Lei è sempre in crisi ma la crisi è la sua gloria
Lei è sempre in crisi ma la crisi è la sua gloria. La poesia, e in modo speciale questa italiana, che ha nelle sue radici il cantico stupefatto e affranto di Francesco, il grido di Jacopone, lo sperdimento di Dante e la tesa nostalgia di Petrarca, come può non essere sempre in una crisi che è anche la gloria? Crisi di statuti formali, o più esattamente messa in questione, frattura e rammagliatura di materie, ritmi, e se fosse corpo direi di nervi, giunture, da parte di tanti poeti sui precedenti. Nessun gran poeta italiano è “erede” di un altro. L’eredità è concetto economico, sociale o ideologico che in poesia si sfuma in un altro, più drammatico e vitale: ci sono figli. E come i figli, pieni di ribellioni e di nascoste gratitudini e debiti. Di somiglianze ma anche di distanze abissali. E dunque per avvicinarsi ai nostri giorni, mentre una casta editoriale che avrebbe tra le mani tesori di poesia li lascia inerti o svende l’anima sorda a pure logiche mercantili da cui poi viene divorata e sputata essa stessa, ci sono ovunque i segni di una nuova poesia italiana viva, intensa, in crisi gloriosa. Certi critici manco se ne accorgono. Perché hanno occhiali vecchi, o antichi risentimenti o forse modelli da cui non vogliono staccarsi. Ma la poesia va avanti nonostante i critici. Nemmeno la quotidiana, quasi totalitaria distruzione dell’esperienza poetica che avviene nelle nostre scuole non riesce a spegnere l’amore e la ricerca di poesia. E nonostante l’ignavia di editori che hanno ereditato marchi gloriosi per la poesia. Se si ha la pazienza di guardare, di ascoltare, si vedono i segni di una poesia italiana viva e in cerca. Ci sono ragazzi di venti, trent’anni che hanno intrapreso un cammino arduo ma significativo, i nomi sono tanti, sparsi per la penisola e agglomerati in riviste, amicizie, sodalizi o sperduti. Ci sono poeti delle generazioni precedenti ormai riconosciuti, diversi e di ottima e rischiosa voce. Alcuni nomi tra i cinquanta-sessantenni, da Milo De Angelis a Umberto Fiori, da Roberto Mussapi ad Antonella Anedda a Giuseppe Conte a Mario Benedetti, da Maurizio Cucchi ad Alba Donati – e poi altri meno conosciuti o più giovani ma non meno degni come la compianta Giovanna Sicari o Ida Vallerugo o Gianfranco Lauretano o Franca Grisoni o Tiziano Broggiato. Ma sono molti ed elencarli non serve. Anche perché non cessa la sorpresa di trovare nuovi poeti – come l’appena edito in Marietti Antonio Trucillo – di densità straziante e composta, o ragazzi al primo libro come Roberta Sireno, edita da Raffaelli, di violenza formale e desiderata felicità. L’attenzione riservata alla poesia dai media o dagli editori non va confusa con la vita reale della poesia. La quale anche nella nostra fortissima tradizione va cercando nuove strade continuando a rileggere le percorse. Così, ad esempio, la crescita profetizzata da non molti di un poeta come Caproni, o la voce di un Testori poeta che sarà tra poco raccolta in un Oscar Mondadori, o la perdurante se pur discreta maestria gentile e alta di Mario Luzi, e una nuova forma di epica sincopata stanno muovendo le cose in avanti e modificando la coscienza di quelle passate. Così come la influenza di poeti non italiani (da Heaney A Walcott, da Milosz a Murray) che hanno smascherato anche una certa provincialità di nostri “totem” e stanno ridisegnando una mappa del Novecento recente forse sbrigativamente racchiusa tra post-montalismi e sperimentalismi ideologici e aridi. In questa mappa si muovono tanti figli, pure bastardi, dei grandi poeti italiani. Ognuno con una voce nuova, sorprendente. In crisi, cioè nella gloria profonda dell’umano.