Poesia e arte. Sullo scultore Arturo Martini
Ha fame. Deve fare i conti con una specie di maledizione. Sì Martini è come un ragazzo di genio e pieno di problemi. Colui che Federico Zeri considera insieme a Brancusi il più grande scultore del secolo ha dei problemi.
Ha fatto di tutto, dai capolavori che resteranno come memento di una vicenda altissima alle lampade per gli atrii dei cinema. Vide Modigliani e Antonello da Messina, digerì Picasso, conobbe il duro sperdutissimo Dante Arfelli. Ebbe la stessa tensione alle stelle di Leopardi, come si vede nei suoi “amanti” che differiscono dai “naufraghi” per quel gesto di mirare lei, la stella. Le teste delle sue “ragazze innamorate” sono sempre leggermente rivolte all’alto.
Un segreto, pudico e irresistibile richiamo. Forse lui non riusciva a tenere lo sguardo in alto da terra, come supplica e grida il Salmo.
Al cielo guardano anche i suoi Dedalo e Icaro. È del ’26 il suo fortissimo Figliol prodigo, con il vecchio padre che diviene bambinesco e sembra ritrovarsi da uno smarrimento lui quasi più del figlio in quel ritorno.
Martini cercava febbrile un viso di padre per il suo, continuo, ritorno. O forse era il suo stesso viso di padre fuggiasco. Diceva: «è l’opera più importante della mia vita». Eppure ebbe tante altre “importanti” commissioni, e ricavò successo e soddisfazioni da altre opere. Ma era quella. Non poteva che essere quella.
Fece mille e mille figure, con quel desiderio o malattia di “raccontare raccontare raccontare” con la lingua della scultura.
E si può forse raccontare qualcosa se al centro di ogni racconto non c’è – per quanto deflagrato, o sperduto in naufragi e labirinti – un ritorno?
Già nelle figure di donna, come la bellissima Nena si comprende cosa intendeva nei suoi appunti quando indica come tensione quella possibilità di percepire la “quarta dimensione”.
Il mistero, nell’acclararsi delle forme. E poiché l’arte per lui «non è mai analisi ma espressione della cosa», il mistero non è un frutto della percezione ma un elemento della espressione della presenza delle cose.
Senza mai rinunciare all’anima popolaresca che lo spinse a far bozzetti di vita corrente, o presepi o vie crucis, Martini fu al centro di polemiche intellettuali del massimo livello nella
cultura italiana: non lo amarono Ojetti, Betocchi. È diventato il più grande scultore del Novecento, anche se lo Stato Italiano gli revocò la cattedra per motivi politici. Dovette aspettare la famosa mostra sui “realismi” di Jean Clair per il giusto riconoscimento. Del resto, anche quando non riceveva commissioni dal governo fascista, si metteva lui a fare opere – come il potente Tito Minniti. Eroe d’Africa nato dal suo entusiasmo di raccontare la fine di quel ragazzo – per poi provare a piazzarle non sempre con successo. La scultura, quella furia di raccontare veniva prima della sua funzione e della commissione.
Sia che lo consideriamo con Carrieri «l’aspetto più inquieto della generazione di Morandi o De Chirico», sia che ne contempliamo con Testori la «potenza castissima», di fronte a Martini dobbiamo cercare un silenzio adeguato all’opera. Lo spazio che ravviva è in noi attivo e silenzioso, quello che si fa quando ci si trova di fronte a un racconto di mistero.
Riesce per questo a trovare quel che il poeta De Libero chiamerà la figura «immemoriale», a proposito del Bevitore o come potremmo definire il Palinuro o altre figure di donna colte al risveglio o in momenti di passaggio.
Fu Martini tra i non molti artisti che nel Novecento – nel secolo degli idoli esteriori e interiori – che dal centro a volte sfigurato e lucente della loro fede seppero meglio cogliere il nesso, la potenza della Incarnazione come giustizia dell’opera d’arte, come suo motivo. Seppe cosa significa il mistero dell’incarnazione per l’arte. Lo disse chiaramente, e si vede.
Gli sono vicini i nomi di Péguy, Eliot, di Dylan Thomas, di Ungaretti, di Tolkien, di Flannery O’Connor, di Luzi, di Testori – di coloro che, come lui stesso comprese, ebbero fede e
fame nel raccontare e raffigurare l’esperienza, sottratta alla vanvera e alle congetture del nulla a causa della morte in croce e resurrezione di Dio.
“Raccontare, raccontare, raccontare” questo fin da ragazzino febbrile Martini supplicò alla sua arte. Forse come e al contrario di Nietzsche sapeva che finché c’è sintassi, e dunque
possibilità di racconto, c’è un valore per quanto umiliato e oscuro che non cede nella vita umana. Raccontare è vedere lo spettro dell’eterno. Si racconta perché non tutto cede al nulla. Si racconta perché ci si fida.
Quando la scultura gli parve “lingua morta” ne scrisse il dolentissimo, ferito e personale lamento... Se era morta come arte pubblica, come lingua comune, lui ebbe però la forza di
esprimere nella sua lingua reinventata, ereditata e personale, casta, povera e irrefutabile un mondo che sentiamo sempre più nostro. Come se mentre la sua cultura e la sua solitudine sentivano la morte della scultura, la sua arte ce la riconsegnasse d’altra vita viva. E come se presentisse, in quel finale, che era lo spazio pubblico a morire – come vediamo ormai adempiuto sotto i nostri occhi – ottuso ormai di feroci e sempre più parziali poteri. E dunque la scultura, sì, sarebbe stata lei a dover ricreare lo spazio pubblico, ogni volta, come accade incontrando le sue opere: una luce di materia, una espressione di noi
che non vedevamo ecco creano lo spazio dove forse, ancora e pur vacillando come ciechi, riconoscerci usando le mani, le grida, i giuramenti, i baci, le invocazioni...