Le parole di San Francesco
Voce. Di chi è la voce che loda? “Laudato si’ ”. Chi parla? Da dove viene la voce che spicca nel Cantico da cui inizia la nostra poesia, su quel crinale tra latino e italiano dove prende forza e slancio di terra e amore la nostra letteratura? In quel verbo stranamente rivoltato al passivo chi parla? Di chi è la voce, se l’uomo non può “te mentovare”, non può – nel bassissimo che siamo e che abitiamo – menzionare l’ “Altissimu” onnipotente? La voce del Cantico a chi appartiene? Da chi viene richiesta e da dove risale la lode rivoltata come una supplica? “Laudato si’ ” è infatti estensione del Santificetur nomen Tuum, “sia santificato il Tuo nome”, detto da Gesù nella preghiera rivoluzionaria del Padre Nostro. Da che voce, da che profondità, da quali foreste o laghi, da quale minuscolo essere che striscia tra i sassi o da quale nube veloce nel cielo Francesco ascolta e trae la lode? Forse in quel Cantico, composto in tre fasi e ultimato nei pressi del morire, come ci dicono gli studiosi (fra tutti Claudio Leonardi nel vasto e poderoso accompagnamento alla Letteratura francescana, edito da Valla Mondadori), Francesco diventa lui cassa, nido, spazio alla voce che è ovunque, che traversa ogni cosa, voce dell’esistenza stessa. È come se il gesto compositivo del poeta infermo afferrasse le voci di ogni cosa – le silenziose che solo quelli come lui sentono, delle acque, della luna, dell’aria – e la voce nascosta del cuore ferito di uomini che “soffrono” e “perdonano”; e tutte queste voci in lui fossero, per così dire, radunate in una: “Laudato si’ ”. Voci chiamate in lui, nel più povero di tutti, riunite nella prodigiosa orchestra del “Laudato si’ ”. I poeti si devono fare poveri per accogliere le voci del mondo e del vivente. Francesco ha dato voce alla poesia italiana, inchiodandola, quasi condannandola all’esser poesia che dà voce al vivente, alle presenze più che alla mente, alla Natura più che alla Cultura, alle esperienze più che alle fughe intellettuali. Voce delle creature. Di tutte. Francesco come Agostino sapeva che la vera delizia è Dio. Lo sapevano anche i neoplatonici, e tanti filosofi. Nessuno, niente può soddisfare l’abisso del cuore umano. Abyssus abyssum invocat, dice la Bibbia. Ma non basta sapere che solo l’abisso di Dio abbraccia finalmente il nostro cuore. Non basta saperlo. Occorre farne esperienza. Riconoscerne la voce, l’annuncio, l’arrivo. Nel secondo dei Fioretti, si racconta che l’amico Bernardo con cui Francesco iniziò la sua avventura mentre parenti e vecchi amici lo guardavano con “fastidio fangoso”, vide che il giovane Santo aveva vegliato tutta la notte ripetendo “Mio Dio, mio Dio”. Si fece voce di quella voce. Passò i primi anni a “predicare”. E la sua vita fu tutta tesa perché quella voce fosse ascoltabile, incontrabile. In tutti gli annunci, le vocazioni e le annunciazioni è come se restasse in chi li ha sentiti (e ne ha cambiato la vita) una specie di nostalgia struggente della voce. La inseguono, la risentono. La espandono. Divengono, i convocati, voce loro stessi. Chiara scrive così il suo primo ricordo di Francesco, nel suo Testamento: “Allora, infatti, salito sopra il muro di detta chiesa, a gran voce, in lingua francese, diceva ad alcuni poverelli che stavano nei paraggi: ‘Venite e aiutatemi a lavorare per il monastero di San Damiano…’ ”. In volgare, in francese, in latino – Francesco si fa voce in ogni lingua, ancora. Coscienza. Non si comprende la parola coscienza senza accostarla alla parola obbedienza. Ob-audire, ascoltare molto. La forza di ascoltare. Da dove viene la dolce potente voce del Cantico? Dalla coscienza e dall’ascolto. In Francesco è chiaro. È fulminante. È la chiave della sua letizia, e della sua forza. La coscienza è lo spazio dell’ascolto, non della fumosa interpretazione del mondo. Ogni poeta sa, come Dante, che l’arte della poesia e le arti in genere sono una questione di “obbedienza” di ascolto, di fedeltà anche dura a una voce che ti parla nel mondo e che chiede l’opera. Dante, com’è noto, a Francesco deve più che una ispirazione. Si fece terziario, e le sue descrizioni in versi dell’evento francescano sono ancora esattissime. Nel canto XI del Paradiso parlando di Francesco e della Povertà come “Lieti amanti” narra che La lor concordia e i lor lieti sembianti amore e meraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi tanto che l’venerabile Bernardo si scalzò prima, e dietro a tanta pace corse, e correndo, li parve esser tardo Oh ignota ricchezza! Oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro lo sposo, sì la sposa piace. E se con Gianfranco Contini possiamo dire che nel Cantico di Francesco si situa il vero inizio, il crinale d’avvio della poesia in lingua volgare, in Dante quell’opera arriva a sintesi. Dante comprese subito la natura mistica e riformatrice della forza di Francesco. Dice in quello stesso Canto della Commedia che occorre indicare con “Oriente” il luogo in cui il santo nacque. Nascita, ascesi, Assisi. Francesco ri-nasce ascoltando, facendo coscienza della voce che gli parla. All’inizio nell’insoddisfazione visitata dalla vocazione e poi nella feriale continuità dei giorni. Vocato sempre. L’obbedienza all’Assoluto, e alla regola, ai minimi suoi frati, insomma l’obbedienza al moto interiore e al moto dei cieli, al cenno del crocefisso o al cenno del fratello più misero, tutto questo e la “coscienza” in Francesco coincidono. L’ascolto al più profondo della sua coscienza di giovane ricco inquieto è diventata subito ascolto dell’amico Bernardo, e poi del sacerdote che li ha accolti, e poi delle circostanze, e poi dei segni nella vita dei suoi frati. Ascolto del papa. Della Chiesa. Non c’era differenza per lui quando si buttava con la faccia a terra chiedendo “chi sei tu?”, rivolto al mistero del mondo, e quando si rivolgeva al crocefisso o a Chiara per chiedere cosa fare. Coscienza, obbedienza. La santità di Francesco non è esito di uno sforzo, innanzitutto. Ma della coscienza che ascolta. Fino a farsi ripetere all’ultimo – traversando le ultime tenebre della prova finale – …