Categoria: Saggi e interventi

Appunti sul Cantico dei Cantici

Appunti sul Cantico dei Cantici

  I. Innanzitutto, mi sorprendo. Mi arrendo.  E tutto diventa movimento.  La forza di questa poesia arriva come pietra nuda. Magnete. E violentissima onda. Questo testo remoto, a cui s’appigliano e da cui crollano, precipitano i commenti delle più grandi menti della storia dell’umanità, da Origene ad Agostino, da Bernardo a Gregorio, da Teresa d’Avila fino ai giorni nostri, questo testo nato nelle sperdute campagne della Galilea migliaia di anni fa parla di me. Di noi. Perché noi sappiamo cosa è: “tu mi hai rapito il cuore con uno sguardo”. Sì, io, noi sappiamo cosa è le tue “labbra nastro di porpora”, “i baci dei tuoi baci”. Noi sappiamo, è per noi, è in noi il dire o il sapere dell’“ombelico come coppa rotonda che non manca mai di vino drogato”, “ i tuoi seni due cerbiatti”. Mi sorprendo, mi perdo, mi ritrovo, mi perdo ancora quando leggo : “un re è stato preso tra le tue trecce”, “il tuo ventre un mucchio di grano” “i seni come grappoli d’uva”. Ed è scritto lì quel che è scritto in noi, sappiamo che nulla fa vivere e morire come il voltarsi –nella fuga di secoli o di portici – della persona amata: “volgiti Sulammita” . Sono parole che dicono di noi. La ricerca dell’amata e dell’amato presente e assente. Che non ci basta mai. “Dove sei…” “Fuggi…”. Cantico della presenza e della assenza, cioè del desiderio che non si placa mai. Per questo cantico dei mistici, da Teresa d’Avila che pianse di non poterlo leggere in spagnolo, a causa dei decreti del concilio di Trento, a Giovanni Paolo II, poeta e lettore del linguaggio del corpo.    II. Il Cantico arriva dalla remota regione degli inizi. L’amore è questione degli inizi. E’ sempre questione dell’iniziante, della vita nel suo primo posizionarsi, del suo primo emergere. Sei come ami. Non a caso il Cantico è legato al Libro della Genesi, è un espandersi di un suo momento nel capitolo 2. Anche il poeta pagano Lucrezio sa che la nascita di Venere riguarda gli inizi del mondo. Gli inizi sempre, il sorgere della natura delle cose. Il sorgere della natura di ogni cosa. Mi stupisco del Cantico, ci cado dentro. Vieni. E significa un viaggio di conoscenza a riguardo degli inizi.   III.  Noi sappiamo che alla donna amata a un certo punto sorge da dire “amata”, e poi “sorellina”, – “sorella” perché senza fraternità non c’è amore. Complicità dicono banalmente, ma è di più – è la trasformazione della visione della persona amata, desiderata e oggetto di passione, in compagna di viaggio. In qualcuno di presente e assente per cui vale la pena sacrificarsi. Paradosso dell’amore: essere io tanto più cresci tu.  È di me, di noi che parla il Cantico. Sappiamo che “l’amore è forte come la morte”. La stessa ineluttabilità. La stessa forza. Che conduce dove non si sa. Gli antichi (fino al medioevo) leggevano il termne “amor” latino così (“amor mi prese” dice Francesca nel V inferno di Dante). L’uomo non può nulla per contrastarla, e difatti di fronte ai suoi rapimenti l’uomo medievale – come ben documentano le parole dei poeti, e la storica Régine Pernoud e la stessa poesia di Dante – era preso da compatimento più che da condanna. L’amore non è un sentimento, ma una forza. Lo sa chiunque è nel suo vero inizio o nel pieno. L’amore non è “quel che proviamo”, come sentimento. Il nostro “provare” è la prima conseguenza dell’amore. Che arriva e avviene.  Quando si confonde l’amore con “quel che proviamo” si entra nella banalità, di cui si nutrono infiniti luoghi comuni. L’amore è la forza che muove in noi certi sentimenti, è la presenza che li suscita. Può accadere che i nostri sentimenti siano intorpiditi, divaganti, distratti. È normale, è inevitabile che sia così – poiché i sentimenti sono la parte più “reattiva” di noi, sono l’alone con cui avvertiamo i colpi le seduzioni le dolcezze le durezze della vita. I sentimenti per fortuna registrano la vita, sono la prima messa a fuoco di quanto ci capita. Ci fanno sentire la vita. Ma sono appunto la parte più impressionabile e volatile, la materia più malleabile e leggera, cangiante e mobile. Stupirsi come fa qualcuno che i sentimenti cambino è come stupirsi che l’aria sia l’aria. I sentimenti cambiano, ma non la nostra possibilità di riconoscere la forza di amore. Che sempre è stato visto come un Dio, una presenza che ci prende e ci porta dove non sappiamo. I sentimenti possono cambiare, ma ciò non significa che non ci sia l’amore. La forza dell’amore agisce dapprima su sentimenti (amor-eros) poi anche sul cuore inteso come sede del giudizio e della coscienza più profonda, divedendo anche altro. Le trasformazioni dell’amore – che si muovono nello spazio disegnato del Cantico di desiderio della presenza dell’altro, che è cosa ben diversa dal possesso – sono segni di vitalità dell’amore. È forza che una certa presenza suscita se noi davvero la consideriamo. Quante volte dobbiamo traversare la foresta della volatilità, della distrazione dei nostri sentimenti per rimetterci davanti alla forza che ci suscita la presenza amata di un figlio, di una compagna, di una moglie, di un amico – l’amore è uno, non è solo eros, ma ha un movimento unitivo, resta eros anche fondendosi ad agape, resta desiderio anche diventando fraternità.  In Romagna abbiamo una parola (“trasporto”) che indica quanto si prova come movimento amoroso (Signorina, sento del trasporto per lei…) ma anche l’estremo viaggio, il funerale (ne parla così anche Pascoli). In entrambi i “trasporti” non siamo noi a decidere di andare né dove andare. “L’amore è forte come la morte”. E sappiamo che la passione – il primo movimento, il primo sentimento che amore ci suscita a riguardo della persona con cui ci si presenta – “è tenace come gli inferi”. Non è un caso che i traduttori del Cantico a volte usino “gelosia” in luogo di “passione”. Entrambi i termini indicano una forza di possesso. Tale passione tenace come …

Agustín y el riesgo de la belleza

Agustín y el riesgo de la belleza

El primer recuerdo de Agustín no sé por qué lo relaciono con la cama de mi madre. 
Tal vez porque tumbado allí leí unas pocas páginas por primera vez. Fue en aquella cama de mis padres en la que escribí mis primeros versos a los 8 años. Y luego, no sé por qué, también veo a Agustín relacionado con aquella cama de mis “progenitores”.
 Por supuesto, lo volví a encontrar no solo por motivos de estudio – en la universidad, la maravillosa, muy divertida y sabia profesora Manferdini que llegaba a clase con las bolsas de las compras y siempre con nuevas emociones leyendo a su filósofo y amante – pero sobre todo lo que he visto brillar y murmurar detrás de las páginas de algunos poetas maestros y amigos míos. La primera colección de Luzi, por ejemplo, se titula “El barco” y aquella visión estupefacta y dolorida del joven poeta que lucha con el tiempo y el misterio del viviente era tejida completamente por un diálogo no solo metafórico con el Inquieto de Hipona. Aquel  diálogo ha continuado durante mucho tiempo en la persona de Luzi, y de alguna manera también me incluía a mí, que he caminado detrás del apacible raptor florentino. Además de su presencia en las lecciones brasileñas y en las páginas extraídas, nerviosas y ardidas de  Ungaretti. 
El amor hacia Petrarca, inconmensurable y vertical, hacia un Petrarca “duro”, tan fuerte en Ungaretti, ¿acaso no vibra de aquel encanto que el alma llena de nostalgia de Agustín ejerce sobre el poeta que dijo ser hombre de penas y nómada? La vida es nostalgia, cantaba con las palabras talladas en el abismo el poeta de “Los ríos”. 
Y T. S. Eliot, en su conmovedor y muy preciso conocimiento y poetización en los Cuatro Cuartetos y antes, incluso antes de La tierra baldía, en aquella investigación sobre el misterio del tiempo, febril y leve, remonta hasta invocar “que el fuego y la rosa sean una sola cosa”, tal vez le está gritando algo a Agustín, desde las primeras terribles y animadas décadas del novecientos. 
Cada poeta que ha entrado en el misterio del verso y de la sintuosa y oscura relación con el tiempo, ha encontrado la luminosa sombra de Agustín con la que hablar. Montale y Leopardi. O tal vez al contrario, con un juego de azar no tan arriesgado, dado el tema, la poesía, que analizamos, se puede decir que él, Agustín, se ha colocado en una intersección, por donde inevitablemente pasan los poetas. 
Él ha intentado aquel diálogo. Y lo ha intentado, hay que decirlo, porque los temas que lo han ocupado concernían nada menos que la salud de su alma como hombre y cristiano. No podía evitar de hallar el problema de la poesía. El pie, el paso, el verso del poema es siempre interesante para aquellos que buscan el camino de la vida. 
De la reflexión de Agustín, un elemento que inmediatamente me ha llamado la atención es que esta irradia sin nunca perder calor de aquel sol primario del punto dramático de su investigación y de su asunto personal. La experiencia estética y su comprensión no solo eran ejercicios de un buen orador como lo era él. Sino que la forma con la que entender aquel “carme universalis”, que es la sola armonía digna del corazón humano, de sus profundidades abismales, y de sus espasmos. Al igual que muchos grandes autores, Agustín se destaca inmensamente, es casi terrible en su vasto y áspero pensamiento y en cierto sentido, al mismo tiempo, es familiar y cercano. 
De un amigo poeta francés, Jean Pierre Lemaire, me encantan un par de versos que se refieren a la tensión de Agustín: “Hay una música en el mundo / pero si no cantas no la puedes oír.” Aquel canto, por lo tanto, ¿nos permite la escucha? 

Para Agustín, la facultad de percibir el “carme universalis” estaba vinculada a la necesidad de no estar atado a un placer inferior. Como alguien que se conforma. Y Agustín no era el tipo. Sin tener en cuenta esta búsqueda de satisfacción cada vez más lejana, la obstinada reflexión sobre el ritmo, sobre el arte compositiva y, en general, la reflexión que hoy en día llamamos la estética de Agustín, no se entiende. 
Las así llamadas artes liberales son los “escalones seguros” como dice en las Retractationes, para llegar a las realidades incorporales a partir de las cosas corporales. El arte es una “scientia” para reunirse con lo Único. Por lo tanto, un asunto demasiado importante. Pararse en la “necesidad” de las artes liberales es un signo de debilidad. Es una profecía, por así decirlo, de la situación en la que vivimos: necesitamos las artes liberales, pero alejadas de su tarea de introducir una “scientia” de lo invisibile (la que buscaban Rafael y Leonardo, Miguel Ángel o Lorenzo Lotto, o los pintores de  iconos), las artes se convierten en entretenimiento para gente culta, en ironía de sí mismas, obligadas a una provocación continua, dedicada a incitar la conciencia social o a producir “ludus” en las zonas ricas del planeta. 
El “numerus” en el De Musica, al que Agustín dedica páginas extensa y eruditas, es un término que se traduce con: ritmo, número, música. La sensación que nos ofrece el sonido es el comienzo de un viaje. Un amanecer del pensamiento, habría dicho María Zambrano, lectora atenta de Agustín y de su confesión como género literario. Y Von Balthasar lee la belleza de los “estilos laicales” de Dante a Péguy, atento a sorprender la constante referencia, – no solo como contacto sino también como superación – en las grandes obras de Dante Alighieri a Péguy. 
La belleza, para Agustín, es siempre una experiencia sensible. El opuesto del orden es la nada. El mal es como un particular feo en una obra. También depende del hecho de que nosotros vemos la vida como un mosaico desde una distancia demasiado cercana, se nos escapa la visión de conjunto. Que solo Dios puede ver, y …

Agostino e il rischio della bellezza

Agostino e il rischio della bellezza

Il primo ricordo Agostino lo lego non so bene perché al letto di mia madre. Forse ne lessi buttato lì alcune pagine la prima volta. Fu su quel letto dei miei genitori che scrissi i miei primi versi a 8 anni. E poi, non so perché, anche Agostino lo vedo legato a quel letto dei miei “genitanti”. Certo, poi lo ho reincontrato non solo per motivi di studio – all’università la splendida buffissima e sapientissima professoressa Manferdini arrivava a lezione coi sacchetti della spesa e con sempre nuove commozioni leggendo il suo filosofo e amante – ma soprattutto l’ho visto baluginare e mormorare dietro le pagine di alcuni poeti miei maestri e amici. La prima raccolta di Luzi, ad esempio, si chiama “La barca” e quella visione stupefatta e dolente del giovane poeta alle prese con il tempo e il mistero del vivente era tutta tessuta di un dialogo non solo metaforico con l’Inquieto di Ippona. Quel dialogo è continuato a lungo in Luzi, e in qualche modo investiva anche me che al mite rapinoso fiorentino ho camminato per un pezzo dietro. E poi la sua presenza nelle lezioni brasiliane e nelle pagine scavate, nervose e incendiate di Ungaretti. L’amore per Petrarca, smisurato e verticale, per un Petrarca “duro”, così potente in Ungaretti, non vibra forse del fascino che l’anima piena di nostalgia di Agostino esercita sul poeta che disse d’esser uomo di pena, nomade? La vita è nostalgia, cantava con le parole scavate nell’abisso il poeta de “I fiumi”. E Thomas S. Eliot, nel suo struggente ed esattissimo conoscere e poetare nei Four Quartets e prima, già prima della Terra desolata, in quella indagine sul mistero del tempo, febbrile e delicata, sperduta fino a invocare “che il fuoco e la rosa siano uno”, sta forse gridando qualcosa ad Agostino, dai primi tremendi e vivissimi deceni del ‘900. Ogni poeta che è entrato nel mistero del verso e del suo fastoso e oscuro rapporto con il tempo ha trovato l’ombra di Agostino, luminosa, con cui conversare. Montale e Leopardi. O forse rovesciando, con un azzardo neanche tanto azzardato vista la materia, la poesia, a cui poniamo mente, si può dire che lui stesso, Agostino, si è posto a un incrocio da dove inevitabilmente passano i poeti. Ha cercato lui quel dialogo. E l’ha cercato, va detto subito, perché le questioni che lo hanno occupato riguardavano niente di meno che la salute della sua anima di uomo e di cristiano. Non poteva non incontrare il problema della poesia. Il piede, il passo, il verso del poema è sempre interessante per chi cerca il cammino della vita. Della riflessione di Agostino un elemento che mi ha subito colpito è che essa irradia senza mai perdere calore da quel sole primario dal punto drammatico della sua ricerca e della sua questione personale. L’esperienza estetica e la sua comprensione non erano solo esercizi di un buon retore come egli era. Ma il modo per intendere quel “carme universalis” che è la sola armonia degna del cuore umano, delle sue profondità abissali, e del suo spasmo. Al pari di non molti grandi Agostino si staglia immenso, quasi tremendo nel suo vasto e ripido pensiero e in un certo senso, al tempo stesso, familiare, vicino. Di un amico poeta francese, Jean Pierre Lemaire, amo molto un paio di versi, che rimandano alla tensione agostiniana: “C’è una musica nel mondo/ ma se non canti non la puoi sentire”. Quale canto, dunque, ci pone in quell’ascolto? Per Agostino la tensione a percepire il “carme universalis” era legata alla necessità di non rimanere legato a un piacere inferiore. Come uno che si accontenta. E Agostino non era il tipo. Senza considerare questa ricerca di soddisfazione sempre ulteriore, la accanita riflessione sul ritmo, sull’arte compositiva e in generale la riflessione che oggi chiamiamo estetica di Agostino non si comprende. Le cosiddette arti liberali sono i “gradini sicuri” come dice nelle Retractationes, per giungere alle realtà incorporee a partire dalle cose corporali L’arte è una “scientia” per ricongiungersi all’Unico. Una faccenda maledettamente importante, dunque. Fermarsi al “bisogno” delle arti liberali è un segno di debolezza. E’ una profezia, per così dire, della situazione in cui viviamo: abbiamo bisogno delle arti liberali, ma sottratte al loro compito di introdurre a una scientia dell’inivisibile (quella che cercavano Raffaello e Leonardo, Michelangelo o Lorenzo Lotto, o i pittori di icone) le arti diventano intrattenimento per colti, ironia su se stesse, coatte a una provocazione continua, dedita a solleticare prese di coscienza sociali o a produrre “ludus” nelle zone ricche del pianeta. Il “numerus” a cui Agostino dedica nel De Musica vaste e erudite pagine è termine che si traduce con: ritmo, numero, musica. La sensazione che il suono ci offre è l’avvio di un viaggio. Un’alba del pensiero, avrebbe detto Maria Zambrano, attenta lettrice di Agostino e della sua confessione come genere letterario. E il Von Balthasar legge la bellezza degli “stili laicali” da Dante a Péguy attento a sorpendere il continuo riferimento –come contatto ma anche come superamento – nelle grandi opere da Dante Alighieri a Péguy. La bellezza, per Agostino, è sempre un’esperienza sensibile. Il contrario dell’ordine è il niente. Il male è come un particolare brutto in un’opera. E anche dipende dal fatto che noi vediamo la vita come un mosaico da una distanza troppo ravvicinata, ci sfugge l’intero disegno. Che solo Dio può vedere, e dunque patiamo questo limite. Il mondo è come un’opera d’arte, secondo quanto suggerito dal Libro della Sapienza: “Omnia in numero, mensura,  pondere disposuisti”. Baudelaire pensava lo stesso. La esperienza della bellezza, Agostino lo sapeva, è luogo di un rischio. I suoi oscuri tentennamenti a proposito del canto nelle liturgie – eppure amava Ambrogio – sono il segno interiore di questa consapevolezza. Il “teatro” della abilità umana può offuscare l’evidenza della bellezza opera di Dio. E addirittura distrarre dalla tensione all’Uno. La bellezza apre e avvia il dramma della libertà. Un dramma che ha campo nell’intera statura umana: sensi, ragione, memoria. E lui, ripido uomo …

Augustine and the risk of beauty

Augustine and the risk of beauty

My first memory of Augustine is connected, I’m not sure why, with my mother’s bed. Perhaps I was flopped down on it when I read a few of his pages for the first time. It was on that same bed of my parents that I wrote my first verses at the age of eight. And then, I don’t know why, but I see Augustine linked to that bed as well. Certainly I encountered him again later, when studying him at University under the extremely silly and extremely wise Professor Manferdini who always arrived to class with her shopping bags and was always newly moved by reading him, her philosopher and lover. But even more importantly, I saw him flicker and heard him murmur behind the pages of some of the poets I counted as friends and mentors. Luzi’s first collection, for example, is called “La Barca” and that amazed and aching vision of the young poet in the grips of time and the mystery of living was woven from a dialogue (not only in a metaphorical sense) with “the restless Bishop of Hippo.” The dialogue persisted in Luzi’s work and in some way got into me as well because I followed in the footsteps of that gentle Florentine with his plundering verses for some time. And then there is Augustine’s presence in Ungaretti’s brazilian lessons and in his angry, incendiary, excavated pages. Is it possible that Ungaretti’s immense and upright love of Petrarch, of a “hard” Petrarch, does not vibrate within him with the same fascination that Augustine’s nostalgic soul exercises on him, Ungaretti, who claims to be a man of pain, a nomad? Life is nostalgia, sang this poet of “The Rivers” with words that he dug out of the abyss. And Thomas S. Eliot, in his aching and intensely exact poetic knowledge in the Four Quartets — and before, even before the Wasteland — in that feverish and delicate investigation into the mystery of time, wanders far enough to invoke that “the fire and the rose are one.” He is crying out to Augustine from the first tremendous and vivid decades of the 20th century. Every poet who has entered into the mystery of verse and into its rich and obscure relationship with time has found the luminous shade of Augustine to converse with. Montale and Leopardi. Or to reverse the situation (thereby taking a risk that, given the material of poetry, isn’t even very risky), it could perhaps be said that Augustine purposely placed himself at a crossroads through which poets must inevitably pass. He is the one who looked for that dialogue. And he looked for it, it must immediately be made clear, because the questions that occupied him concerned nothing less than the health of his soul, the soul of a man and a Christian. He could not avoid an encounter with the problem of poetry. The foot and the verse that are integral to poetry are always interesting for those who seek a path in life. The element that struck me immediately about Augustine’s reflections is that they radiate outwards without ever losing the heat of that primary sun which is the dramatic point of his research and of his own personal case. The aesthetic experience and his comprehension of it were not simply the exercises of the good rector he was. They were also his way of understanding that “carme universalis” that is the only harmony worthy of the human heart, of its abyssal depths, of its spasm. Equaled by few great men, Augustine stands out immense, almost trembling in his vast, steep thought. Yet, in a certain sense he is, at the same time familiar, close. A couple of verses by my friend the French poet Jean Pierre Lemaire that I love recall the Augustinian tension: “there is music in the world/ but if you don’t sing you can’t hear it.” What song, then, positions us for that listening? For Augustine the tension in perceiving the “carme universalis” was connected with the necessity of not remaining tied to an inferior pleasure. In the manner of one who settles for less. And Augustine was not that type. If we do not consider his search for a satisfaction that was forever further away, his relentless reflection on rhythm, on the art of composing music, and in general his reflections that today we would call “aesthetics,” we cannot comprehend his thought. The so-called liberal arts are “sure steps,” as he says in the “Retractiones,” for arriving at an incorporeal reality beginning from corporeal things. Art is a “scientia” for re-uniting with the One. And thus, a terribly important concern. To stop at the “need” for liberal arts is a sign of weakness. It is a prophecy, if you will, of the situation in which we live: we need the liberal arts. But when their work of introducing us to a science of the invisible (that which was sought by Rafael, Leonardo, Michelangelo, or Lorenzo Lotto, as well as the icon painters) is subtracted from them, the arts become entertainment for the educated, or self-referential irony. They are forced into a continual provocation dedicated to tickling social consciousness or producing “ludus” in the rich zones of the planet. The “numerus” to which Augustine dedicates vast and erudite pages of “De Musica” is a form that can be translated as: rhythm, number, music. The sensation that the sound offers us is the beginning of a journey. As an attentive reader of Augustine and his confession as a literary genre, Maria Zambrano would have called this ‘a dawn of thought.’ And Von Balthasar reads the beauty of the “Lay Styles” from Dante to Péguy with an eye to pointing out the continual references – as contact with Augustine but also as ways of going beyond him – in the great works from Dante Alighieri to Péguy. Beauty, for Augustine, is always a felt experience. The opposite of order is nothingness. Evil is like an ugly detail in a work of …