Francis Scott Fitzgerald e il crollo
Pochi appunti, strambi, su una figura martoriata e splendente. Francis Scott Fitzgerald stese una specie di diario della sua depressione. Di una delle sue cadute che lo facevano essere un piatto incrinato… Pochi hanno saputa descriverla come lui, momento in cui si sente dardo “scagliato dal nulla al nulla”. Scrive: “Il rimedio tipico per l’individuo in crisi, si sa, sta nel pensare a chi ha fame o è gravemente ammalato: un balsamo buono per ogni stagione contro l’abbattimento in genere e, come consiglio diurno, senz’altro salutare per chiunque. Ma alle tre del mattino un pacco dimenticato assume la stessa importanza di una condanna a morte e il rimedio non funziona – e in una vera notte oscura dell’anima sono sempre le tre del mattino, un giorno dopo l’altro”.
Non sono mai stato depresso. Ma conosco ogni cosa, ogni cosa di cui parla Fitzgerald qui e altrove.
Sullo scrittore americano è stato scritto molto e molto di lui e della sua opera si presta a infinite variazioni interpretative. Fu un mondo, volle esserlo. Scagliato nelle pupille drogate dello splendido uomo che emergeva da dentro le viscere americane. Dopo aver fallito qualsiasi carriera di leader, come racconta, volle essere lo scrittore. Ci riuscì. Qui racconta il prezzo pagato. Fermandosi su quei tre articoli scritti per Esquire nel 1936, dando voce alla Grande Depresssione americana, al “secondo tempo” della sua vita e della vita americana il cui sfavillio vuoto e febbrile aveva raccontato nel romanzo che gli procurò un immenso successo, Il grande Gatsby, si nota in modo più duro e adamantino il talento poetico di questo narratore. Un talento mostruoso. Già là nel romanzo erano tante le tracce, le sfaccettature di visione che solo un poeta può dire anche mentre racconta. Fu bocciato in “poesia inglese” all’università. Altro segno. E sa che il cinema sta uccidendo il romanzo (lo diceva già FSF, allora). Ma leggendo “Il crollo” si capisce bene. Francis Scott Fritzgerald è un poeta in prosa. Uno di quelli che per dirla con Mario Luzi canta qualcosa pari alla vita. Ottavio Fatica, traduttore e lui stesso poeta e partecipe curatore dell’edizione che fu pubblicato da Adelphi nel 2010, ricorda che “tutti i racconti che venivano in mente allo scrittore avevano a touch of disastrer”. Qualcuno forse non vede questo tocco di disastro nella propria vita? Che a volte può allargarsi e diventare un vero abisso? E potrebbe essere altrimenti dopo aver letto Rimbaud? La letteratura moderna può evitare tante cose, ma non di parlare delle conseguenze del peccato originale. Tra i suoi amici – molti dei quali in quegli anni crollavano in suicidi e alcool o storie di dura violenza – c’era anche Flannery O’Connor. La strana scrittrice cattolica che scriveva di figure disastrose, e di interventi della grazia. Anche lei aveva letto Baudelaire.
Non vale qui fare il riassunto di questi tre scritti che descrivono i tre tempi del “crollo”. Ma voglio notare tre cose. Già nella espressione “vera notte oscura” c’è il richiamo non so quanto involontario in un uomo cattolico a Juan de la Cruz. E il primo scritto si conclude con una citazione del Vangelo di Matto. Quella sul “sale della terra” che se perde gusto lascia il mondo senza sapore. Il procedere dell’uomo verso il “mondo dell’amarezza” è siglato da questa che Fritzgerald citazione che fa “per sua regola”. Ma qui suona come un rammarico. Sta perdendo gusto. Il secondo tempo è il crollo nella insipienza. Come il segno del fallimento. Entrare nella perdita. Diventare un uomo amaro. Perché nella “vera notte oscura” non si incontra nulla, nessuna preda. Ogni caccia è finita. Resta infine solo il fatto di diventare uno come tutti. Uno cattivo. Uno che a chi gli chiede una mano risponde bruscamente. Le pagine su questa “nuova sistemazione” agghiacciante e sterile sono di una grande finezza. Forse solo Rimbaud in Una stagione all’inferno trovò ed espresse questioni simili. La discesa all’inferno di Fitzgerald sta appunto nel constatare – ecco la seconda cosa che volevo a notare – di non saper più essere un uomo buono. E che ha finito per “maturare un atteggiamento triste verso la tristezza, un atteggiamento malinconico verso la malinconia, e un atteggiamento tragico nei confronti della tragedia come mai avessi finito per identificarmi con l’oggetto del mio orrore e della mia compassione”. È una cosa del genere, aggiunge, “che impedisce ai pazzi di lavorare”. O che fece cadere nell’insuccesso Tolstoj. Non prova più “simpatia” per nessuno. (per il postino, per il direttore di giornale, per i mezzi parenti…) e dice di esser pronto a essere “un animale corretto e, se mi getterete un osso con un po’ di carne da azzannare, potrei anche leccarvi la mano”.
L’uomo ferito, che attraversa la notte oscura senza trovare preda – e dove fa l’esperienza sconvolgente ma insopportabile di “immedesimarsi” con l’oggetto della sua compassione – finisce per essere un animale corretto, un buon servo. Diventare “uno dei loro”, quel tipo di “uomini che se ne sbattevano che il mondo precipitava nel caos, purché risparmiasse la loro abitazione”.
Oggi siamo così dentro all’epoca degli animali corretti, dei buoni servi. No?
Aveva compreso di aver smarrito qualcosa già da tempo. Ecco il terzo passo della mia passeggiata con quest’uomo difficile come siamo tutti, e che patì qualcosa che ci riguarda tutti. Lo descrive con acume nel secondo dei tre scritti, Attenzione, fragile, quando descrive la mancanza di un “io” unitario. Varie parti della personalità erano separate e convivevano ma seguendo ciascuna una propria strada. Anzi delegando il ruolo guida in ciascun percorso a figure diverse. “Così non c’era più un io – non c’era più una base sulla quale organizzare l’amore proprio – tranne le mie illimitate doti di applicazione, che sembravo non possedere più. Era strano non avere identità – essere come un bambino lasciato solo in una grande casa: sa di poter far tutto ciò che vuole ma non c’è niente che voglia fare…”
La perdita di un io unitario è alla base della incrinatura del piatto. Perché non c’è base su cui “organizzare” (strana parola ma rende l’idea della complessità, del non spontaneismo) l’amor proprio. Che è una dei fondamenti della persona. Lo sapeva Leopardi. E lo sa la sapienza millenaria del Vangelo: cosa otterrà un uomo in cambio di se stesso? Cosa vale quanto te?
La divisione dell’io è inevitabile. La vita ci tira da molte parti. Non mancano gli stimoli agli uomini vivi per intraprendere mille sentieri in cui non ritrovarsi. Pensare di mantenere l’unità dell’io e da scemi. O da mistici, gente inchiavata in Dio. Noi, i più, c’è lo sentiamo sbranare dentro. Le luci e gli sfinimenti del GG (romanzo di sangue sotto le trasparenze, durissimo) è il dolce crudele sbranamento dell’io. Un’epoca febbrile e vacua non è priva di conseguenze sull’amore proprio. I molti che ci abitano, come aveva cantato epicamente Whitman, sono diventati fantasmi. È finita l’epica, l’America splende e crolla. Splendono e crollano i personaggi dei cocktails eleganti sulla baia. Solo un amore totalizzante potrebbe tenere insieme i brani dell’io. Lo sapeva San Tommaso, lo sapeva Fitzgerald con la sua Zelda, zattera a cui legò la sua zattera in un legame che non salvò nulla di nulla. Ma che fu l’unico che lo accompagnò come una oscura promessa. Poi si persero nell’ombra. Ora il suo nome splende come un sigillo dell’epoca. E un avviso per i naviganti che non hanno paura.