vive la precisione rigorosa dei limiti esprime adeguatamente il sentimento dell’infinito. Ovvero quel sentimento che per Ungaretti, come per Leopardi, Pasolini o Simone Weil o don Giussani, connota la natura umana.
Il sentimento di qualcosa che limite non ha, e che solo l’uomo può concepire per propria natura, viene suggerito e richiamato dall’arte che compone con dedizione alla misura il proprio oggetto. È una idea che a più riprese e in vari modi Ungaretti espresse in quegli anni. Solo nel fuoco tra misura e dismisura accade e si rivela l’esperienza d’arte come speciale nella vita umana.
Va aggiunto forse che quel che lui chiama sentimento, in questa nostra era sentimentaloide andrebbe tradotto meglio con “coscienza” perché in Ungaretti non si tratta certo di un sentimento volatile e effimero. Il sentimento dell’infinito è la coscienza del problema centrale della natura umana, unica a concepire l’infinito.
Un altro poeta scrittore d’arte, Piero Bigongiari, chiamava la sua poesia una “scienza nutrita di stupori”. Richiamava quasi un antico detto di Alano di Lilla (1120-1203). In un inno di quel remoto teologo e scrittore, infatti, ci si occupava di una cosa per lui importante, che a noi può sembrare bizzarra, a meno che non si sia artisti. Per Alano, l’incarnazione del Verbo si mostra non comprensibile attraverso le sette arti liberali. Insomma, le pur migliori qualità dell’essere umano non arrivano a comprendere il mistero del farsi carne di Dio. Le strofe dell’inno via via narrano il tentativo dell’unione del Verbo divino con la natura umana secondo Grammatica, Retorica, Aritmetica, Musica, Geometria, Dialettica, Astronomia, ma ogni volta appunto si concludono con la sentenza: “In hac Verbi copula stupet omnis regula”. In questa copula, unione del Verbo, ogni regola è stupefatta.
La regola, il metodo della misura, la vita della forma, stupisce, se incontra la energia del Verbo che si incarna, dell’infinito che “copula”, che si unisce… Credo che tale “incarnazione/ copula” che “stupisce”, che fa stupire le regole di ogni composizione (non le annulla, si badi, ma le stupisce) sia riferibile, come analogia, al prender corpo nell’arte e grazie a essa di quel “sentiment de l’infini”. Misura, sì, ma misura stupefatta.

Sono passati molti anni da queste considerazioni dei grandi poeti e scrittori d’arte.
Non sono certo un conservatore né in arte né in vita. E oggi non si tratta di ribadire una dinamica (conservazione/modernità) che tanto in arte quanto in vita non ha nessun senso. Sono categorie comode e perciò spesso banali. E così come il grido tra sarcastico e irridente “occorre essere assolutamente moderni” (come esclamava tra ironia e sconforto Rimbaud…) è dato per insensatezza, lo è pure il contrario, d’essere assolutamente conservatori. Il processo che Ungaretti indicava non appartiene come caratteristica al viaggio dell’arte nel tempo che possiamo chiamare, per comodo, modernità. Non è insomma la modernità in quanto tale quel che Ungaretti accusa, bensì, il prevalere all’interno di essa, a partire da zone e elementi parziali, di spinte, ideologie, modi e stili (ben supportati e finanziati, a differenza di altri) che producono opere consone a tale idea di astrazione, o concettualizzazione replicabile. Ovviamente, la parola astrazione non fa riferimento a una modalità espressiva non imitativa, ovvero non mi riferisco a segni non figurativi che non per questo cancellano in se stessi la realtà. C’è più realtà e palpito di sangue e vita in un sacco di Burri che in un ritrattino modesto o in una ennesima natura morta. Il fatto è che la modernità è ben più vasta di quel che spesso si racconta (e non a caso per potersi continuare a raccontare parzialmente e schematicamente è divenuta ben presto postuma a se stessa).

Ora dunque, all’interno di un campo spacciato come unico della modernità, e ben rifornito di attenzioni e affettuosità economiche e mediatiche, le cose sono progredite in tale senso di astrazione concettosa, di de-realizzazione. E poiché l’arte ha il destino di sintetizzare o meglio di illuminare tutti i campi della vita umana, pareva e pare che per destini e volontà manifesti e occulti, per accelerazioni violente, per omologazioni e per interessi voraci, tutti i campi della vita stiano subendo questa pioggia potente di astrazione. Le guerre si fanno per i materiali dei microchip, non più solo per la conquista di pianure e laghi. Si badi: una certa de-realizzazione dell’essere umano e della sua vita han preso terreno ben prima in certi quartieri dell’arte che negli hangar o nei mitologici garage della invasione tecnologica. Da sempre, una tentazione alchemica, spiritualista, gnostica tenta di annullare il peso della materia vivente, la sua gravitas. Tenta di annullare la carne.

La leggerezza pare una legge continuamente invocata, e un obiettivo ineludibile. Ma non è una leggerezza d’animo frutto di ascesi, bensì la leggerezza della distrazione tragica, il salto che nega la carne e con essa la morte, e inevitabilmente deve negare la nascita. Rendendo programmabili morte e nascita, si rende meno presente, meno tragica, meno eventuale, meno reale la carne. Insomma una leggerezza assicurata apparentemente dalla tecnologia in mano a un uomo senza speranze se non nella tecnologia medesima come nuovo dio della storia. E l’arte asservita, e apripista.
Ma a me non interessa la leggerezza che distrae, mi interessa la gentilezza che conosce a fondo.

Ora dunque appare gigantesca, quasi imbattibile l’onda dell’astrazione. Per essa vige il puro valore del numero, come se ciò è “molto” fosse anche “molto bello, o valoroso, o intelligente”. Logica puramente finanziario-economica del mondo.
Ci vogliono figli di N.N. del numero e del narcisismo, ovvero il culto dell’immagine di sé, culmine dell’io come monade, culmine di astrazione.
Eppure, vive agile e forte nel moderno e nelle sue propaggini anche una idea, una visione di arte che - parimenti a ogni fenomeno storico - ha radici precise, nel crinale tra Oriente e Occidente in cui si formano le estetiche greca e europea: arte come ritmica e drammatica composizione di misure. Tale composizione, per quanto diramata in forme e stili infiniti, contrastanti, slabbrati, spregiudicati, visionari, tremendi, esprime quel che Ungaretti chiamava “sentiment de l’infini”.
E dunque non è casuale che sull’arte e su loro, gli artisti, sulle loro vite e sui loro corpi, sulle loro menti che sono campo di devastazioni e meraviglie, si concentra ora, potente e gelido, l’estremo attacco, l’avanzata del regno della astrazione del vivente. La macchina compone arte, dicono. Cioè la macchina ê come l’uomo e viceversa. L’astrazione, ripeto, intesa non come necessaria procedura del pensiero critico, bensì come disincarnazione, come assunzione di criteri astratti (già accusata come male del contemporaneo da Péguy, da Eliot, da Pasolini) come allontanamento dal corpo reale e dal principio di realtà, ecco così intesa esprime il suo imperio riducendo tutto il valore delle cose alla entità di misura più consona, astratta: il numero. E riduce l’arte a idea, ma intesa solo come concetto - e non come visione, diversamente dalla radice greca della parola - dunque replicabile, infinitamente, anche nel suo “rivestimento” o installazione performativi.
Mai come ora certe zone dell’arte, o autonominatasi tali senza grondare d’un grammo di umiltà o di sangue o di modestia, sono territorio dell’ambiguo seduttivo annullamento di qualsiasi idea di limite, cioè di forma, sotto l’avanzante dominio di una sola forza, il numero. E dunque la replica. È uno strano paradosso: la forma contiene in se l’idea e l’esperienza della misura. Ma si tratta, in arte, lo ripeto, di una misura (di una regola) “stupita”. E perciò in grado di esprimere il sentimento dell’infinito.
Invece, nella idea astratta di numero applicata alla moltiplicazione (delle opere e della moneta) non v’è stupore, ma puro valore registrabile in modo numerico. Regola ferrea, non stupita. Regola economica, non estetica. Tra le prime cose a esser bandita, non a caso, la pronuncia persino della parola “bellezza” - pur se balbettante, pur se bestemmiante, pur se sanguinante. No, bellezza no. Solo bandendola, solo ridicolizzandola, solo crocifiggendola, il dio numero può aver terreno libero, e potere apparentemente illimitato.

L’illusoria stupida idea di illimitatezza, nutrita da modi faziosi di intendere tecnologia e finanza, vuole incorporare a sé l’arte. Seduce con denaro e luccichii gli artisti, i collezionisti, i mercanti, i galleristi, non a caso riducendo a quasi nulla il valore della critica, a favore di curatori spesso simili a faccendieri. La critica infatti è la lettura della composizione, mentre la curatela si riduce spesso alla pura abilità di collocazione. E i gesti degli artisti, per quanto replicati e quasi ovunque disponibili, invece che reali stupori e inizi di altri discorsi sul mondo, risultano spesso decorativi e ripetitivi dei discorsi dominanti - ne è segno, per quanto variamente interpretabile, l’avvicinamento e sovrapposizione (anche economica) tra arte e moda. O la riduzione di opere a pretesti paragiornalistici. E la mania del numero come entità criterio di valore, ormai unico.

Per questo, dal niente, dall’inestimabile più povero d’ogni stima numerica possibile, dal mio ignobile inestimabile tentativo di poeta, ho risposto all’invito dell’inventore di questa collana offrendo una raccolta, pur se sgangherata e parziale, della disseminata mia compagnia e spudorata lettura in versi dell’opera di numerosi artisti. E non solo di arti figurative.
Un atto di gratitudine e insurrezione.
Perché ho visto le loro opere, e ho visto i corpi, le ossessioni, le occhiate concentrate, i fraterni sgomenti e i dubbi e i pensieri imprendibili. Quel che testimonia l’essere umano, carne e non macchina, carne misera e gloriosa e non numero.
E per tutto questo, dinanzi alla astratta purissima inumana, alla presunta paternità maternità asessuate dell’opera d’arte del nuovo dio NN, numero e narcisismo, che invade e opprime, insorgo con l’allegria dei ragazzetti, offrendo poesiacce, poemi strappati, versicoli, un mazzetto mal legato di fiori, sì, di poveri fiori…

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