La movimentata letizia di un poeta
Un padre e un maestro
Mario Luzi è stato per me non un oggetto di studio, ma anzitutto un padre e un maestro nella poesia. E il mio punto di vista nel parlarne è segnato da un rapporto di più di vent’anni con una persona con la quale mi trovavo ogni settimana a discutere e a far leggere le mie poesie. Così, la prima fatica che devo fare – ma non voglio farla – è quella di sopprimere una sorta di groppo di gratitudine che viene prima di ogni altra considerazione. Perché a quest’uomo io sono grato: prima ancora di averlo letto e studiato, prima di tutto Mario Luzi è una persona alla quale sono grato. E credo che la gratitudine dovrebbe essere una spezia non assente anche nello studio della letteratura. Un critico che nessuno studia più, Pietro Mignosi, e che fu particolarmente polemico con «Il Frontespizio», sosteneva una visione molto bella: la critica letteraria o è come l’amicizia o è poco interessante. E davvero la critica letteraria, se non ha dentro un po’ di amicizia, si riduce a una chiacchera sterile.
Vorrei concentrarmi su due delle tante cose che si potrebbero dire di Luzi. Prima di tutto, occorre smettere di parlare di Luzi come se parlassimo di un autore ermetico. Anche perché molti di coloro che hanno avuto dei rapporti diretti con Mario ricordano bene come Luzi, ogni volta che si parlava di ermetismo, chiedeva: «che cos’è?», come accade, per altro, a tutti coloro che vengono collocati dentro una definizione o una casella che riconoscono limitativa della propria opera. Vorrei riflettere su due aspetti che cercano di guardare alla presenza attuale e alla futura presenza di Mario Luzi. Il 2014 è stato un anno luziano, contrassegnato da tanti incontri a lui dedicati che era necessario e molto opportuno promuovere. E se ci sono moltissime persone legate alla sua opera, non è tanto per un passato, ma piuttosto è proprio per quanto di futuro quest’opera ci sta indicando.
Il ruolo dell’uomo nella natura
La prima cosa che voglio dirvi mi è venuta in mente qualche settimana fa, in un luogo che sembra non aver niente a che fare con la nostra riflessione. È il Cern di Ginevra, dove fisici di tutto il mondo studiano l’universo. Ero lì perché ero stato invitato, insieme ad altri poeti europei, per discutere con i fisici sul reale e sulla natura. E proprio in quel luogo, discutendo con i fisici, mi sono tornate in mente molte delle intuizioni di Luzi. Il quale è stato uno degli uomini più impegnati a riflettere adeguatamente, cioè poeticamente – ogni riflessione, per essere adeguata, deve essere poetica –, sul posto dell’uomo nella natura. E credo che forse nessun altro poeta, almeno della seconda metà del Novecento, abbia con altrettanta acribia guardato a questa questione. Perché se parliamo di umanesimo e di nuovo umanesimo, non dobbiamo parlare dell’uomo separato dal resto, ma andare a vedere qual è la sua posizione rispetto alla natura. Di fatto, Luzi ha riflettuto su questo per tanti anni, soprattutto negli ultimi anni, con un’insistenza che è risultata incomprensibile a molti tanto che una parte della critica italiana, militante e accademica, a un certo punto, ha perso il contatto con Luzi pensando che egli fosse andato troppo in là, mentre in realtà egli era precisamente dentro la nostra epoca, mentre i critici erano finiti da un’altra parte.
Luzi stava riflettendo su un tema cruciale, che ci tocca a tutti i livelli della riflessione politica, morale, anche economica, per i risvolti che ha. Appunto: qual è il rapporto tra l’uomo e la natura? Ovvero, detto in maniera più semplice, ma non per questo banale: cos’è naturale, oggi, che cosa significa naturale? Forse non ci troviamo tutti di fronte e perfino dentro questo problema, a riguardo della nascita dell’uomo, la vita e la morte dell’uomo, le leggi in materia? Luzi era, prima di altri, intento a riflettere su queste cose: ho in mente, fra gli altri, il bellissimo testo sul seme e sul tema, in lui ricorrente, del germinare del vivente[1]. Di fatto, non siamo tutti qui oggi a chiederci che cos’è il vero germinare del vivente, quando inizia il vivente, a che punto possiamo sorprenderlo, dove lo possiamo manipolare, dove la nostra azione diventa naturale o innaturale? Ecco, Luzi era già lì prima di noi, era già lì addirittura prima di quest’epoca.
Un andamento ossimorico
In quel punto della riflessione, Luzi faceva fondamentalmente due cose. Prima di tutto, rifletteva poeticamente, vale a dire rifletteva con un’ampiezza di sguardo che riusciva a mettere insieme le cose. Al Cern di Ginevra è stato interessante discutere con gli scienziati che – per riassumere una realtà di fatto assai complessa –, avendo infine scoperto il bosone di Higgs, non sanno più cosa pensare. Avendo, infatti, terminato di trovare conferme per il modello teorico dell’universo standard, come lo chiamano, ora si stanno chiedendo verso dove dirigersi nell’indagare la realtà, dal momento che le ultime scoperte fatte non hanno diminuito il mistero, ma l’hanno aumentato. Da poco, in particolare, si è scoperto che il big bang che ha dato origine all’universo – e che Dante aveva, in qualche modo intuito, secoli prima, quando descriveva «legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna»[2] – non è un’esplosione come le altre, che ha un inizio e poi rallenta. Si è scoperto che l’esplosione generata dal big bang accelera. E ora ci si chiede: qual è la forza che spinge e produce l’accelerazione dell’universo? Forse l’antimateria, la dinamica generata dalla ipotetica super-simmetria? Gli scienziati, dunque, sono lì senza sapere che cosa fare, nel senso bello della parola.
Mario Luzi è un poeta che ha colto esattamente il senso di questa posizione dell’uomo contemporaneo, il quale ha esperito fino in fondo certe strade della conoscenza e oggi deve come reinterrogarsi di nuovo. È una poesia piena di domande, quella di Luzi. Perché la domanda non è solamente un vezzo della mente aperta o una caratteristica dell'anima religiosa, se vogliamo dire così. È piuttosto la posizione della mente più adatta allo studio e alla verifica del nostro rapporto con la natura. Così, al Cern mi tornavano in mente tanti testi di Luzi che parlavano di tante realtà che questi signori stanno provando a guardare e non riescono a capire.
Qualcuno, di recente, ha giustamente messo in luce la struttura molto spesso apparentemente oppositiva dei versi e della poesia di Luzi, che sembra affermare una cosa e poi apparentemente il contrario, come a dare non tanto una sintesi di tipo hegeliano, ma un nuovo movimento alla realtà che è fatta di pieni e di vuoti, di nero e di bianco, di compresenze opposte, di ossimori. Una poesia che molto spesso si costruisce, appunto, in maniera ossimorica. Di fatto, quei fisici mi stavano dicendo che, per comprendere l’universo, occorre avere una visione ossimorica del reale, occorre mettere in conto materia e anti-materia, il cui rapporto produce una forza nuova. Di fatto, Luzi si stava ponendo, con la sua opera, precisamente a questo livello dell’indagine sul reale e sul rapporto dell’uomo con la natura, con tutte le implicazioni che questo ha, con una grande libertà e con una grande capacità poetica di parlare di queste cose.
In dialogo con Leopardi
E, non a caso, come ha ben messo in evidenza Massimo Natale in un recente convegno presso l’Università Cattolica di Milano, Luzi dialoga, come pochi altri nel Novecento, se si esclude Ungaretti, con il poeta di Recanati. È senza dubbio Leopardi il grande poeta con cui Luzi stabilisce un dialogo assiale e al quale ha dedicato anche due studi importanti. Un dialogo che evolve, ovviamente, ma che ha sempre al centro la necessità di fare i conti con la posizione di Leopardi e dell’intera modernità nei confronti della natura. Il problema è chiaro: che posizione ha l’uomo nella natura?
Per altro, Luzi era consapevole di confrontarsi con questa questione non da solo, non in solitudine. Ricordo che un giorno in via Bellariva dove si andava a trovarlo, mi disse di leggere un poeta irlandese che si chiama Seamus Heaney, allora quasi del tutto sconosciuto in Italia, il quale stava lavorando, a suo modo e secondo la sua storia e tradizione, su quale possa essere un rapporto dell’uomo con la natura non di tipo agonistico o antagonistico. Heaney usa una bellissima espressione: «io sono sposato al mondo». Luzi stava cercando qualcosa di analogo: indagava su cos’è che mi sposa al mondo e mi fa sentire la natura non come un’avversaria o una madre che stranamente si trasforma in matrigna per chissà quale cattiveria, ma come una realtà altra alla quale posso, con termine luziano e betocchiano, “parificarmi”. Un luogo dove posso sentirmi e riconoscermi – Ungaretti avrebbe detto «una fibra dell’universo» – stando nel mio posto e non un posto “contro”, il luogo dove percepirmi come vivente nel vivente, non io antagonista alla natura né la natura antagonista a me.
Non solo, ma Luzi sapeva di pensare questo in un’epoca che si stava interrogando o, meglio, che si sarebbe interrogata su queste cose. E lo faceva in compagnia, appunto, di una strana brigata di poeti un po’ sparsi per il mondo: citavo Heaney, ma sicuramente anche Derek Walcott, un altro dei poeti più noti e un amico, stava discutendo e riflettendo di queste cose, così come un altro straordinario poeta in un’altra parte del mondo, l’Australia, Les Murray. Luzi sapeva che alcuni grandi poeti del nostro tempo stavano ragionando e poetando su questi temi. Si tratta di pensare un ruolo o, meglio, un posto dell’uomo nella natura che non sia più il posto del re, inteso nel senso del potere, ma che sia un posto “sposato”, non antagonista.
Discutendo con alcuni dei fisici del Cern, sottolineavo che sono state scoperte molte cose e che, già con Galileo, sappiamo che non siamo al centro dell’universo. Rimane il fatto, però, che non abbiamo trovato nessun altro essere cosciente che si interroga sull’universo. È vero, dunque, che l’uomo ha un posto decentrato nell’universo dal punto di vista della posizione fisica ed è quindi un po’ sbandato: siamo tutti un po’ sbandanti nell’universo. Eppure, è altrettanto vero che siamo l’unico ente che si interroga sull’universo, tanto che bisognerebbe parlare di una sorta di centralità scentrata. Luzi era esattamente a questo livello nella sua riflessione sull’uomo: capiva che l’uomo ha una centralità non nel senso del potere o dell’essere al centro della scena nella logica della vanità, ma una centralità dal momento che è comunque l’unico a interrogarsi sull’universo: per quanto umile, dunque, l’uomo è un centro dell’universo.
Piangere «di grazia e di letizia»
Da una parte, dunque, il rapporto con Leopardi, con la serietà e profondità dovute alla grandezza dell’interlocutore. Dall’altra, il ritorno, in Luzi, della parola “letizia” contenuta nel titolo della mia relazione. C’è, infatti, una poesia straordinaria contenuta nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in cui, guardando la val d’Orcia – quella valle che Luzi conosceva benissimo per andarci in vacanza –, uno strano drappello di persone si chiede quali siano stati la parte, il ruolo, la funzione dell’uomo nel tempo. E, a questo punto, la poesia mette in scena una voce che è forse quella della valle o della poesia stessa: una voce che dice che «lei lo sa» che c’è stata una parte.
È un Luzi anziano che sta scrivendo questa poesia. E ricordo che qualche tempo prima aveva detto che avrebbe smesso di scrivere, sostenendo che aveva scritto già tanto. E, invece, alcune settimane dopo, mi racconta di aver sognato Simone Martini e da questo sogno nasce un libro capitale per la fine del Novecento, uno dei libri di poesia più belli mai scritti in Italia. Ebbene, in questo volume è contenuta la scena in cui un misterioso drappello di persone guarda la val d’Orcia e il tempo che passa, con la bellissima immagine della luce e del tempo che scorrono nella valle, e le persone si chiedono: abbiamo avuto una parte? Io che parte ho avuto? L’uomo che parte ha avuto nella natura? E c’è una voce che dice che si vive «avendo e non avendo / saputo qual è stata la sua parte… ma è stata». È stata, sì: detto con una fierezza e una certezza commovente. E la poesia finisce con questi due versi:
e questo la fa piangere
talora di grazia e di letizia[3].
Che, alla fine del Novecento, un grande poeta italiano potesse usare di nuovo la parola francescana “letizia”, cioè la parola del primo poeta italiano importante, Francesco d’Assisi – colui nel quale, come diceva Contini, la lingua nostra ha trovato per la prima volta, forse, la forma adeguata per dirsi – che, alla fine del Novecento, tempo degli orrori, della perplessità, del nichilismo, potesse riusare la parola “letizia” a proposito della parte dell’uomo nella natura, ecco mi è sembrata una cosa prodigiosa che solamente un uomo come lui, che aveva svolto un grande lavoro e vissuto un grande patimento di tutto questo avrebbe potuto usarla. Luzi ha davvero patito il Novecento, l’ha attraversato patendo, condividendo e patendo. Di fatto, questa parola risuona nella nostra lingua e nella nostra poesia proprio grazie a Mario Luzi, l’unico che avrebbe potuto dirla.
E insisto nel sottolineare come questo sia accaduto in un’epoca in cui – ma si tratta di un aspetto che può interessare soprattutto gli studiosi di letteratura – buona parte del dibattito letterario, anche con una certa cattiveria di cui pure Luzi fu talvolta oggetto, era invece orientata a una lettura dell’uomo puramente nel suo ruolo storico: l’orizzonte della presenza umana era puramente la storia. All’interno di questo orizzonte si poteva discutere anche di altri aspetti, ma il punto di partenza e di arrivo era unico: l’uomo nella storia.
Anzi, più precisamente, figure come Luzi, ma d’altra parte anche uno scrittore e poeta come Pier Paolo Pasolini – Luzi mi disse un giorno, riguardo a una possibile nozione ricca di realismo, cioè di un realismo non storicista: «polemizzavamo, ma stavamo dicendo la stessa cosa» –, divennero oggetto polemico di chi aveva una lettura puramente storica dell’essere umano. Pasolini stesso, infatti, cercava una lettura sacra della presenza umana nel mondo, e Luzi, analogamente, andava in cerca di una presenza dell’uomo rispetto alla natura e al sacro nel suo senso più largo.
Merita ribadirlo: quella di Luzi – e di Pasolini con lui – non era una posizione comoda nel dibattito di quegli anni letterari. Ed è vero che Luzi è stato molto onorato – e a volte gli piaceva anche, con una certa sua ironia ribalda fiorentina, acconsentire agli onori che gli venivano tributati –, tuttavia egli sapeva benissimo che il suo percorso era antagonista alla lettura prioritaria della letteratura italiana, impostata sull’orizzonte puramente storico. Certo, Luzi sapeva bene che l’uomo si comprende nella storia, ma riteneva con forza che non si potesse dimenticare il rapporto dell’uomo con la natura e con il reale nel senso pieno.
L’uomo come impronta
Avventurandomi su una lettura più personale, cui contribuisce probabilmente anche la mia gratitudine, credo che, come accennato, Luzi abbia interpretato la propria riflessione sul ruolo dell’uomo nella natura in chiave ossimorica e ancora una volta confrontandosi direttamente e dialogicamente con Leopardi. Il poeta di Recanati, infatti, sentiva che l’uomo è un “quasi nulla” nella natura, muovendosi egli stesso intorno a un ossimoro. Quando osserva le stelle, sosteneva Leopardi, l’uomo si sente quasi un nulla. Ma cosa significa tale essere “quasi nulla”? O l’uomo, infatti, è nulla o è un quasi. Uno strano avverbio, questo "quasi" che, di fatto, nega la pienezza di ciò che accompagna, anche se sembra non volerlo fare. Leopardi parlava dell’uomo come di un quasi nulla, faceva sentire tutto il nulla dove, tuttavia, qualcosa sembra esistere ancora: la ginestra e il vulcano, con il solito ossimoro di presenza-assenza, vuoto e pieno.
Credo davvero che Luzi abbia portato soprattutto questo grande contributo di una lettura dell’uomo come vuoto e pieno. Un’antropologia che deve nuovamente tenere insieme le due cose: non l’uomo solo come vuoto né l’uomo solo come pieno. E che cos’è che è vuoto, ma è allo stesso tempo pieno? È l’impronta. Essa, infatti, è una cosa che è vuota, ma anche piena. Pensate all’elefante che lascia nel fango un’impronta: quell’impronta è vuota, ma è anche piena della presenza dell’elefante. Ecco, Luzi ha portato in scena un uomo così, un uomo che è vuoto e pieno, ma che è vuoto e pieno perché è un’impronta.
C’è una bellissima poesia che voglio leggere, tratta da Sotto specie umana del 1999, e che è stata scelta come titolo dell’edizione 2015 del meeting di Rimini, come omaggio a Luzi e a quello che in essa si dice:
Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne sei pieno?
di che? Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…
Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo
che ora perché agonizzi non ascolti.
Ma c’è, ne custodisce forza e canto
la musica perpetua… ritornerà.
Sii calmo[4].
Quest’invito dell’anziano poeta a dire: calma, uomo, calma, non cedere alla frenesia o alla nevrosi, calma. C’è un vuoto e un pieno e questo vuoto non è fatto per il vuoto, ma è un vuoto che è un’impronta: «ritornerà. Sii calmo». Ora «agonizzi e non ascolti», dice la poesia, però non c’è solo la tua agonia: ascolta, ascolta bene. In effetti, tutta la poesia finale di Luzi è un grande invito ad ascoltare, a ricominciare ad ascoltare. Quando Luzi parla di sé come di un eterno principiante, soprattutto nelle ultime raccolte, parla di un uomo che deve come ricominciare ad ascoltare questa voce che c’è, questa realtà che c’è.
Dunque, il vuoto e il pieno, l’impronta, quasi come emblema della poesia di Luzi nella parte finale che, secondo me, ha un punto geniale di concentrazione in una poesia che è precedente, anche se tutta la poesia di Luzi è un tempo unico che va – a mio avviso – dal Battesimo dei nostri frammenti fino alle ultime opere recentemente raccolte da Verdino anche nel grande libro Garzanti. Un tempo speso in profondo dialogo con la poesia italiana di tutti i tempi. In effetti, un poeta italiano che riusa la parola “letizia” come Francesco, poi ha fatto i conti con Leopardi per tutta la vita, inoltre intitola un’opera importante Per il battesimo dei nostri frammenti, dialogando esplicitamente con Petrarca, è davvero un poeta che accetta di fare i conti con la totalità della tradizione italiana: non ci sono esclusioni, e si pensi al grande amore per Dante che ha sempre coltivato. Luzi è un uomo che ha fatto i conti con i grandi laboratori della poesia italiana, non ha percorso un suo viottolo separato.
È amare che «ti parifica al mondo»
In quella raccolta, dunque, che è l’origine di un nuovo grande periodo, Luzi scrive una poesia molto bella. E vi afferma che la posizione dell’uomo nella natura si qualifica per una cosa straordinaria che non è la sua intelligenza: anche Francesco, nel Cantico delle creature, non indica come qualità dell’uomo l’intelligenza, indica la capacità di perdonare: «beati quelli che perdonano». Di fatto, l’uomo è l’unico essere nella natura che ha una qualità “strana” che è l’amore libero, poiché il perdono è l’amore più libero: chi perdona compie l’atto di amore più libero, più assoluto. Peraltro, in un libro che ho scritto da poco, L’amore non è giusto[5], mi soffermo sul fatto che il perdono è un amore ingiusto. E l’amore per fortuna è sempre ingiusto: un amore giusto sarebbe una cosa da poco. Questa ingiustizia dell’amore è esattamente il contributo che l’uomo dà alla natura.
E c’è, appunto, una poesia molto bella da Il battesimo dei nostri frammenti, in cui Luzi – e ci fermiamo a un livello più immediato di lettura – fa dire queste parole:
Dove emerge una finezza psicologica: se sei molto amato, forse ti vengono anche tanti rimorsi, perché sei amato molto più di quello che meriti. Se sei molto amato e sei cosciente di esserlo, probabilmente ti vengono in primo piano anche i tanti difetti che hai per cui non meriteresti di essere così tanto amato. Questo sta dicendo Luzi. E poi aggiunge:
Posso,
sì, averlo udito
perdutamente
parlare così il discorso…
E intanto
taceva il suo contrario
in ogni lingua
ma io lo ricordavo,
per me era presente:
«Amare,
questo sì ti parifica al mondo,
ti guarisce con dolore,
ti convoglia nello stellato fiume
e sono
dove tu sei, si battono
creato ed increato,
allora, in un trepidare unico.
Allora, in quel punto». Lo ricordavo[8].
Scena meravigliosa, quella descritta in questa poesia, dove quest’uomo dice: ricordo due discorsi che si contendono. E il discorso che ricorda in qualche modo è che è amare che «ti parifica al mondo». Amare e non essere amato: non l’essere amato riduce la solitudine e ti parifica al mondo, ma l’amare. Questa è una verità psicologica enorme che ognuno di noi ha sperimentato, perché non sei contento quando sei amato, ma sei contento quando ami, perché se non ami non sei felice. Luzi sta dicendo esattamente che il contributo e il ruolo che l’uomo porta e che lo fa sentire al proprio posto nel mondo – e sta qui, credo, la radice di un nuovo umanesimo – è la capacità di amore alla realtà.
E questo amore, per tornare al punto d’inizio, ha a che fare con la conoscenza. In questo senso, Luzi è un poeta che riallaccia veramente, bruciando quasi secoli e millenni, il tempo che viviamo con una delle grandi questioni che si sono dibattute a Firenze non solo tra il 1000 e il 1300 fino al 1500, appunto il ruolo dell’amore nella conoscenza: qual è il rapporto tra amare e conoscere? Pensiamo di poter conoscere il mondo senza amarlo? Pensiamo di conoscere l’uomo senza amarlo? È possibile una conoscenza che non ama?
In questo senso, Luzi non è solo molto contemporaneo, ma anche molto futuro.
[1] Cfr. M. Luzi, Seme, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in Id., L’opera poetica, a cura di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998, 1099ss.
[2] Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII,86-7.
[3] M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in Id., L’opera poetica, cit., 1120.
[4] M. Luzi, Sotto specie umana, Garzanti, Milano 1999, 190.
[5] CartaCanta, Forlì 2013.
[6] M. Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, in Id., L’opera poetica, cit., 555.
[7] Ivi.
[8] Ivi.