Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio
Intervento tenuto ai Colloqui fiorentini 2024
“E sulla tomba di mia madre rimangano questi canti…”
Mi è stato chiesto un intervento sui Canti di Castelvecchio, un’opera di Pascoli pubblicata nel 1903, lo stesso anno in cui esce anche l’Alcyone, importante opera di D’Annunzio. Sono anni, quelli, in cui nella poesia del Novecento succedono cose. Io ho almeno tre motivi per cui mi interessa Pascoli. Il primo è un motivo personale, di orgoglio personale, ed è che è romagnolo come me. Pascoli infatti è nato non lontano da dove sono nato io. Il secondo motivo è che mi sono laureato con una tesi in parte su Pascoli, grazie a un grande professore, Ezio Raimondi, che voglio ricordare. Il terzo motivo è che per chi come me scrive poesie è importante guardare alla figura, alla voce e alla poesia di Pascoli, che è un grande artista e l’arte si impara a bottega dagli artisti. Da quelli vivi – dai vent’anni ai quarant’anni, venivo tutte le settimane a Firenze da Mario Luzi o da Piero Bigongiari ed erano loro la mia bottega di poesia – e da quelli morti, come Pascoli, Montale, lo stesso Mario, che si continuano a frequentare per imparare. Perché non c’è niente da fare, cosa è la poesia lo si impara frequentando la poesia, non con la teoria. Nel pensare a cosa potessi dare come contributo personale, ho deciso di leggere insieme con voi non una poesia, bensì la prefazione ai Canti di Castelvecchio, raccolta che viene dopo Myricae, perché è una presentazione davvero stramba. L’ho letta un sacco di volte e continuo a leggerla, sia in pubblico che in privato, perché è un testo stranissimo, in cui l’autore tocca alcune cose sue e mie molto importanti. È già stato detto prima da Gilberto, e lo ringrazio per le sue parole alla fine del bell’intervento di Giovanni Maddalena, che non si studia la poesia a scuola per diventare piccoli critici letterari come vorrebbero i ministeri, e spesso anche i docenti, che non sanno cosa fare e quindi vogliono che un sedicenne diventi un mini critico letterario. Cosa che non ha alcun senso, tra le tante cose che non hanno senso nella scuola italiana, compreso l’esame di maturità, l’esame “terrificante” che promuove il 98% dei partecipanti: si fa in modo che abbiano paura per 5 anni di un esame che il 98% degli studenti supera… Ma chiudiamo la parentesi. Uno degli errori di sistema della scuola è pensare che un ragazzo di 16-17 anni – un ragazzo che non sappiamo cosa farà, che talenti abbia, perché non ce ne frega niente dei suoi talenti, vogliamo solo che abbia la sufficienza in tutte le materie – diventi un piccolo critico letterario e che abbia gli strumenti per farlo. Invece un ragazzo deve leggere qualche poesia, qualche romanzo, non troppi, per confrontare la propria vita, per trovare degli autori. Io l’ho detto varie volte, anche qui, quindi mi ripeterò per qualcuno: la parola autore, come sapete, viene dal latino augeo, cioè, “faccio aumentare”. L’autore è uno che aumenta la tua vita; non si vive senza autori. Solo che o te li scegli o te li impongono i vari poteri che ti circondano. La scuola dovrebbe avere l’unico potere di offrirti autori che il potere non ti impone, se fosse davvero una scuola “libera”. Tutti noi cresciamo perché ci confrontiamo con degli autori e qualcuno di loro ci fa crescere in consapevolezza. Degli autori c’è bisogno soprattutto quando ti senti a rischio: Dante incontra Virgilio nella selva, non al bar mentre beve un caffè. Perciò quando sono in difficoltà o non so dove andare e riconosco uno come autore, mi confronto con lui. Se non senti la vita come rischio, degli autori non sai cosa fartene, se pensi che la vita sia una passeggiata, degli autori non sai cosa fartene, ma se, come credo il 90% di voi, quando hai 15-16 anni e cominci a vedere che qualcuno muore, che l’amore non si capisce bene cosa sia, che il corpo fa degli strani scherzi, che il sangue batte in modo strano, quando ti accorgi che la vita è un po’ una selva (se non te ne sei accorto, svegliati, perché è pericoloso), allora scegliersi gli autori diventa molto importante. Mi sembra abbastanza evidente nel tempo che viviamo. Gli autori o te li scegli o te li impongono; la scuola dovrebbe essere, e in parte lo è, il luogo dove, per fortuna, grazie ai vostri insegnanti, potete scegliervi autori che non sono quelli che il mondo vi propone. Per fare alcuni esempi: la Ferragni a Sanremo ve la impongono, non è che la scegliete, e ve la fanno passare come una intelligente perché ha due milioni di follower. A scuola invece avete la possibilità di scegliervi qualcuno, Leopardi, Ungaretti, Pascoli. Non li vedrete mai promossi dal potere, questi, però ve li potete scegliere. Ora, Pascoli per me è stato un autore importante, non lui come persona intendo, ma la sua opera è stata autorevole; io non voglio imitare Pascoli come persona o Leopardi o Dante. Sarebbe anche un po’ stupido pensare di imitarli come persone. Tuttavia quello che c’è nelle loro opere è autorevole per me. Infatti, seconda cosa di metodo e poi leggiamo il testo, io diffido molto di quelli che dicono leggiamo l’opera per incontrare l’autore, perché noi incontriamo l’opera e non l’autore. Io scrivo poesie, chi le legge non deve necessariamente conoscere i miei fatti personali. Certo, può conoscere alcune cose della mia vita, quelle più generali e quelle che probabilmente sono comuni alla vita di tutti (i dolori, gli amori), ma non i fatti personali. In alcuni libri di scuola, purtroppo, ha cominciato ad apparire qualche mia poesia, che vorrei fosse tolta, e anche qualche piccola biografia di 10 righe (che per una vita mi sembra un po’ poco). Cosa vuol dire? Uno pensa di incontrare un uomo perché ne legge qualche poesia e anche 10 righe o 10 pagine di biografia? È una follia, è una follia che fa del male. Noi non incontriamo la persona dell’autore, bensì la sua opera. Poi, certo, nell’opera l’autore mette sé stesso, ma non si tratta della sua biografia o del suo diario, è un’opera d’arte e su questo bisogna distinguere bene, anche perché semmai io vorrei imitare san Francesco e non Pascoli. Cioè, se voglio avere una persona da imitare, scelgo mio nonno o mio zio o altri amici che ho conosciuto, non Leopardi. Detto ciò, il testo di Pascoli che vi leggo è straordinario ed è, appunto, la prefazione. Allora, quando un autore mette una prefazione al suo libro di poesie, cioè non la fa scrivere a un altro come a volte accade, in qualche modo essa diventa parte integrante dell’opera: pre-fare, prima di dire. Però se la scrive lui ovviamente la si può considerare parte integrante dell’opera. Vi leggo il testo e ogni tanto farò delle pause. “E sulla tomba di mia madre rimangano questi altri canti”, inizio un po’ duro, diciamo, così: sulla tomba di mia madre rimangano questi altri canti. Io ho perso mio padre da poco e quindi la frase mi fa un po’ effetto; un poeta che decide che lo scopo della poesia è un canto che rimanga sulla tomba di qualcuno che ha perso, e poi specifica, questi canti, questi altri canti dopo Myricae e altri canti ancora: “Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d’assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali…” Sentite come diventa quasi subito ossessivo, come quasi s’incanta. Fa questo elenco di uccelli diversi, molti dei quali forse non li avete mai visti, e poi è come se non sapesse più come andare avanti: “e rondini, e rondini, e rondini…” La rondine è un emblema della grande letteratura, dalla poesia greca alla poesia contemporanea, è qualcosa che lega l’eterno e il tempo, una grande metafora da sempre. E poi dice: “Che tornano e che vanno e che restano”. E poi dice: “Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino, amino almen qui, intorno a un sepolcro, poiché la crudele stupidità degli uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel cielo d’Italia!” Non è che Pascoli sia naturista, dice: almeno questi uccelli cantino, amino, ci sia vita almeno qui, intorno a un sepolcro, perché nelle campagne e nel bel cielo d’Italia sembrano scomparsi. Poi aggiunge: “E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto”. Vedete questo elenco, questo modo di elencare; l’elenco, si può definire in vari modi, è una forma retorica che dà forza: se io ti elenco continuamente una cosa è come se ti comunicassi l’idea di una sorta di ossessione. Se voi chiedete a un vostro amico: “Sei andato a mangiare ieri? Cosa hai mangiato?” Se inizia a farvi l’elenco di tutto nel dettaglio, due bicchieri d’acqua minerale ecc., voi dite: “Che cosa hai addosso? Cos’è che ti è preso?” Perché l’elenco troppo dettagliato segnala una sorta di agitazione spirituale. E anche lui fa un elenco e dice campane, campane che suonano e poi dice a morto. Troppo? Troppa questa morte? E poi continua: “Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico”. Se non hai il pensiero della morte, se non hai religione, Pascoli fa coincidere le due cose, la tua vita è un delirio o continuo o intermittente o stupido, cioè superficiale, o tragico, ma comunque un delirio. Non stai vivendo, non sei sveglio. Sei dentro un delirio, se non hai, appunto, quello che lui chiama il pensiero della morte, cioè religione. La cosa potrebbe sembrare strana. Cosa vuol dire che la religione significa solamente pensare alla morte? Diciamolo in un altro modo. E da un tema molto attuale mi permetterete una strana deviazione che sembra non entrarci con il discorso, ma la poesia, quando è grande, c’entra sempre con tutto, anche con le cose che succedono oggi. La grande poesia è sempre contemporanea. Cos’è il pensiero della morte? È, se ci pensate, una cosa che noi abbiamo, l’autocoscienza dell’essere mortali, che le cavallette non hanno, che i carciofi non hanno, che i computer non hanno. Per dirla con Ungaretti, che intitola una sua raccolta così, Sentimento del tempo: il sentimento del tempo è quello che qualifica l’essere umano. Noi umani, oltre a essere qualificati ad aver due gambe, mentre i gatti ne hanno quattro e altre differenze, diciamo così, di tipo biologico-strutturali, ciò che ci distingue, dice Pascoli, da una bestia, è il sentimento del tempo, cioè l’autocoscienza di essere mortali. Temine interessante che riguarda appunto l’esperienza fondamentale dell’essere umano, perché l’esperienza fondamentale dell’essere umano è la coscienza del tempo, tant’è vero che tutti i grandi geni dell’umanità, da sant’Agostino a Pirandello, hanno sempre riflettuto su questo. Cos’è il tempo? Guardate, è una cosa che non riguarda solo chi ha molti anni come me ma tutti. Se io chiedessi a chiunque di voi: cosa hai fatto ieri? Ti ricordi? Non è che uno mi fa un elenco di cosa è successo dalla mattina alla sera. Magari mi racconta due cose… Ho incontrato Riccardino, mi sono baciato con Eufemia, ho visto finalmente per la prima volta… cioè, mi dici cose significative, perché il tempo per un uomo, a differenza di una macchina, non è la pura registrazione di dati. Noi non registriamo il tempo in una specie di hard disk interiore; la nostra memoria non registra le cose come una macchina, noi selezioniamo sulla base del significato che le cose hanno per noi. Non ti ricordi tutte le facce che hai incontrato ieri, non sono entrate nella tua memoria, è entrata la faccia di lei o di lui o di qualche amico che hai incontrato, dei tuoi cari. Non tutto è trattenuto in memoria. Anzi, trattieni solo le cose per te significative e poi, altro elemento, spesso ci ricordiamo le cose grazie alle sensazioni fisiche: un profumo ci ricorda il ragù della nonna, se passa una persona con quel profumo per strada ci ricordiamo di lei, se sentiamo qualcuno che fuma un certo tabacco, il nostro corpo entra nel gioco della memoria. Una macchina il corpo non ce l’ha. Lo dico perché in questo momento vi vogliono convincere che le macchine fanno arte, gli algoritmi fanno musica, fanno poesia, fanno cose creative. Quando sento dire che c’è l’algoritmo che fa poesia ho due reazioni: la prima è che già sono inutili i poeti quindi che cosa ce ne facciamo dell’algoritmo che fa poesia, la cosa più inutile del mondo? Perché la inventano? E soprattutto, seconda reazione, perché l’annunciano? Se fai una cosa inutile tu in genere lo annunci con grande enfasi? Prima reazione: perché lo fanno? Seconda: cosa c’è dietro questa questione di una macchina che fa arte; le macchine sono utilissime, le usiamo tutti, ma perché una macchina deve fare arte? L’uomo è l’unico essere nell’universo che fa arte; i carciofi non fanno arte, le macchine non fanno arte. Se creiamo una macchina che, diciamo, faccia arte abbiamo finalmente realizzato il sogno – che spacciano per nuovo, ma che è antichissimo – dell’uomo che crea sé stesso. Dire che una macchina fa arte equivale all’annuncio: ecco, abbiamo fatto finalmente l’uomo, non appena un’intelligenza artificiale che fa velocemente delle operazioni di sintesi e di analisi, per cui noi siamo più lenti, ma abbiamo proprio fatto l’uomo, finalmente abbiamo fatto la macchina umana perché fa arte. E come fanno a fotterti convincendoti che questo è vero? Dico, come fai a riconoscere questa musichetta se l’ha fatto un algoritmo o un ragazzo? Non ce la fai effettivamente. Molte musichette create con gli algoritmi, come anche di molti testi creati dagli algoritmi, non riesci a distinguere se li ha fatti una persona o una macchina. Ma se uno sa cos’è un processo artistico, sa bene che la fruizione dell’opera d’arte è solo una parte dell’esperienza, è solo una parte di verità sull’opera d’arte. Tradotto in altro modo, mia nonna Peppa, grande donna romagnola anche lei, come Pascoli, se vedeva una cartolina di Cervia, il posto in cui era nata, si commuoveva. Non per questo quella cartolina è un capolavoro di Caravaggio; cioè, la fruizione, la reazione che uno ha di fronte a un’opera d’arte è solamente un aspetto. Ciò che qualifica la natura dell’arte è il processo con cui viene creata, non la fruizione che riceve, perché la fruizione che riceve un’opera d’arte, come sapete, può essere legata a elementi di gusto personale. È dunque il processo che crea l’arte il problema, e nel processo che la crea, e torno a Pascoli, entra in gioco esattamente quello che Pascoli mi sta dicendo essere la qualità che distingue l’uomo dalle bestie, e l’uomo sveglio dal delirio. Faccio un piccolo racconto per essere chiaro: se incontro la mia amica Diana, che si occupa di arte, quindi queste cose le sa meglio di me, una volta, poniamo il caso, in treno e magari è la prima volta che la vedo, mi colpisce e desidero scrivere una poesia per lei. Non è che posso dire a Diana, o alla signorina di turno, scusa, puoi stare 10 mesi ferma sul treno perché ho bisogno di tempo per scrivere la poesia per te? Una poesia non è che nasce su due piedi, ci vuole tempo. Non è che Dante quando incontra Beatrice le dice se può stare una settimana ferma sul parapetto dell’Arno perché deve scrivere un poema. Su cosa lavorerà quell’artista incontrando Diana o Beatrice o Gigetto o Pinco Pallino? Lavorerà sulla memoria, sulla cosa che la realtà, Beatrice, Diana, una collina, un volo d’uccello, ha impresso nella sua memoria. Io porterò l’immagine di Diana o di Beatrice nella mia memoria e la memoria sarà il luogo del mio lavoro artistico, della mia invenzione. Cercherò le parole per trovare il modo di mettere a fuoco quello che si è impresso nella mia memoria e allora torniamo al punto di Pascoli: il sentimento del tempo che ha un uomo, ossia la sua memoria, non è lo stesso di una macchina. Esso lavora in modo completamente diverso perché è abitato dal significato ed è nel corpo e ciò che non ha corpo e non ha significato, non ha sentimento del significato, ha una memoria completamente diversa dalla nostra, non potrà mai fare un’opera d’arte, carciofo o algoritmo che sia. Questo è il motivo per cui Pascoli sta parlando del sentimento della morte. Non perché è cupo, non perché è triste, ma perché il sentimento del tempo è ciò che qualifica l’uomo, non solo da un punto di vista, diciamo così, ontologico ma come esperienza. Guardatevi intorno, ci sono persone che vivono il tempo come il peggiore nemico e cercano di diventare dei cerbiatti impagliati con tutti i trucchi che usano per rimanere uguali a vent’anni anni prima, diventando grotteschi e ridicoli, perché il tempo è il nemico. Ci sono invece persone che vivono il tempo come un campo da seminare e lavorano per il futuro, lavorano per i più giovani. Ci sono persone ansiose di non perdere un minuto e non sanno neanche loro perché. La vita di un uomo o di una donna è legata al sentimento del tempo che ha; c’è gente che si alza la mattina ed è già stanca perché non ha alcuna energia per attraversare il tempo, è già depressa. La depressione, anche in termini tecnici, è il non avere senso del futuro, cioè il sentimento del tempo che hai. Per questo è meraviglioso che in una certa visione del mondo si dice che il giorno di oggi vale come l’eternità o che mille anni sono come un giorno; cioè, il valore del tempo non è la durata ma il suo significato. Anche perché, ragazzi, un bambino come il figlio di un mio amico, che ha vissuto due giorni, vale meno di uno che vive 80 anni? abbiamo deciso questo? Abbiamo deciso che il valore del tempo è la sua durata? Che, se campi 80 anni, sei meglio di uno che ha campato 5 anni? Abbiamo deciso questo oppure il tempo è il significato del suo senso per cui anche un bimbo che vive due giorni afferma un significato dell’esistenza quanto un ottantenne? Altrimenti il tempo è quello della macchina. Ora lo dico perché ciò che dice Pascoli è di un’attualità sconvolgente, perché ci vogliono ridurre a macchine o a carciofi, potete scegliere, un triste destino in entrambi i casi. Perché il sentimento del tempo, cioè quello che lui chiama religione, è un modo di abitare il tempo. Un mio grande amico e poeta australiano dice che le religioni sono poemi, cioè, la religione, la religiosità, è un modo di abitare il tempo perché l’uomo religioso non ha paura del tempo, non lo vive come nemico, perché ha una prospettiva eterna, perché sa che due anni valgono come mille, che una cosa che accade in un giorno ha un valore assoluto. Per questo Pascoli dice religione, non perché pensa solamente ai funerali. Lo dice, certo, ma non pensa solo a quello. Poi va avanti e aggiunge: “D’altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c’è visione che più campeggi o sul bianco della gran neve o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c’è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie”.
Questo punto a me ha sempre colpito. Quando ero un ragazzino andavo da mio nonno, un grande romagnolo, che si chiamava Enea, nome mitologico. Ha fatto la seconda elementare, quindi non era un uomo di cultura ma era molto simpatico. Enea, detto Nino, che come diminutivo abbassava un po’ il tono epico del nome. Andavo da lui a chiedere consigli: “Tu come facevi con le ragazze? Cioè, dammi qualche dritta perché è meglio avere una guida esperta a volte”. E lui mi rispondeva con una frase che mi ha sempre colpito: “Io facevo così, Davide. Andavo lì e dicevo: signorina sento del trasporto per lei”, che è una bellissima espressione, “sento del trasporto per lei”, perché è vero che quando una persona ti piace non è che fai tanti ragionamenti, senti comunque un trasporto, senti come un movimento che ti porta da lei. Magari ci sarebbero tutte le ragioni del mondo per sentire trasporto per quell’altra, che è figlia del notaio, che è una persona migliore, invece ti piace proprio lei, cioè, senti il trasporto per lei perché quel trasporto è indiscutibile, come il trasporto del funerale. Entrambi i trasporti, diciamo così, il funerale e l’innamoramento, non li decidi tu, non è che dici “Ragazzi, andiamo”, ti portano loro. E anche l’amore, l’inizio dell’amore, è un trasporto che non puoi discutere, tanto è vero che gli antichi ritenevano questo trasporto una divinità, una forza, perché non puoi mai dire a uno che si deve innamorare o che non deve farlo. Puoi dire: ti consiglio di non sposarti con quella, ti posso consigliare di non andare in gita a Napoli, ma non posso dire: non sentire il trasporto, è impossibile. Pascoli parla dei trasporti e allora non è banale, secondo me, proprio a questo punto della prefazione dei Canti di Castelvecchio, che ovviamente vi invito a rileggere, citare quello che io ritengo essere il più bel verso mai scritto di tutta la poesia di tutti i tempi, che è un verso di cui non conosciamo l’autore e che cito sempre perché è bellissimo. Dice così: “l’amore è forte come la morte”. Trasporto uno, trasporto due: il trasporto dell’amore è forte come il trasporto della morte. Chi è innamorato lo sa, non si discute col trasporto dell’amore, così come non si discute con il trasporto della morte. Però quel verso, che Pascoli conosceva bene, da una parte dice che sono due, tre trasporti simili, indiscutibili, dall’altra che la vera contesa nella vita di un uomo non è tra vita e morte. Voi conoscete una vita senza la morte? Non c’è. Se la contesa fosse tra vita e morte sapremmo già come va a finire, non c’è partita. Cioè, se uno ti vuole convincere che nella tua esistenza il problema è tra vita e morte, ti sta fregando perché sappiamo già come finisce. È il motivo per cui, per esempio, io non concordo con Calvino quando pensa alla letteratura come salto di Cavalcanti sulla tomba, è troppo comodo. Devi entrarci dentro alla tomba. Se è leggerezza, la letteratura non mi interessa, mi interessa un altro tipo di leggerezza, non c’è bisogno di leggere i libri se devo alleggerirmi. La contesa però non è tra vita e morte, bensì tra amore e morte: l’amore è forte come la morte. Vi ho detto prima che un po’ di tempo fa ho perso mio padre. Quando penso a lui, o a Mario Luzi, di cui ieri è stato l’anniversario della scomparsa, mio maestro di poesia, non penso più alla morte. Certo, ne sento la mancanza, ma questi uomini mi hanno lasciato amore. Quando penso a loro penso anche alla loro morte, penso all’amore che mi hanno dato, all’amore che mi hanno lasciato, perché mio padre a suo modo, Mario Luzi in un altro, sono stati gli uomini della composizione contro la decomposizione della morte, quella sì che è la battaglia. Tu sei un uomo della composizione o della decomposizione. C’è un uomo che spende la vita a comporre e si può comporre facendo un’opera d’arte, si può comporre facendo una famiglia, si può comporre facendo un’amicizia, si può comporre facendo una comunità, si può comporre facendo un Paese. Si può comporre o decomporre. La guerra, la morte. Questa sì che è una contesa aperta tutti i giorni. Dei due trasporti quale segui? Il trasporto della decomposizione o il trasporto della composizione? La vera battaglia non è tra vita e morte, per questo il sentimento del tempo è importante. Mi diceva l’altro giorno un mio amico medico che l’esperienza più terribile che gli capita di fare è quando annuncia a qualcuno che ha un male che non dà molto tempo da vivere e tante persone, dice, troppe persone, atterriscono non per il pensiero di morire ma perché si accorgono in quel momento di non aver vissuto abbastanza, e quando gli dici che manca poco gli viene uno “stranguglione”, come si dice in Romagna. Ma allora cosa ho fatto fino a ora, non ho vissuto veramente! Quella è la cosa più terribile, dice il mio amico medico, e c’è troppa gente così, mentre invece la Bibbia raccomanda giustamente di morire sazi di giorni, non importa se vivi trent’anni o novanta, purché tu abbia vissuto il tuo tempo intensamente, cosicché quando anche sarà il momento di uscire di scena, ok, hai fatto quello che potevi, niente rammarico, hai combattuto tra l’amore e la morte e sei stato dalla parte dell’amore. Pascoli va avanti e per questo è importante che lui dica che il pensiero della morte, cioè il sentimento del tempo, cioè la religione, ciò che ci distingue dagli altri esseri (non che sei il più bello, che sei il più bravo, che sei il più capace ma che hai qualcosa per cui il tempo per te è la battaglia del significato), non è la durata degli anni, non è appena campare. Sono anni terribili, questi. Non solo perché ci sono guerre brutali ma perché ci vogliono convincere che il problema della vita è campare, è durare, che il problema della vita è solo la salute. E allora cosa abbiamo deciso, che Falcone e Borsellino sono due coglioni perché non hanno pensato solo alla salute? Sono anni terribili, molto più terribili di quello che sembra, perché l’uomo non è fatto “per durare”, i carciofi sì, le formiche sì; le specie animali cercano la durata, l’uomo cerca il senso. Se penso alla durata, è vuota. Per questo ammiriamo le persone che con la loro vita affermano qualcosa di più grande della loro durata, della loro esistenza stessa, ed è proprio questo pensiero che ci rende diversi dalle bestie, altrimenti saremmo in un delirio intermittente o continuo, stupido o tragico. Cioè, non è che se fai il tragico sei più intelligente, sei stupido uguale. Anche se hai un sentimento tragico della vita non sei più intelligente, no, sei stupido uguale, sei un delirio uguale.
“Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo, cesti o stipe) autunnali. Nei luoghi incolti fanno le stipe che fioriscono di primavera, e fanno i cesti, ancor più umili, che fioriscono d’autunno; e la lor fioritura assomiglia. Mettano queste poesie i loro rosei calicetti (che l’inverno poi inaridisce senza farli cadere) intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più d’un anno. Io sento che devo a lei (alla sua mamma, non a tutti i libri che ha letto) io sento che devo a lei la mia abitudine contemplativa”. Uno dei più grandi intellettuali d’Europa ci dice che la sua abitudine contemplativa non la deve a tutti i libri che ha letto ma alla sua mamma. Bellissimo. Quante cose si possono imparare dalle persone vicine. L’attitudine poetica di uno dei più grandi poeti del Novecento viene dalla sua mamma e da che cosa della sua mamma? Lo dice: “Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la testa su le sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì. Seguì mio padre”. Voi sapete che la vita di Pascoli è stata segnata da un grande fatto tragico che è l’uccisione del padre e qui non è farsi i fatti di Pascoli perché lo racconta lui. “Seguì mio padre. E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi privò di padre e madre e, via via, dei fratelli maggiori, e d’ogni felicità e serenità nella vita?” Se muore il padre, la vita è infelice; se non hai un padre, la vita è infelice; se non appartieni a un padre, la vita è tutta infelice. Quanti ragazzi conosco, purtroppo, che non avendo un rapporto bello col padre hanno una vita infelice, troppi. Quanti padri sono stati deboli, non per forza cattivi, ma deboli; non sono stati padri, non hanno avuto la grandezza perché uno quando pensa al padre pensa alla forza. Tuttavia la vera forza del padre è l’umiltà, è farsi terra affinché i figli crescano. “No: questa volta non chiedo perdono. Io devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti”. È una frase che ti toglie il sangue: io non voglio che sian morti! Stai scrivendo nella prefazione al tuo libro di poesie, tu, poeta già incoronato come tale, tu, grande intellettuale, stai gridando io non voglio che sian morti come un bambino, come un fanciullino, e se non si ritorna come bambini, dice il Vangelo, non si capisce il vero della vita perché il vero della vita è non volere che siano morti. Io non sopporto quelli che mi dicono eh, la vita è così. No, la vita non è così! Io non voglio che sian morti! Un mese fa è morto il mio migliore amico, uno dei miei migliori amici… Non voglio che sia morto! Non voglio non voglio non voglio che sia morto lui! Non voglio che sia morto mio padre! Non voglio che muoiono i miei figli! Se non lo dico, non sono un uomo. E finisce dicendo la cosa che infatti lui voleva: “Se poi qualcuna di queste poesie che contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non s’inventano, anche a volere), ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh! non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria de’ miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene.” Rendono per male e bene è la stessa frase che Pascoli usa parlando di Dante; lui ammira Dante, Pascoli ha scritto tre volumi importantissimi di commento a Dante, e in quei tre saggi dice che invidia Dante perché è riuscito a fare del male un bene, di un’esperienza negativa, la perdita di Beatrice, ha fatto un grande bene. Questa è la grande questione che Pascoli mi lascia, questo grande sentimento del mistero, di qualcosa che mi sovrasta, di qualcosa di più grande della mia persona, questo sentimento del tempo come qualità della vita umana che mi differenzia dalle bestie e dalle macchine, questo sentimento del tempo che possiamo chiamare religione, cioè valore del significato, non solo della durata. Domanda di significato, non solo di durata. Cosa te ne fai di una vita di 90 anni senza sapore e senza significato, cosa te ne fai? Solo per rimpiangere? E poi questo elemento finale, questo sguardo di sua madre, questa attitudine contemplativa, questo sguardo vedovo che vede la presenza e l’assenza continuamente, che noi vediamo ciò che è presente e ciò che è assente; se amiamo qualcuno, lo vediamo anche quando non c’è. Se amiamo qualcuno, ci manca anche quando c’è. È lo strano sguardo doppio, quello della mamma di Pascoli, che è un’attitudine poetica: senti la presenza e la mancanza contemporaneamente, è questa l’attitudine poetica e ci lascia questo desiderio che anche da un male nasca un bene e che anche la poesia possa far parte di questo. Pascoli è un poeta, è già stato detto prima molto bene dal professor Baroni; la poesia c’è sempre stata, non è la cosa che si fa alla quinta ora del giovedì a scuola, quella molto spesso è un fantasma. La poesia c’è sempre stata tra gli uomini perché è sempre stato il modo con cui gli uomini hanno cercato le parole per dire il vero della vita; la poesia non è un genere letterario, una materia scolastica, la poesia è il modo con cui gli uomini hanno sempre usato e sempre useranno la parola che è il primo strumento per avere rapporto con la realtà, per afferrare il vero della vita. Molti si lamentano dell’ansia giovanile e della violenza giovanile. Chi ha figli sa benissimo che un bambino se non impara a parlare entro un anno, un anno e mezzo, non sta zitto, diventa violento, comincia a graffiare e spacca tutto. Se agli adolescenti, o a quelli più o meno della vostra età, noi togliamo il linguaggio adeguato, cioè la parola poetica, magari uccidendogli gli autori a scuola, se noi togliamo il linguaggio poetico per parlare di sé e del mondo questa generazione non starà zitta, sarà violenta, è già molto violenta, contro sé stessa, graffiandosi, gonfiandosi, cercando di sparire, violenti contro sé stessi e violenti con il mondo. Attenzione: parlare di poesia significa parlare di ciò che fa conoscere la vita, non è un vezzo letterario!
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