Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Pascoli, il canto della sperduta piccolezza

Sempre più magnetico. Più vorticoso. E sfuggente. Così ci appare, e si impone, sempre più grande, la figura di Giovanni Pascoli a cent’anni dalla morte. Poeta che glorifica e annulla la lingua nel momento in cui la resuscita continuamente – la sua “lingua morta” di poesia, così postuma e fervida. Ha anticipato e reso vacue tante sperimentazioni successive. Come l’altro suo avverso sodale, vicinissimo e lontanissimo D’Annunzio. Si oppongono, ma sono su due versanti della stessa discesa tragica. La tragedia dell’io decadente, dell’io che cede, non ha appigli, non ha “tu” a cui veramente affidarsi. Né in cielo né in terra. Uomo nomade, come stavano predicando negli stessi anni Nietzsche e altri. L’io pieno di affetti e di nessun legame si riempie di tutti i suoni, di sensazioni, si fa l’anima “mostruosa” come aveva indicato Rimbaud, ragazzo padre della poesia contemporanea. Pascoli e D’Annunzio sono due grandi tragici alle porte del Novecento italiano. Poeti preziosi e meravigliosi dell’io che decade, che perde ogni energia mentre pur si fa circondare e traversare d’ogni sonora gloria, d’ogni finezza, acceso di febbre percettiva e risonante di prodigi verbali. Se il Vate bruciò fino alla fosforescenza la lingua e se stesso usando i materiali e le occasioni dell’esistenza e del gusto dell’alta borghesia (gusto spesso pure mediocre – ma che importa, quegli smalti, le decorazioni erano roba che ardeva bene…), l’altro, non meno tragico maestro di preziosità, usò per la sua partitura e la sua pira i materiali bucolici e minimi della ferialità, saperi antichi e nuovi e le campiture infinite del latino. Con puntiglio da professore di liceo o di erudito di campagna, Pascoli colleziona nel nido vuoto della sua poesia un mondo che va da nomi dimenticati d’ornitologo agli scontri tra le galassie studiate e copiate dal Flammarion, dai proverbi romagnoli alle incursioni dell’inglese, nuova lingua d’impero nel tessuto italico. Poeta di passaggio come archi possenti sotto cui abbassarsi. E da lasciarsi alle spalle, qualora se ne abbia la forza che proviene solo da una altrettanto violenta combustione. Pascoli ormai è finalmente uscito dalle cantine del patetico in cui una critica scolastica voleva relegarlo per paura delle ombre che nell’opera si agitano.

Poeta del dettaglio e di cosmogonie, curvo sulle myricae e attonito spettatore d’un misterioso nulla universale, Pascoli racconta di aver assunto la sua attitudine poetica in certe sere in cui la madre, vedova per l’omicidio del marito, stava davanti a casa a fissare chissà cosa all’orizzonte. Uno sguardo vedovo, dunque. E cosa è uno sguardo del genere? È pieno di una presenza e di una assenza contemporaneamente. Sguardo che vede l’assente. Fissa chissà cosa. Avverte la presenza piangendone l’assenza. Uno sguardo “doppio” diceva Leopardi, supremo fanciullino, secondo il poeta romagnolo. Ma in Pascoli “doppio” per una divorante compresenza, o co-assenza. Lo sguardo delirante non è uno stato eccezionale, ma normale. L’orfanità è diventata poesia. L’aveva anticipato il ragazzo padre che diceva di non aver «precedenti in nessun punto della storia di Francia». Al massimo grado lo sguardo vedovo, la sperdutezza dell’orfano entrano nella nostra poesia con Myricae, i Canti di Castelvecchio e i Primi e i Nuovi poemetti. Non si tratta naturalmente di leggere l’opera con chiavi biografiche. Tale metodo pieno di guasti lo lasciamo a maestrini che di fronte alla forza e allo sgomento di certi versi non sanno cosa dire e si rifugiano nelle pagine di orrendi sussidiari, pur di non dover aprire l’anima e le loro ferite di fronte ai ragazzi. Come se quei ragazzi stessero nei banchi aspettando un sapere da sussidiario… No. È che in Pascoli la corrispondenza tra quanto avviene nella vita e quanto accade nella poesia è evidente.

È l’opera – basta leggere – a suggerirci come nella infinita vastità dei mondi, colti in scala minima o in vasti abissi dal poeta, la voce dell’uomo è solitaria, smarrita. Pochi sanno come Pascoli darci la misura della nostra sperduta piccolezza. Della vastità della vita che ci sovrasta. L’uomo sulla scena che Pascoli ritrae tra cardellini, rondini, forasiepe e tra galassie, bufere e collassi del sole, è un uomo solo. Non ha un “tu” a cui rivolgersi mai, se non fragile, passeggero, e si tratta d’una compagnia malinconica e paurosa tra orfani. Ebbe un senso del mistero violentissimo. Per questo Pascoli amò Dante che dalla morte trasse vita, come dice nei suoi saggi. In quel mistero Pascoli non alza mai una domanda, una preghiera. O s’accenna confusa in un ricadere di commiserazione, di compatimento. A cent’anni dalla morte si stanno aprendo convegni, letture, iniziative meno barbose (tra cui un omaggio a Bologna di poeti contemporanei, e una cena in suo onore a Bertinoro a pochi passi da dove nacque). E certo Pascoli merita che accanto ai doverosi nuovi sondaggi specialisti ovunque in Italia ci si alzi in piedi per onorarlo, ascoltandone la voce, la meraviglia, la così vitale ferita.

Leggi anche: Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio

One Reply to “Pascoli, il canto della sperduta piccolezza”

  1. Mi deve scusare, signor Rondoni, ma soltanto oggi ho letto via Internet la sua poetica nota sul Pascoli, sul quale ho fatto una ricerca diversi anni fa poiché il poeta è capitato a Jesi per esaminare un religioso umanista da lui abilitato ad insegnare latino e greco nel ginnasio della mia città. Ho letto il Suo scritto per il fatto che ho cercato su Google notizie circa il “Saggio su Pascoli” di Renato Serra, ma senza successo. Mi interessa possibilmente leggerlo in quanto ho intenzione di scrivere qualcosa sia su Serra che su Gobetti per i quali ho già in mente il titolo, che è il seguente: “Due giovani vite vittime della Storia”. Lo so che non c’è una diretta relazione tra i due, né dal punto di vista letterario né da quello storico e politico, ma mi intriga il fatto che due così brillanti intelligenze sono state spezzate precocemente agli inizi del Novecento dai fatti drammatici di quel periodo. Lei conosce il saggio del Serra e me ne può dare contezza? Non credo che nella biblioteca Planettiana di Jesi ce ne sia una copia, comunque me ne informerò. Le dico infine che posseggo invece il saggio sul Pascoli scritto da Benedetto Croce al quale Serra risponde col suo intervento saggistico, dandone un’immagine diversa da quella crociana improntata negativamente sulla categoria del decadentismo. La saluto cordialmente.

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