Poesia e musica

Poesia e musica

Articoli e poesie sulla canzone. Poesia e musica intrecciate nelle parole. Interviste con artisti e cantautori. 

Musica

Poesie

A Lucio Dalla, in mortem, ah cazzo

da Rispondimi, bellezza, Pellegrini editore, 2023

Piccolo come un figlio adottato da tutti
strano come un consiglio, un accordo
che non t’aspetti

avevi un milione di parole da suonare
ma chi sa quanto silenzio
hai dovuto traversare –

e ora che tu e Dio vi guardate sbigottiti

il primo a rompere il ghiaccio sarà lui.
Allo sguardo da cocker e angelo che farai
dirà “qui c’è una nuova differenza
tra musica e silenzio, sai.

E ora fammi una tirata delle tue non-parole,
ogni mattina le voglio canticchiare
faremo coppia, comincia tu
chiameremo fuori là il sole, lo vedi?

sul mare”.

Canzone napoletana

Sei arrivata in macchina con Pino
non immaginavo che fossi il mio destino

la città era sognante, caotica e regale
il treno mi lasciò lì con il mio bene il mio male

si pensa sempre di aver qualcosa da fare
mentre invece la vita è fatta per trovare

mio destino, mio dolce mastino
mio destino, mio dolce mastino

Non ho segreti, non ho giustificazioni per te
l’amore un movimento più grande dei perché

cosa nasce dalle nostre risate e dai silenzi improvvisi
il golfo è nostalgia dei tuoi sorrisi

mio destino, mio dolce mastino
arrivavi in macchina quel giorno con Pino

E la città cantò che sa solo cantare
la città suonò che sa solo suonare

per la vita poi ci si può arrangiare
qui dove importa solo ridere e amare

Mio destino, mio dolce mastino
afferra, non mollarmi il cuore

mordi più a fondo se devo affondare
nelle onde e nella luce pazza del mare

la vita è la nave, le vele sempre più grandi
da seguire e imparare a navigare…

Mio destino, mio dolce mastino
non andartene via in macchina con Pino

accetta il mio bacio sperduto, il mio inchino
vieni come fa Dio, infinito e vicino…

I video

Sulla canzone romagnola, liscio e cante, e certi modi di dire

XIII

“Canta che non ti passa mica, e quindi devi cantare sempre”
Secondo Casadei

Il liscio romagnolo è una invenzione pura. Nel senso che le sue radici non sono veramente nella musica o canzone popolare romagnole. Le cante romagnole, i canti dei contadini, dei braccianti, dei lavoratori e delle donne, non banno nulla di quel che oggi conosciamo come l’armamentario allegro, luccicoso e pop del liscio. L’inventore del liscio romagnolo avrebbe dovuto fare il sarto, ma era innamorato del violino, ed è stato un geniale divulgatore della musica dei ricchi (il valzer) nelle aie, nei circoli, nelle piazze, nelle balere dei semplici e dei poveri. Secondo Casadei, denominato lo strauss di Romagna, ha composto più di mille canzoni. Partito con una orchestrina di sei persone ma già innovatore con l’inserimento di sax e batteria su un organico composto da chitarra, due violini, basso e clarinetto, si ritrovò in vent’anni, unendosi poi al nipote Raoul suo continuatore, in un orchestrone che suonava tutti i giorni dell’anno eccetto il 2 novembre, il primo giorno di Quaresima e la vigilia di Pasqua.
“Romagna mia” il suo successo più noto nel mondo (cantato in vari modi da Gloria Gaynor, Jovanotti e Goran Bregovich, ma canticchiato pure da Giovanni Paolo II) nacque quasi casualmente. Durante una delle registrazioni a Milano presso la Voce del padrone (un certo successo era già arrivato) un sassofonista aveva la raucedine e andava sostituito un pezzo. In borsa Casadei aveva un valzerino che teneva per ogni evenienza e che aveva titolato “Casetta mia”. Il direttore artistico della casa discografica, l’occhiuto Dino Olivieri, autore anch’egli di canzoni memorabili, suggerì di intitolarla “Romagna mia”. Casadei accettò e dopo qualche settimana dall’uscita del disco si accorse che un facchino in stazione ne canticchiava il motivo. Quello era il suo scopo, un po’ di oro in gola ai semplici. Quello per lui il test. Così come diceva ai suoi musicisti – a volte veri mostri che smessi i lustrini delle pailettes dell’orchestra Casadei come di altre mitiche orchestre di liscio la sera con nomi americanizzati incantavano nei jazz club o nei locali più colti- che il liscio non sarebbe mai finito finché ci sarà una persona che ha voglia di ballare. E infatti, dopo l’esplosione che il suo continuatore Raoul, vero leone del liscio, e ora che pronipoti e seguaci di nuova e nuovissima generazione continuano a interpretarne le canzoni e lo spirito, rinnovando e mescidando forme e generi, il liscio in Romagna sta conoscendo nuove fortune, grazie anche all’animo di fiutatori dei gusti musicali d’avanguardia e dei curiosi rivolgimenti delle mode come Sangiorgi, patron del festival della musica indipendente che ha inventato “La notte del liscio” con grande successo e la partecipazione di centinaia di migliaia di persone.
Il liscio è musica da ballo, e da compagnia. Le cante romagnole, struggenti e bellissime, sono spesso canti di lavoro, elegie, inni d’amore solitari. Esprimono il lato malinconico e duro dell’animo romagnolo, quello in un certo senso più vero, il tellurico, il magmatico da cui sa erompere anche la allegria, mai leggiadra o stupidotta, del liscio e delle sue canzoni dal testo a volte surreale e inventivo. “Tu sei la mia simpatia”, “Ciao, ciao mare”, etc sono motivetti di poche note (come ogni vero musicista sa che dev’essere una vera canzone) che esaltano la Romagna estiva, dei corteggiamenti allegri e da cartolina. Con punte di suprema ironica saggezza. Come ad esempio in quello che ritengo essere un manifesto per le ragazze romagnole. Sono le parole tratte da “Simpatia”

Tu sei la mia
simpatia
simpatia
simpatia…ah ah
il tuo sorriso
è una canzone
su quel musetto
acqua e sapone.
Io ti darei
tutto quello che vuoi
ma tu non chiedi mai
tu solo dai!
E sei la mia
simpatia
simpatia…ah ah
simpatia.
E sei felice
anche con poco
una carezza
e un po’ di fuoco…
e t’accontenti
d’una bugia
simpatia
simpatia.

Un vertice assoluto…. “Io ti darei/ tutto quello che vuoi/ ma tu non chiedi mai/ tu solo dai”. Le ragazze sorridono, capiscono, non sono acide femministe, sono femmine e sanno che sotto non le metti.
Questa gratuità della gioia, della offerta, dell’allegria, è un vertice del senso romagnolo del vivere nel suo aspetto lucente e appassionato.
Così come all’opposto – un opposto che sempre si tiene al suo contrario- in testi come La majé, la maggiolata, scritta da Aldo Spallicci e musicata dal geniale compositore Cesare Martuzzi a inizio ‘900 come rifacimento dello stile delle più antiche cante, abbiamo invece la assolata e stordita campagna, il gallo che canta e che alza la cresta (allusione freudiana?) e i rami di fiori sulla finestra sia come ornamento che come deterrente per le formiche. Un mondo contadino, immerso nelle durezze e nei ritmi lenti della terra, attento, come nel capolavoro “Bèla burdèla” alle finezze sensuali di una bellezza mai sofisticata e mai banale.
I “canterini romagnoli” coro nato dal sodalizio Spallicci – Martuzzi era composto da gente che non sapeva leggere la musica e allora Martuzzi inventò un modo per loro, per insegnargliela. Perché il romagnolo vero canta, comunque.
Come scrive in una bellissima e breve poesia di Walter Galli, poeta di Cesena.

Lo e chènta

Ala vetta duna piòpa / o tra aglj ombri d’un macion/ echènta dala matèna ala sera /chlè un piaser a santil. //Me a vreb dmandéi duchu sla chèva fóra / totta cla vója ad cantè /che t sint chu i dà cun un góst/ una fórza un’alegria,/ che pè chu jépa da s-ciupè e cór:/ e un nè che un uslin./ Un cuslin da gnint/ cun la vita lighida a un fil / chebasta un spanèl dneiva/ la sfrómbala d un burdèl/ un gat chu i sèlta adoss / e lè zà mórt: un pogn d penni e basta. /A lsal? a nesal? Lo e chènta.

Lui canta. Sulla cima di un pioppo
o tra le ombre di una macchia
canta dalla mattina alla sera
che è un piacere sentirlo.

Io vorrei chiedergli da dove se la tira fuori
tutta quella voglia di cantare
che senti ci mette un gusto
una forza un’allegria,
che sembra gli debba scoppiare il cuore:
e non è che un uccellino.
Un cosino da niente
con la vita legata a un filo
che basta una spanna di neve
la fionda di un ragazzo
un gatto che gli salta addosso
ed è già morto: un pugno di penne e basta.
Lo sa? Non lo sa? Lui canta.

Ma da dove viene questa allegria che romagnoli portano sempre nel mondo, anche nei più cupi momenti o quando le ombre della fatica s’addensano? Quella attitudine per cui anche ai funerali c’è quello che la patacata la dice e fa sorridere, o che sdrammatizza anche in situazioni di rischio come sintetizza il detto origine ravennate:
a s‘avem d’anghèr ma us divertèsum – abbiamo avuto da annegarci ma ci siamo divertiti

Eh, da dove viene?

Da dove viene questo estremo senso della allegria, quasi strappata coi denti alla notte, un’allegria barbara e a volte feroce e pur capace di dolcezze mai svenevoli?
Credo che venga pur con mille imbastardimenti direttamente dalla natura latina, romana. Un segno ereditario che viene direttamente da Cicerone o Catone o Virgilio o Orazio… Insomma dal midollo verbale della latinità. Si tratta, infatti, quasi sempre di un’allegria verbale, legata alla sapidità dei motti, alle battute, alla capacità poetica del linguaggio.
Parole come Patàca, sburon, su cui abbiam già detto o altre espressioni come invell, da nessuna parte, malèta sacca maschile dei maroni, invurnid, invornito, rincoglionito, quaioni, smataflòn etc. sono alla base della allegria dei romagnoli, che appunto è una allegria di tipo “espressivo” ovvero retorico, nutrito da antiche linfe di retorica e oratoria latina poi arricchita dai colori di tutte le lingue. Un romagnolo soprattutto fa ridere per come parla, per quel che dice.
C’è una capacità del narrare colorito che sicuramente viene dalle antiche veglie (così come avviene per l’abitudine del “Trebbo poetico” antenato verace dei festival di poesia e dei patetici poetry slam odierni).
Come dice questo efficace quadro tratto da una canta dei Canterini Romagnoli.
E’ e cunté e’ rapeva pr e’camèn/ do che sbruntleva in gran sgumbéj la bura/ ch’la purteva a la nota e al stël là fura/ al parôl banadeti d’avless ben (E il raccontare saliva per la coppa del camino/ dove sbrontolava in gran scompiglio la tramontana/ che portava alla notte e alle stelle là fuori/ le parole del volersi bene)
Non è un caso che tutti i nostri maggiori scrittori, da Dante a Leopardi, a Manzoni abbiamo dovuto mentre scrivevano affrontare una “questione della lingua” italiana, facendo grande attenzione al rapporto coi dialetti e con le vive mutazioni.
Il giornalista e scrittore Paolo Gambi sul suo sito ha lanciato una specie di “contest” cioè un gioco chiedendo ai romagnoli le parole che il mondo ci invidia, ed è un susseguirsi spumeggiante di invenzioni linguistiche, così come lo sono i nostri proverbi.
In questo, come aveva visto un grande poeta russo, Osip Mandel’stam, sta una natura tipica delle lingue che si sintetizzano e al tempo stesso si nascondono nell’italiano: l’esser pronunciate con movimenti della lingua che batte sui denti, e poi con le labbra, insomma con una natura affettiva e teatrale, una lingua tutta volta all’infuori, come un bacio, un saluto. Una lingua degli affetti, che non a caso trova nel canto e nella poesia la sua massima espressione. E nella oratoria, specie comica, come dimostra il fatto che tutti gli importanti comici italiani sono “dialettali” o venati di dialettismi. Nel romagnolo si esalta questa qualità generale dell’italiano sorto dalla grande latinità, nel suo “involgarirsi” e nell’incontro con espressioni e influenze che vanno dall’arabo al germanico. E l’allegria appunto è innanzitutto una allegria espressiva, linguistica.
Adamo, che sicuramente era romagnolo, aveva dato un sacco di nomi divertenti alle cose nel paradiso terrestre.
Alla talpa che era un po’ cieca diceva “Tan vì un prit in tla nèiva: Non vedi un prete in mezzo alla neve”
Oppure, quando vedeva che non gli riusciva di tenere ferma una gallina per dargli, appunto, il nome gallina diceva: “L’è com lighì e chèn cun la zunzezza: È come legare il cane non la salsiccia”. E quando si metteva a tavola nel Paradiso terrestre, sentenziava, da solo, beato: L’è mei avèi e coul sèn sotta i calzoun rot che i calzoun sèn soura e coul rot: È meglio avere il culo sano sotto i calzoni rotti che i calzoni sani sopra il culo rotto. “E poi, soddisfatto: “La pida cun e parsot la pis un po’ m’a tot: La piadina col prosciutto piace un po’ a tutti.
Poi quando Eva, nonostante Adamo le continuasse a dire “T’e da scorr quant al pessa al galèni“: Devi parlare quando pisciano le galline (Un modo per dire di stare zitti), lei gli ha fatto una gran maletta (termine di ascendenza spagnola che da valigia diviene sacca dei maroni), tanto che gli strisciava per terra, con la storia della mela e del serpente, e dai su sta mela, dai su sto serpente, lui che era uno sborone, ha fatto la patacata…
E anche trovandosi in terra, in questa “valle di lacrime” come sapevano mia nonna e Leopardi, non ha perso però il suo modo colorito di dire le cose. E ha chiamato le cose con il loro nome, compreso le malattie, ma a suo modo… L’è scorg cme e caval ad Scaia e dla bocca u’s ved e bus de coul: È piagato come il cavallo di Scaia e dalla bocca gli si vede il buco del culo (Detto di persona gravemente malata e magra).
E alla moglie che ancora gli sfrantumava i maroni dicendo che era colpa sua di lui se non eran più in Paradiso, Adamo, addentando una giuggiola, faceva solo: Un s’fa un fòss senza do rivi: Non si fa un fosso senza due rive. Come dire che in certe cose la colpa non è mai da una parte sola.
Poi stendeva le gambe sotto il tavolo e cantava “La vita tocca del Paradiso il confine/ quando vedo le piadine, il mare, le colline…”

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